di Mario Braconi 

Benetton ci riprova: dopo averci tenuto anni in astinenza dai piccoli shock di Oliviero Toscani, il brand di abbigliamento italiano lancia una nuova campagna di comunicazione (commerciale), che, anche questa volta, centra l’obiettivo: far parlare del brand. Un’offensiva quasi obbligatoria, per una società-rivelazione che però si è un po’ seduta, manifestando tassi di crescita da Repubblica Italiana e facendosi surclassare da una banda di parvenu del settore, divenuti giganteschi dominanti grazie a modelli di business evidentemente più consoni ai tempi (si pensi ad un marchio come Zara, che sviluppa un fatturato di circa 12 miliardi di euro, contro i circa due del gruppo veneto.

Il nuovo progetto è chiamato “Unhate”, neologismo composto dalla prefisso negativo “un-” associato alla parola “hate” (odio), probabilmente una derivazione di “un-friend”, nato su Facebook (ovvero l’atto di “togliere l’amicizia” ad un contatto cui la si era concessa). Una possibile traduzione potrebbe essere “dis-odio”, oppure “non-odio”. Alla Benetton, come noto, sanno maneggiare la comunicazione aziendale come si deve: non solo la nuova parola è un claim efficace in quanto immediatamente comprensibile, ma ha anche l’ulteriore pregio di non potersi confondere con nient’altro. Digitando su Google la nuova parola in una frazione di secondo si ottengono circa un milione di risultati, tutti inequivocabilmente legati a Benetton.

Le immagini della campagna consistono in una serie di fotomontaggi che mostrano leader religiosi e politici intenti a scambiarsi un bacio sulla bocca. Queste le coppie virtuali: Sarkozy e Merkel, Hu Jintao e Obama, Kim Jong-il e Hu Jintao, Obama e Chavez, Abu Mazen e Netanyahu (in una posa irresistibile), Joseph Ratzinger e Mohamed Ahmed el-Tayeb, imam della moschea cairota di Al-Azhar. Nessun leader politico è stato preavvisato dalla casa italiana, e al momento si registra solo il segnale di disappunto della Casa Bianca che, tramite una nota algida di Eric Schultz, ha fatto sapere: “La Casa Bianca tradizionalmente disapprova l’uso del nome e dell’immagine del Presidente per scopi commerciali”. Ma a Ponzano Veneto si contava soprattutto sul prevedibile contributo involontario che alla campagna pubblicitaria avrebbero dato i leader religiosi. Tanto Ahmed el-Tayeb che il Vaticano, infatti, hanno reagito con la consueta quanto attesa salva di anatemi.

Santa Romana Chiesa, in particolare, è caduta nel più classico dei tranelli, protestando vibratamente e fornendo lo sperato spin ad un’iniziativa tutto sommato banale. Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, è partito lancia in resta riferendo ai giornalisti il suo disappunto per “un uso del tutto inaccettabile dell’immagine” del papa, e minacciando di intraprendere “le opportune azioni al fine di impedire la circolazione, anche attraverso i mass media, del fotomontaggio realizzato nell’ambito della campagna pubblicitaria”, considerata “lesiva non soltanto della dignità del Papa e della Chiesa cattolica, ma anche della sensibilità dei credenti”. Tra parentesi, è interessante notare come in Italia non di rado i credenti praticanti facciano a gara con il loro clero a chi è più ortodosso: ad esempio, su Avvenire il giornalista Umberto Folena ha usato parole molto più dure di quelle di Lombardi, arrivando a bollare l’innocente fotomontaggio come “grave atto blasfemo”.

