di Vincenzo Maddaloni

Poco se ne legge. Probabilmente rientra in una qualche strategia. Molto in Italia vi contribuisce pure il chiasso intorno alla rinuncia di Veltroni a ricandidarsi, ai dubbi di d’Alema, a quel torbido agitarsi degli amministratori della politica, su quella sorta di terra di nessuno retorica piena di discorsi ufficiali incomprensibili, che non hanno nulla a che vedere con quella che chiamiamo la vita reale. Infatti, la gente li segue sbadigliando e non s’accorge di essere privata del suo potere politico, mentre si riducono gli spazi di democrazia.

Probabilmente è questa una novità storica legata a un’ennesima “deviazione” del capitalismo. Almeno questa è l’opinione del filosofo sloveno Slavoj Žižek, secondo il quale  esiste una volontà diffusa tra i poteri che mira a scardinare il concetto di democrazia, azzerandone il valore etico. L’obiettivo è di adoperarsi in modo che la gente accetti il principio secondo il quale i meccanismi democratici non sono indispensabili al progresso della società, peggio ancora che essi esprimono un rituale completamente vuoto. Beninteso questo non è ancora accaduto in Italia, ma diciamo che con il governo Monti la tendenza si è accentuata.

Infatti, Žižek  in un articolo - Capitalism, How the left lost the argument - apparso sull’ultimo numero della rivista Foreign Policy analizza il progressivo allontanamento del capitalismo dalla democrazia citando ancora una volta il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, il quale gli confessò che, «dovendo immaginare in onore di chi si costruiranno statue fra un secolo, aveva indicato Lee Kwan Yew, per oltre trent’anni Primo ministro di Singapore. Poiché è stato lui [come gli ricordava l’amico Sloterdijk] a inventare il modello che si è rivelato di grande successo e che poeticamente potremmo chiamare capitalismo asiatico: un modello economico ancora più dinamico e produttivo del nostro, poiché può fare a meno della democrazia, anzi funziona meglio senza democrazia».

Sicché per Žižek  siamo di fronte «a un fenomeno nuovo che segna l’inizio di un’epoca nuova». Quel che oggi sconcerta non è la critica alla democrazia in sé, ma la mancanza di un’analisi chiara e obiettiva per comprendere perché, «la democrazia si stia autodistruggendo, e perché in un simile scenario la sinistra si stia rivelando pericolosamente miope, incapace di argomentare».

Naturalmente Slavoj Žižek non si sofferma sull’Italia. Egli spazia sulla realtà globale la quale è accomunata dall’identica minaccia poiché i grandi conflitti, come la crisi finanziaria ad esempio, «sembrano richiedere un “governo di esperti” molto decisionista, che si esprima su quel che occorre fare e lo metta rapidamente in atto senza tanti salamelecchi». Come quello di Monti, infatti.

Beninteso non è l’inizio di una dittatura, ma di una democrazia sui generis che si impone attraverso un’unione paradossale di populismo e di tecnocrazia che lascia campo libero all’ambizione di politici, degli imprenditori, dei teorici, dei portaborse, di uomini senza scrupoli che traggono vantaggio dalla paura e dalla demoralizzazione della gente, e soprattutto dalla mancanza di un’opposizione. Così giorno dopo giorno la democrazia perde di fascino, sebbene la si continui a sostenere con le parole e con gli scritti ben sapendo che funziona sempre meno nei fatti.

In Italia la sinistra sembra non accorgersene. Ogni fazione s’aggrappa al suo dogma e ne ha cura come fosse l’unica pianticella che conti. La pianticella che conta dovrebbe essere invece la realtà, con le domande che essa suscita man mano che l’azione le plasma, le trasforma. Invece come ha scritto Alberto Asor Rosa sul Manifesto «c'è in giro, a sinistra, una voglia di frammentazione crescente, una sorta di voglia (del resto assai ben nota) di sopravanzare tutti gli altri in purezza, correttezza, squisitezza di programmi e di idee. È la libidine della sconfitta, che tanta prova di sé ha dato in passato nell'impedire il raggiungimento di risultati già quasi certi e nella dilapidazione di risultati già raggiunti». Se così è allora perché scandalizzarsi se in questo stordimento multimediale che traduce tutto in tragedia del mero presente non si offre un minimo approfondimento che non sia strumentalizzato.

