di Silvia Mari

Qualche giorno fa il neo ministro della cooperazione internazionale e integrazione, Andrea Riccardi, ha inaugurato il proprio dicastero con un atto simbolico senza precedenti. Ha reso omaggio a Jerry Masslo, immigrato sudafricano, innocente vittima della criminalità organizzata campana, ucciso a Villa Literno anni fa. Un ragazzo come tanti che arrivano ancora oggi, scappato alle persecuzioni del proprio paese e finito a raccogliere pomodori in Campania per pochi spiccioli.

Nella storia di questo ragazzo, attuale come tanti fatti di cronaca testimoniano, e nell’azione del Ministro, ci sono le fotografie di un paese in cambiamento: la questione del Sud, l’arrivo in massa degli immigrati, il buco nero della clandestinità e il ruolo delle istituzioni, spesso imbrigliato nella retorica populista o nelle regole degli affari, anche quelli più imbarazzanti che ancora oggi si consumano alle spalle dei clandestini.

E’ in questo contesto di trasformazioni globali, che di recente hanno assunto forme più aggressive e massicce, come i numeri degli sbarchi confermano, che sta per terminare l’anno della commemorazione nazionale e patriottica del 150° dell’Unità d’Italia. Un’interessante tensione dialettica che ha attraversato gli italiani chiamati ad occuparsi della loro storia e delle origini nazionali, e della sfida delle frontiere scavalcate da un esercito di cittadini del mondo in fuga.

La festa civile strozzata a metà dall’austerità economica e morale ha riportato alla riflessione collettiva, come in un rigurgito di memoria, l’attenzione alla storia del paese e alle sue tormentate origini. L’Unità, che per molto tempo è stata archiviata come un fatto tutto sabaudo, di pura e finissima strategia politica, sembra esser stata restituita a quel po’ di romanticismo che è spesso mancato alla ricostruzione storiografica più ideologizzata del nostro Risorgimento.

E’ tornata l’Unità dei Mille, la marcia in rosso della liberazione, sono tornati i giovani del Risorgimento. E’ tornato il Sud con le sue prime spinte di indipendenza e di modernità, stritolate poi, solo successivamente, dalla macchina del Nord. Per una volta e per la prima volta come se il Mezzogiorno non fosse stato solo il primo e grande problema d’Italia, ma il suo motore e il suo cuore. La spinta verso l’Europa del Mediterraneo.

Eppure rimane, ancora oggi, nella percezione di tutti, l’immagine di un paese spaccato a metà: il Mezzogiorno come una ferita mai guarita nella pancia del paese, un’annessione mai compiuta e mancata nei numeri dello sviluppo economico e sociale.

La questione meridionale è diventata così, nel tempo, una vera e propria categoria politica del dibattito sul paese, una lente per leggere l’Italia e la sua storia, la più lontana come la più recente. Forse un comodo alibi di distinzione semplicistica tra “buoni e cattivi”, una replicazione in piccolo di una lettura distorta che da sempre guida alla comprensione dei rapporti Nord- Sud, anche in grande scala.

Le origini della questione meridionale, nate con Salvemini e Gramsci come scontro di egemonie e come analisi dei rapporti di forza e sfruttamento di ordine economico-politico del Nord a danno del Sud, spiegano il problema del Mezzogiorno come il problema di una gestione accentrata e sbilanciata del paese, calcolata “a tavolino” per lasciare il Sud in una posizione di dipendenza dopo aver arricchito il Nord di braccia e risorse.

Da tutto questo non si può prescindere nemmeno oggi per comprendere le distanze, le anomalie di una rincorsa che sembra infinita e da ultimo la novità degli stranieri nel mercato del lavoro nazionale che in questo paese diviso a metà pagano gli stessi prezzi di tutti, anzi peggio, e s’incamminano passate le gole del mare e degli stretti verso la stessa strada del Nord. Il Mezzogiorno continua ad essere terra di transito, porto da cui salpare.

Non c’è questione sullo sviluppo economico nazionale che oggi possa prescindere dalla considerazione di come sia stato alterato il mercato del lavoro dalla presenza, in costante aumento, di lavoratori immigrati e dalla dispersione emorragica delle eccellenze culturali giovanili del Paese, andate perdute in giro per l’Europa o negli Stati Uniti. Di tutto questo il Mezzogiorno, in scala nazionale, può vantare un triste primato e un ruolo di protagonista assoluto.

Così accadeva nei secoli scorsi, quando anche allora il Mezzogiorno era protagonista. Storie di miglia marine percorse verso l’Argentina, il Venezuela e gli Stati Uniti. L’emigrazione massiccia d’Italia del Sud fu soprattutto quella del Regno delle due Sicilie, XIX e XX secolo i picchi di questa fuga. Sicilia e Campania in cime alla lista. All’emigrazione oltreoceano seguì poi quella europea e infine quella interna verso le regioni del Settentrione dove il Sud continua a spostarsi per studio, lavoro o per cure mediche. Oggi come ieri.

In primo luogo perché il Sud è il porto di queste braccia, allevate in cattività e offerte alla disperazione. E’ nel Mezzogiorno che arriva dal mare e dai paesi in via di sviluppo la manodopera a buon mercato: 137mila di questi si spostano poi al Centro-Nord e 46mila rimangono per essere impiegati soprattutto in agricoltura, l’unico settore a non soffrire i numeri negativi che invece penalizzano fortemente il settore industriale del Sud.

E mentre il mondo entra attraverso le coste e le isole del tacco d’Italia, il Mezzogiorno perde i propri giovani e i propri lavoratori, o in forma transitoria attraverso un pendolarismo settimanale o per sempre. Dal 2000 al 2009 ben 583mila persone hanno abbandonato  il Mezzogiorno e moltissimi sono i laureati.

Come per un calcolo e quasi in un gioco di vasi comunicanti, il mercato del lavoro perde e conquista, mutando però sistema di regole e di diritti. In questo imbuto, dove lo Stato centrale entra ancora poco, è facile che un caso come quello di Rosarno, sbattuto in prima pagina più dal sensazionalismo che dalla volontà di analisi, si scopra in realtà come un metodo reiterato e tollerato più che un isolato fattaccio di sfruttamento di massa.

L’apertura al futuro globale, quindi il ruolo del lavoro che immigra e concorre allo sviluppo nazionale, si è già macchiato di mali antichi. Quelli di una malavita che spesso é stata lasciata indisturbata, proliferante sugli affari e che oggi, mai come oggi, non è più di casa nel Mezzogiorno, come la vecchia storia del brigantaggio e delle mafie, nonché la più volgare retorica populista della Lega, insegnava un tempo e borbotta ancora. Il cervello della mafia, anche lui, è emigrato al Nord, lasciando a casa la manovalanza e i cani da guardia.

E’ difficile cogliere in quello che accade intorno a Lampedusa, divenuta più icona della resa che non simbolo del futuro, l’inizio di un nuovo corso della storia economica e forse della storia tout court. La percezione di un’invasione impedisce a tutto il paese di ravvedere in questo esodo le origini di una globalizzazione del lavoro o, più semplicemente, un soccorso all’economia di un paese che viene man mano svuotato. Di giovani e di speranze.

Così, mentre il futuro entra con le sue incognite più destabilizzanti, quasi come una calamità, e scuote tutto il Paese, la fuga dei giovani, l’abbandono degli affetti che rimangono nei paesi e nelle città ad aspettare, come una volta, la lettera o la cartolina, è quella di sempre. Come se le lacrime del passato dei nostri emigranti, quelle color seppia appese immobili e incollate nelle foto dei salotti, al Sud non si fossero ancora asciugate.

 

 

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