E’ bastata la sola minaccia di azioni legali da parte della Santa Sede a far sciogliere come neve al sole l’assai presunto spirito iconoclasta che si vorrebbe il tratto distintivo del management di Ponzano Veneto: forse Lombardi non aveva ancora finito di parlare quando un portavoce della ditta di abbigliamento ha lanciato un comunicato mellifluo in cui, dopo aver ribadito (un po’ ipocriticamente) che “il senso di questa campagna è esclusivamente quello di combattere la cultura dell'odio in ogni sua forma” (allora i jeans e le magliette non c’entrano?), è passato alle scuse di rito. Anche se, con un pizzico di malizia, ha avuto cura di rivolgerle non al Papa, ma “ai fedeli” presumibilmente urtati nella loro sensibilità religiosa. “A conferma del nostro sentimento, abbiamo deciso con effetto immediato di ritirare questa immagine da ogni pubblicazione”.

Dunque ci ha pensato direttamente l’estensore del messaggio a levare le castagne dal fuoco al Corriere della Sera e alla Repubblica, che avevano inizialmente concordato la pubblicazione. A quanto risulta al Wall Street Journal, invece, il New York Times aveva già rifiutato il progetto (ma la stampa progressista americana non era in mano agli ebrei?). Fortunatamente, e con grande soddisfazione dei Benetton e dei Fabrica, grazie ad internet è praticamente impossibile far sparire le immagini incriminate, che continueranno a circolare in rete, facendo sorridere e riflettere, nonché stimolando fatturati.

La campagna prosegue nel solco tracciato decenni fa da Oliviero Toscani, tentando una concettualizzazione del messaggio pubblicitario che si allontana della promozione della merce in quanto tale, tendendo invece a spingere il consumatore al collegamento automatico tra messaggio e brand promotore. Poiché il messaggio socio-culturale va somministrato ad un pubblico sempre più vasto, uniforme, ignorante, frettoloso e distratto, va da sé che debba essere il più banale e meno controverso possibile: no alla guerra, sì al sesso, sì alla fratellanza tra i popoli, no alla pena di morte, no alla malattia (ricordiamo a questo proposito che la malattia è un leitmotif per Oliviero Toscani, autore delle immagini scattate per un’altra nota casa di moda femminile, che mostravano corpo martirizzato di una giovane modella anoressica, in seguito deceduta a causa della malattia).

Tutto questo da un punto di vista, freddo e asettico, di semplice comunicazione. Tuttavia, il fatto che la comunicazione à-la-Toscani sfrutti meccanismi istintivi ed si collochi in territori lontani da sottigliezza ed intelligenza applicata non deve far perdere di vista un aspetto, che però è nodale: i temi che ne costituiscono la materia prima sono importanti, e i messaggi, nella loro estrema semplificazione, positivi.

Si dirà: ma non basta denunciare la guerra, la malattia, la mafia, l’ipocrisia per migliorare il mondo? Verissimo, però ribadire messaggi ovvi aiuta la consapevolezza, non solo quella dell’animale consumista, ma anche quella della persona. Ecco, è qui il punto centrale: è molto più utile riuscire a far pensare un passante anziché deliziarlo con le pur gradevoli sembianze di corpi nudi. Per carità, un po’ di sana nudità fa solo bene, ma forse qualche volta tendiamo a dimenticare che pure pensare è sexy.

Insomma, si potrà anche accusare (con ragione) Benetton di fare socialwashing (comunicazione sociale distorta, scorretta), ma non si può provare ammirazione per una pubblicità che riesce nel suo intento finale (far ricordare il marchio verde), e allo stesso tempo rubare qualche secondo del nostro affollatissimo tempo per farci riflettere. Anziché fare come lo psichiatra e romanziere americano Keith Albow che, sulla sua colonna su Fox News, arriva a scrivere che per Benetton “il sesso gay è la panacea per i mali del mondo”, forse è più utile domandarsi come mai i leader del mondo sono tutti maschi (per forza che i baci della campagna sono quasi tutti tra due uomini!). O riflettere sul fatto che i Grandi della terra sono in fondo creature umane e come tali anche occasionalmente vulnerabili al potere segreto delle emozioni.

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