Infatti è sufficiente aprire un canale qualsiasi della televisione, anche quelle locali, per capire che la “libertà d’informazione e di critica” e “l’obbligo inderogabile del rispetto della verità sostanziale dei fatti” vengano violati di continuo. Le notizie proliferano, ma le garanzie di affidabilità sono quasi inesistenti, è sempre più difficile essere informati, è sempre più difficile capire ciò che sta accadendo - come lo è infatti l’aumento delle disuguaglianze - perché le notizie chiarificatrici quasi sempre vengono nascoste dietro un gigantesco gioco di contraddizioni.

Tuttavia, continuiamo ad assistere al trionfo del giornalismo speculativo e spettacolare, a scapito di un giornalismo di informazione che non viene incoraggiato e che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla. Sicuramente siamo molto provinciali. La politica estera attira soltanto in casi di guerra aperta e totale oppure se è collegata con polemiche di politica interna. Chi è con Israele e chi contro. Chi è con Obama o con Merkel.

Il Papa, che dovrebbe far notizia soltanto quando viene eletto dal Conclave o quando muore, nelle tv italiane appare in continuazione, credo per un ossequio radicato. Sicché non fa meraviglia se a colloquiare col presidente della Repubblica italiana, la massima autorità dello Stato vaticano deleghi - è accaduto ad Assisi qualche settimana fa - il cardinale che da trent’anni è ospite fisso della tv di Berlusconi, a conforto di un’abitudine che privilegia l’entertainment in ogni forma di confronto, quello sul sacro incluso.

Dopo tutto l’entertainment è diventato una prassi coltivata, accreditata da mille e uno talk show, tavole rotonde, opinioni a confronto, primi piani, nei quali bisognerebbe privilegiare i fatti senza alimentare il clima di contesa e di scontro per aumentare gli ascolti». E’ in questo vuoto che si fa largo il capitalismo-autoritario descritto da Žižek o quello che il filosofo tedesco Sloterdijk ha chiamato dai valori asiatici. Esso si rafforza in un certo tipo di società, quella animata dalla volontà di potenza, attratta dalla voglia di godimento sebbene esse alimentino le disuguaglianze e quindi producano nuova disumanità.

Tuttavia, il diritto al godimento consumistico, diciamo così, è la promessa elettorale degli ultimi vent’anni in Occidente. La politica è assolutamente supina nei confronti di questo modello.

E’ questo trionfo del bourgeois sul citoyen che mette in difficoltà la sinistra, la quale cerca di cavarsela sostenendo che tutte le forme di vita vanno bene, però non c’è Storia in quelle esternazioni, c’è soltanto confusione. Insomma, come raccomandava Antonio Gramsci, «al pessimismo dell'intelligenza», bisognerebbe «contrapporre l'ottimismo della volontà».

Siccome in Italia ciò non accade,  fa subito “notizia” l’editoriale dell’Economist http://www.economist.com/node/21564556 che propone la sua ricetta per un nuovo “radicalismo centrista”, un modo per diminuire le diseguaglianze senza danneggiare la crescita economica.

Il settimanale lo ha chiamato «il  vero progressismo», rammentando alla sinistra che  alzare le tasse ai ricchi da solo non basta per tutelare lo stato sociale. Poiché c’è bisogno - esso scrive - di una qualche idea originale che  proponga equità, ma anche progresso, altrimenti pagheranno tutti, sostiene il settimanale conservatore per eccellenza. E in Italia che si dice?

Sull’edizione italiana del giornale online Huffington Post, Lucia Annunziata inneggia alla sensibilità che solo i migliori politici come Veltroni sanno avere. Ragion per cui ella si augura che il benemerito personaggio non scompaia «dal nostro orizzonte, ma solo da quei tristissimi scranni parlamentari». Non so quanto questo desiderio sia condiviso, ma il solo fatto che se ne stimoli il dibattito dà la misura di quello scollamento tra un certo modo di fare informazione e la società reale, che fa tornare in mente la tesi di Karl Polanyi secondo il quale nei sistemi di mercato il fascismo resta un’alternativa sempre possibile (La grande trasformazione, Torino, Einaudi, 1974, p. 299). Se la democrazia continua a funzionare male, come da noi.

www.vincenzomaddaloni.it

 

 

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