di Vincenzo Maddaloni

Oggi, al museo Kennedy di Berlino, si apre una mostra dedicata al compleanno - 80 anni (2 marzo 1931) - di Michail Gorbaciov. “Aus dem Familienalbum“ s’intitola, e sono novanta fotografie, in gran parte inedite, che coprono un arco di tempo che va dall’infanzia a quel 25 dicembre del 1991, il giorno nel quale si dimise da Presidente dell’Unione sovietica. Provate a ricordarvi. L’anno seguente - 1992 - il disfacimento della struttura del potere creato dall’ideologia marxista, verificatosi pacificamente e quasi senza spargimento di sangue, lanciava nel mondo la speranza del futuro-promessa.

Essa era alimentata dall'ottimismo teologico di papa Woitjla che prometteva la salvezza e da quello tecnologico che s’impegnava ad assicurare il progresso. Sono trascorsi quasi vent’anni e non è più così. Il futuro-promessa si è trasformato sotto gli occhi di tutti in futuro-minaccia. Le guerre, i disastri economici, le intolleranze, gli egoismi, le disuguaglianze sociali, gli inquinamenti di ogni tipo, hanno stravolto l'immaginario del futuro sicché dall'estrema positività dell'ottimismo teologico e tecnologico si è passati, nel primo decennio del Millennio, all'estrema negatività di un tempo affidato alla casualità senza una direzione e un orientamento. Che fare?

Non credo che si possa cambiare lo spirito del tempo, soprattutto perché dubito che il nostro tempo ponga lo spirito tra le priorità. Ma si dà anche, nei tempi di crisi, che più di qualcuno cerchi sostegno nella memoria la quale è il deperibile, prezioso patrimonio dei sopravvissuti, esposto alla dialettica del ricordo e dell'amnesia. E' una verità soggettiva, insidiata da mode, interessi e sentimenti, annebbiata dalla nostalgia, ma è ancora la vita, seppure minata dalle fragilità e dalle incertezze.

A rinfrescare la memoria contribuisce la celebrazione, il ricordo, di una serie di anniversari: i centocinquanta anni dell’Unità d’Italia, i duecento anni della nascita di Liszt, i ventuno della caduta del Muro e della rivolta di piazza Tiennamen; gli ottant’anni di Gorbaciov, che Berlino ricorda con affetto perché con la sua Perestrojka egli le evitò un bagno di sangue. Sicuramente, ci stiamo dimenticando di altri anniversari, altrettanto significativi.

La memoria pur traboccante di dettagli diventa sempre più fluida, e alla fine rimane, ripetiamo, una verità soggettiva, probabilmente di scarsa rilevanza, se non per chi la vive. I media, la televisione, i giornali, di certo non aiutano, anzi. Basta leggere quel che si scrive o si racconta della Libia in questi giorni. Difficile farsi un’idea precisa su questa gigantesca crisi perché ogni spiegazione per essere esaustiva richiede conoscenza, visione, coraggio, forte controllo dell’ obiettività. Esattamente tutte le condizioni che, mai come in questo frangente, sono mancate ai giornalisti.

E’ risaputo che non c’è mai stata un’età dell’oro del giornalismo, ma mai c’è stato lo scempio che oggi investe i media. E’ sufficiente aprire un canale qualsiasi della televisione per capire che la "libertà d'informazione e di critica" e "l'obbligo inderogabile del rispetto della verità sostanziale dei fatti" vengono violati di continuo. Le notizie proliferano, ma le garanzie di affidabilità sono inesistenti. E’ sempre più difficile essere informati, è sempre più difficile capire ciò che sta accadendo perché le notizie decisive per il nostro futuro quasi sempre vengono nascoste dietro un gigantesco gioco di contraddizioni.

Accade però pure che un numero sempre maggiore di cittadini stia prendendo più coscienza delle manipolazioni, della parzialità, della mancanza di obiettività, e comperi sempre meno giornali e guardi sempre meno i telegiornali. Tuttavia, continuiamo ad assistere al trionfo del giornalismo speculativo e spettacolare che dequalifica la figura stessa del giornalista fino ad annullarla, e che comunque va a scapito di un giornalismo d’informazione che non viene incoraggiato né tanto meno difeso.

Si aggiunga, nel caso Italia, lo iato profondo che separa mondo accademico e mondo giornalistico, i quali quasi mai interagiscono tra di loro separati come sono da una diffidenza reciproca. I primi arroccati nelle università con i loro testi le loro dispense le loro ricerche rigidamente accademiche e dunque elitarie. I secondi rinchiusi nei desk alla prese con le agenzie e quindi con un’informazione manipolata che emargina il giornalismo d’inchiesta e privilegia il giornalismo delle contraddizioni col risultato di una disinformazione perenne.

Infatti, questa tensione internazionale amplificata dai media con una tenacia ossessiva e assordante predicando e praticando molto poco l’ideologia di pace e molto più l’ideologia di guerra, porta ad accantonare, quasi fosse un problema secondario, l’affermazione del moral framework, la cornice morale di valori, quell’etica mondiale indispensabile al bene dell’umanità.

