di Rosa Ana De Santis

E’ accaduto l’altro ieri che un corteo si trasformasse in una missione punitiva organizzata anti-rom, sull’onda di una denuncia per stupro fatta da una sedicenne, che poi i carabinieri hanno comprovato essere un clamoroso falso. Sulle parole di accusa rivolte dalla famiglia a due zingari romeni un corteo, inizialmente pacifico, si è trasformato in un’orda di devastatori. Incappucciati e armati di mazze, hanno incendiato il campo rom e malmenato operatori della stampa. Tutto si è placato a fatica non appena si è diffusa la notizia che la giovane aveva ritrattato.

E’ questo il grado d’intolleranza che si respira in una grande città come Torino, al suono di slogan che invitavano i vigili del fuoco “a lasciarli bruciare”. E’ intervenuto il sindaco, Fassino, a condannare quella che poteva diventare un’autentica tragedia. I nomadi del campo si sono messi in salvo scappando dalle uscite laterali, mentre le bombole di gas saltavano in aria. La storia dello stupro inventato per nascondere, con buona probabilità, un rapporto sessuale consensuale, è stato il più comodo dei pretesti per sfogare un atteggiamento persecutorio e di discriminazione che nei riguardi dei nomadi, in modo particolare, ha raggiunto ormai livelli di guardia. Detestati doppiamente perché zingari e perché stranieri.

Il linciaggio contro i nomadi richiama numerosi episodi di cronaca. Spesso in occasione di risse, di incidenti stradali, in ogni episodio che coinvolga con responsabilità un rom si scatena, per contrappasso, una sorta di drappello punitivo italiano contro tutta la comunità, donne e bambini compresi. E’ questa dinamica, dal singolare al plurale, a rispolverare i più antichi sentimenti di odio contro gli zingari che hanno segnato pagine dolorosissime di storia contemporanea e non solo e a doverci preoccupare per uno slittamento, fin troppo chiaro che esula dalla verifica delle responsabilità, dall’essere nomade all’essere untore.

Il desiderio di azzerare i campi nomadi, spesso lasciati in abbandono dall’incompetenza delle Istituzioni preposte che incassano i soldi destinati al recupero delle aree senza metter mano ai progetti sulla carta, risponde ai più pericolosi istinti che oggi ritraggono l’Italia come un paese che chiude e rifiuta e che tratta la non italianità come uno stigma di discriminazione. Come la croce degli untori del settecento, come i capelli rossi appesi al fuoco delle pire allestite per le donne, per l’occasione tutte potenziali streghe.

La linea dell’odio è la stessa e la pagina di Torino ci dice non molte, ma una cosa soltanto. Che non è questione di gestione politica certamente complessa dell’integrazione con i rom, che non è questione di controlli a tappeto, di terre di nessuno, di degrado contrastato solo sotto gli exit pool delle elezioni di quartiere. C’è, in questa milizia che assedia un gruppo di baracche e rincorre innocenti, una bestialità tutta nazista. Quella che contro gli stranieri e i barconi serpeggia, con i zingari può diventare persino organizzata e tollerata. Ci aspetteremmo dal sindaco un contro-corteo simbolico, un esame di quanti di quella gente entrano nelle chiese torinesi a predicare la fratellanza e infine i documenti. Di tutti quei giovanotti che rinverdiscono la barbarie della persecuzione razziale e che rischiano di affossare, insieme alle speranze, la verità. 

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