di Luca Mazzucato

NEW YORK. Nella patria del fast food, dei vari MacDonald's e Burger King, tira una nuova aria salutista: è la nuova moda dello slow food, che coniuga prodotti di alta qualità con la nuova economia sostenibile. I mercatini di quartiere spuntano come funghi in tutta la città e, a volte, si trasformano in vere e proprie attrazioni. Fare due passi per Williamsburg il sabato mattina è un'esperienza solitaria: padroni di cani a spasso e pochi forzati nottambuli a caccia di un caffé, con i loro baffi ironici ancora impomatati.

Un tempo quartiere ghetto di artisti squattrinati e immigrati sudamericani, Williamsburg è diventato in pochi anni il non plus ultra della New York bene. L'opera di gentrificazione si è dispiegata senza pietà. Soltanto due categorie possono ormai permettersi di pagare duemila dollari al mese per un monolocale con vista sui grattacieli di Manhattan: i ricchi figli di papà, nei panni di artisti finanziati dal “trust fund” di famiglia, oppure i cosiddetti “eurotrash,” nomignolo non proprio gradevole che i newyorkesi riservano ai ricchi europei in visita, che stanno colonizzando la città.

È la prima giornata di primavera, dopo un inverno che sembrava non passare più. Girato l'angolo su Kent Avenue e North 6th Street, troviamo finalmente il nuovo parco comunale, che si affaccia sull'East River e il profilo mozzafiato della città, proprio di fronte al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Alle dieci del mattino, ci aspettavamo di trovare il mercato già vuoto, saccheggiato dagli avventori mattinieri. Ma non a Williamsburg, dove la proverbiale pigrizia degli “hipster” locali viene premiata. I proprietari degli innumerevoli stand gastronomici e i venditori ambulanti stanno appena cominciando ad allestire le loro attrazioni e, prima che il mercato si attivi, possiamo gustarci una deliziosa coppa di caffé americano.

Per chi è abituato all'espresso, una pinta di caffé regolare assomiglia più che altro a una minestra bruciacchiata. Ma non al mercatino Brooklyn Flea Market, dove per sei dollari si può degustare una speciale miscela di chicchi tostati nella torrefazione di quartiere, proprio dietro l'angolo, e provenienti dal commercio equo e solidale, filtrati goccia a goccia attraverso uno speciale filtro cartaceo di fronte ai tuoi occhi. Alla resa dei conti, l'unico caffé americano di New York che non fa rimpiangere l'espresso.

Le parole d'ordine della “nuova Brooklyn” sono qualità impeccabile e impatto ambientale zero. La prima edizione del mercatino Smorgasburg, tutti i sabati al Waterfront Part di Williamsburg, sta avendo un successo strepitoso. Per chi se lo può permettere, questo incontro tra i produttori locali di cibo biologico e alcuni dei migliori chef della città è un'esperienza a cinque sensi. Nelle parole del curatore del “Mercatino delle Pulci di Brooklyn” e promotore dell'iniziativa, Eric Demby, Smorgasburg rappresenta “un incubatore per imprenditori sconosciuti e all'avanguardia che vogliono far conoscere il loro progetti: vogliamo portare all'attenzione del grande pubblico i piccoli artigiani locali.” Un ibrido tra degustazione e mercatino biologico.

Allo stand “Bon-Chovi” la grafica richiama scherzosamente il logo del famigerato Bon Jovi (nativo del New Jersey e considerato dai newyorchesi un vero tamarro), si possono degustare acciughe fresche o fritte all'aglio, olio e limone. Come dessert non può mancare la famosa “crack pie” di Christina Tosi, la cuoca pluri-premiata di Momofuku a Manhattan. La sua reputazione non delude. Dopo averne assaggiata una prima fetta non possiamo più smettere di mangiarne (infatti il nome “crack pie” è un gioco di parole sulla “crack pipe,” la pipetta per fumare il crack).

Non mancano i banchetti “politici” delle organizzazioni come la Brooklyn Food Coalition e l'italiana Slow Food, che promuovono l'alfabetizzazione alimentare. Nella terra dei prodotti precotti da scaldare al microonde, comprare verdure fresca è già un'abitudine stravagante e un po' radical chic. Se poi si tratta come in questo caso di prodotti biologici, allora si rischia l'etichetta infamante di “unamerican” (ovvero tutti quelli che hanno votato Obama, a detta Sarah Palin).

La first lady Michelle Obama è in prima linea nella lotta all'obesità e un grosso spot in favore dei mercatini locali arriva proprio dal comandante in capo. La famiglia presidenziale infatti mangia solo prodotti del proprio orto della Casa Bianca, dove il Presidente in persona raccoglie le proprie melanzane, zucchine e rucola (quest'ultima decisamente “elitist”).

La cucina italiana di Slow Food qui riscuote un enorme successo perché, nel cuore della Grande Mela, quando scrivi buona cucina, leggi cucina italiana. E questa volta non si tratta della temibile versione italo-americana della pasta alle polpette e della pizza gommosa spessa due pollici, ma dei prodotti tipici del nostro Paese, preparati dagli chef alla moda.

I “farmers market,” i mercatini di frutta e verdura, sono letteralmente esplosi negli ultimi anni. Nessun quartiere benestante ormai può farne a meno e se non compri cibo biologico e di provenienza locale sei out. La cucina ha acquistato una vera e propria connotazione politica e sociale, come non sarebbe possibile in Europa e, men che meno, in Italia.

Se mangi al fast food sei un immigrato sudamericano, un povero, oppure un “real american,” termine sarcastico con cui i liberali, facendo il verso a Sarah Palin, denotano i bianchi obesi del Midwest che votano repubblicano o peggio ancora Tea Party. Se invece sei un professionista benestante, che ha studiato e si preoccupa dell'ambiente, oppure un hipster, allora devi fare la spesa al farmers market e mangiare soltanto cibo biologico e locale.

 

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