di Mario Braconi

John Galliano, lo stilista “proletario” nato a Gibilterra 51 anni fa, potrebbe diventare l’icona vivente del proverbio “in vino veritas”: a quanto si apprende dalle cronache recenti, infatti, la scorsa settimana, mentre sedeva ubriaco al tavolo di un bar del Marais di Parigi, avrebbe aggredito verbalmente una signora (ebrea?) ed il suo accompagnatore (un uomo di etnia asiatica) condendo il suo exploit con disgustosi epiteti antisemiti. A seguito dell’increscioso incidente, la maison Dior, di cui Galliano è chief designer dal 1996, lo ha immediatamente sospeso dall’incarico. Si vedrà ora quale sarà l’esito delle indagini, giacché lo stilista è stato denunciato dalla coppia per aggressione.

L’episodio, in sé intollerabile, avrebbe però potuto forse essere ridimensionato (già arrivavano flebili testimonianze di solidarietà da Giorgio Armani e da John Taylor dei Duran Duran) se non fosse per lo scoop del tabloid britannico The Sun, che il 28 febbraio ha pubblicato sul suo sito un video girato di nascosto presso il bistrot parigino La Perle quattro mesi fa, nel quale un Galliano palesemente sbronzo apostrofa in modo indecente delle ragazze sedute al un tavolino vicino al suo.

Anche se le giovani in realtà sono italiane e francesi, agli occhi di Galliano evidentemente appaiono l’ennesima personificazione di quella fantasia antisemita che per qualche ragione lo ossessiona in modo inesorabile: “Scusa, ma tu, sei biondo e hai gli occhi azzurri?” gli chiede ad un certo punto una delle ragazze, che sembra prenderlo in giro per il suo aspetto ben poco “ariano”. “No”, biascica Galliano, a mo’ di risposta, “ma amo Hitler; gente come te dovrebbe essere morta. I tuoi genitori, i tuoi antenati... tutti avrebbero dovuto finire in una camera a gas”.

Anche se l’avvocato di Galliano, Stephane Zerbib, fa quel che può spiegando ai media che la comparsa di un video girato mesi fa appare quanto mai opportunistica, non si può negare che il suo contenuto pesi come un macigno: dimostra infatti che le parole insensate e violente di John Galliano non sono solo delle sciocchezze venute fuori a caso dalla bocca di un ubriaco, ma la dimostrazione di una vera e propria fissazione razzista.

A proposito di tempismo, il caso Galliano e la pubblicazione del video della vergogna si verificano proprio in coincidenza con il trionfo di Natalie Portman, fresca aggiudicataria di un Oscar per la sua intepretazione ne “Il Cigno Nero”. La Portman, i cui nonni sono stati assassinati dai nazisti in un campo di concentramento, oltre a quelle dettate dal buon senso, ha dunque ottime ragioni personali per non transigere sulle imbarazzanti esternazioni del direttore artistico della maison della quale, guarda caso, lei è donna-immagine. Le sue parole sono, comprensibilmente, durissime: “Dopo questo video, come persona fiera delle mie origini ebraiche, non desidero essere associata in alcun modo al signor Galliano”. Una vera sentenza di morte per lo stilista, che il capo di Dior, Sidney Toledano, si è affrettato a comminare, commutando tout court la sospensione di Galliano in licenziamento.

In effetti, ad una lettura maliziosa, il tempismo con cui i due imbarazzanti episodi sono stati somministrati all’opinione pubblica può risultare sospetto. Al punto che, a lasciar galoppare la fantasia, si potrebbe perfino ipotizzare che l’incidente sia stato creato ad arte per sbarazzarsi di un personaggio divenuto per qualche ragione scomodo per la maison: il marchio di infamia ormai indelebilmente associato al geniale designer di Gibilterra, potrebbe essere un modo per scoraggiare eventuali sue richieste di indennizzi milionari in caso di licenziamento.

Un dato, comunque, incuriosisce: il modo in cui la stravagante ossessione razzista di Galliano sia passata inosservata per ben quattordici anni. Soprattutto considerando che il top manager della sua azienda, l’attuale testimonial e perfino il suo avvocato sono tutti di origine ebraica, tutto ciò appare oltremodo ironico, come del resto il fatto che Galliano pare sia di casa del Marais (ovvero l’ex ghetto di Parigi), almeno nei locali dove si servono alcolici. Senza nulla togliere allo sgomento e al ribrezzo suscitato dalle sue intemerate antisemite, sembra probabile che le sue “idee” razziste siano state finora tollerate all’interno della maison per ovvie ragioni commerciali (il celebre aforisma di Vespasiano, secondo cui il denaro procurato dagli orinatoi “non puzza”, conferma ancora una volta la sua imperitura validità).

In effetti, il marchio Dior sembra in qualche modo stregato da un incantesimo filo-nazista: ricorda infatti il Corriere della Sera che, proprio in coincidenza con le esternazioni di Galliano, dagli archivi audiovisivi francesi salta fuori una inquietante intervista effettuata nell’ottobre del 1963 a Francoise Dior, nipote di Christian Dior, fondatore dell’omonimo marchio di moda. Nel video la donna, che porta al collo un monile a forma di svastica, si professa fervente nazista e dichiara che a giorni sposerà l’uomo che nel filmato le siede accanto in silenzio. Questi é di Colin Jordan, noto neonazista britannico, che si unì a lei in un matrimonio di comodo organizzato per evitare alla donna l’espulsione dal Regno Unito come indesiderata, in quanto amante di John Tyndall, altra figura di spicco del nazifascismo “made in England”.

C’è un che d’ispirato e sognante nella voce e nell’espressione leggermente ebete della donna, mentre passa in rassegna le testimonianze di uno degli obbrobri assoluti della storia quasi fossero, appunto, preziosi tessuti che l’opera sapiente di un grande sarto trasformeranno presto in splendidi abiti. Ed in effetti quella di Francoise Dior fu una vita segnata dallo squilibrio (a 36 anni, dopo il suo disastroso terzo matrimonio, fuggì con il suo segretario diciannovenne), da eventi luttuosi (la sua unica figlia si suicidò a venti anni) e di delusioni (Jordan bruciò il di lei notevole patrimonio finanziario per sostenere la causa fascista in Gran Bretagna).

Queste informazioni possono aiutare a comprendere il contesto psicologico ed umano in cui devono essere maturate le sue deliranti scelte di fanatismo nazista. Ma, inevitabilmente, gettano un’ulteriore ombra nera sul marchio principe di LVMH, diretto da un notorio fan di Hitler.

 

 

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