In tanto chiasso, il sostenere che è prioritario ricostruire una speranza in mezzo alle macerie di quella che sembra diventata la civiltà del mondo ridotta allo squallido gioco dei rapporti di forza nella polveriera globale, appare come un’impresa irrealizzabile. Bisogna arrendersi? «Se un’acqua ristagna in un punto qualsiasi, marcisce. Sii dunque come il mare così non marcirai», predicava (nono secolo) il mistico persiano Bayezid Bastami.

Ma a proposito di memoria, non occorre rinfrescarla più di tanto per ricordare i fondamenti teorici del progetto americano che avevano portato alla guerra all’Iraq. Era il risultato del lavoro intellettuale e politico di un piccolo nucleo di neoconservatori, a iniziare da Norman Podhoretz, Richard Pearle, David Frum, Bernard Lewis, Fuad Ajami e dal “prediletto” del presidente George W. Bush, l’ex dissidente sovietico e politico israeliano di destra Natan Sharansky. Erano - ricordate? - uomini accomunati dalla stessa visione del mondo musulmano, descritto come un universo in decadenza continua, dovuta ai difetti culturali, psicologici e religiosi delle società islamiche.

Questa caratteristica “genetica” spiegherebbe l’ondata di violenza terrorista sempre più virulenta e si frapporrebbe come ostacolo ad una democratizzazione concepita come l’unico rimedio possibile a tutti questi mali. Il verbo presente è d’obbligo perché queste conclusioni non sono scadute, sebbene ci sia stato il cambio della guardia alla Casa Bianca.

Di fronte al terrorismo che potrebbe ricorrere alle armi di distruzione di massa - chimiche, batteriologiche, perfino nucleari - l’America, secondo i neocon e anche secondo il governo Obama, non può aspettare, ma deve agire per modificare il corso della storia nel mondo arabo-islamico, eliminandone le tare e costringendolo a democratizzarsi. Soltanto gli Stati Uniti possono farsi carico di tale compito, ricorrendo alla forza, se necessario. L’invocazione astratta alla "democrazia" serve da giustificazione ultima alle azioni dell’America, un po’ come, in tempi non lontani, accadeva con la minaccia del “socialismo reale” dell’Unione Sovietica. Lo si è visto ancora una volta in queste ultime settimane nel Maghreb.

È una configurazione teorica che mette insieme il fondamentalismo cristiano, il sionismo americano militante e un militarismo senza limiti, per certi versi seducente nella sua perversione. Avvolta nel mito della bandiera, della famiglia e della Chiesa, la politica interna americana si proietta verso l’esterno assumendo una forma aggressiva, unilaterale e arrogante. È questo il blocco ideologico che aveva guidato l’intervento in Iraq e altrove, e che continua ad essere applicato anche dopo l’arrivo sulla scena di Obama.

Nasce da qui la difficoltà a modificare questa politica indissolubilmente nazionalista e al contempo rivolta all’esterno che suggella la desecolarizzazione crescente dell’elemento politico e dello Stato in America. Questo spiega anche la facilità con cui si tollerano metodi come la tortura e si investe di poteri illimitati il presidente, consentendogli di tenere in carcere indefinitamente persone che non solo non sono state giudicate, ma nemmeno accusate. Accadeva prima con Bush, accade ancora con Obama.

Se questo è lo scenario diventa ancora più assordante il silenzio dell’Italia in quella che dovrebbe essere la sua più naturale ed efficace area di intervento, a cominciare dalla Tunisia per finire alla Libia. Accade, nonostante l’Italia - ad esempio - abbia in Libia uomini e denaro, e dalla Libia dipenda, per energia, per scambi commerciali e per investimenti reciproci. Un’inadeguatezza comunque condivisa, anche se dal gradino più basso, poiché non c’è alcun Paese dell’Europa che si rammenti della sua cultura (l’Italia dovrebbe essere prima tra tutti) e apra un confronto sull’arroganza della gestione americana in tutto il Medio Oriente.

Stando così le cose è oggi l'"umanesimo" stesso ad essere gravemente minacciato. Sta assottigliandosi ciò che l'uomo è venuto costruendo in millenni di civiltà, e il cui insieme ha ricevuto il nome di spirito e di anima. Avvertiva Edward W. Said, esperto del Medio Oriente come pochi altri: «Il termine Oriente quanto il concetto di Occidente non hanno alcuna consistenza ontologica: entrambi sono opere dell’uomo, in parte come autoaffermazione, in parte come identificazione dell’Altro.

Queste grandi finzioni si prestano facilmente alla manipolazione e all’organizzazione delle passioni collettive. Questo non è mai stato più evidente di ora, quando la mobilitazione della paura, dell’odio, del disgusto e dei rinascenti orgoglio e arroganza - sentimenti che per la maggior parte hanno a che fare con l’Islam e gli arabi da un lato, e “noi” occidentali dall’altro - sono imprese su larga scala».

Allora perché stupirsi quando si legge che Gheddafi lotterà fino alla fine, fino «all’ultima goccia di sangue» come ha promesso l’altro ieri. Perché lui al Libretto verde, ai comitati popolari, al sogno di una Libia che guida il mondo verso una nuova èra, a furia di ripeterlo e di raccontarlo, ci crede. E’ un tiranno mistico, il più pericoloso, il più irriducibile. Peccato che alcuno abbia saputo raccontarlo e spiegarcelo fino in fondo, a riprova che è sempre più difficile ottenere un’informazione corretta. Bisogna arrendersi?

 

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