di Emanuela Pessina

BERLINO. Un nuovo vento femminista sta attraversando il Vecchio continente da nord a sud e, a quanto pare, ha raggiunto anche l’Italia, dove si discuterà in questi giorni in Senato per l’eventuale introduzione delle quote rosa ai vertici dell’economia. Inevitabile il confronto con gli altri Stati europei, in particolare con la Norvegia, dove la misura è stata applicata già da qualche anno, e dove si cominciano ad analizzare i primi risultati. Rimane ancora da chiarire quanto le quote di genere possano essere effettivamente aiutare il genere femminile del Belpaese, una società in cui le donne si trovano ancora oggi a combattere con l’immagine di sé stesse.

La Norvegia ha scelto di applicare le quote rosa nei consigli di amministrazione delle società già dal 2006. Qui, la legge prevede che le aziende quotate in Borsa abbiano una direzione composta al 40% da donne. Oslo è intransigente e non ammette eccezioni: i gruppi finanziari che non riescono a conformarsi a quest’ordinamento tutto al femminile, rischiano di chiudere i battenti. E ora, dopo cinque anni, ai sociologi il compito di tirare le prime conclusioni.

Tanto per cominciare, la radicale riorganizzazione dei Cda secondo le quote rosa non ha portato, in Norvegia, alle trasformazioni catastrofiche che i più pessimisti vagheggiavano. Le aziende di successo hanno sofferto leggermente all’inizio per poi riprendersi molto velocemente, osservano gli studiosi, mentre i gruppi che navigavano in cattive acque ci hanno soltanto guadagnato.

Certo, lo stile di direzione non è cambiato, si affrettano a spiegare i sociologi: sono poche le donne che hanno tentato o proposto una linea amministrativa completamente diversa da quella che c’era. Punto fondamentale, decisamente a favore, sembra che il gentil sesso abbia dato nuovi spunti alla discussione culturale e sociale ai vertici dell’economia. A conti fatti, insomma, una rivoluzione percettibilmente positiva.

Ma non è tutto. Le statistiche norvegesi segnalano una quantità d’imprenditrici che, già ora, vantano un susseguirsi di ruoli di primo piano nella direzione di varie aziende. Carriere ineccepibili e fulminee, apprezzano i sociologi: alcune personalità femminili siedono contemporaneamente nei Cda di più società e godono di privilegi di cui hanno goduto finora soltanto (pochi) uomini. Gli esperti intravedono il prototipo di una nuova generazione di donna d’affari, sicura di sé e cosciente del proprio potere e l’inizio di una parità dei sessi vera e propria. Anche perché, per gli uomini della finanza, appartenere ai direttivi di più aziende è ordinaria quotidianità.

Eppure, a qualcuno i risultati appaiono fin troppo clamorosi se si pensano riferiti a un solo quinquennio: le norvegesi che hanno presieduto in più Cda si sono già attirate l’attenzione negativa della stampa e il soprannome sarcastico di Gullskjortene, le gonnelline d’oro. Per i più scettici, l’incredibile e innaturale performance di queste signore non è altro che la prova tangibile della faziosità della linea politica imposta dalle quote rosa: obbligare un’azienda a un nucleo direzionale costituito quasi per la metà da donne non può che portare a un femminismo direzionale di stato. Sarà una semplice espressione dell’invidia degli uomini, o la critica va a snocciolare un metodo sbagliato di risolvere una differenza che ci trasciniamo da generazioni e generazioni?

Pioniera nell’introduzione delle quote di genere, la Norvegia funge ora da campo di prova per gli economisti e i femministi di tutto il mondo. Qui si raccolgono i primi frutti di una decisione politica a tutti gli effetti e il destino del Paese nordico potrebbe segnare il passo anche per il resto d’Europa. La Francia e il Belgio hanno introdotto un sistema di quote rosa rispettivamente nel 1999 e nel 2002, ma si è trattato più che altro di norme che hanno riformato le candidature in ambito politico. E’ di quest’anno l’estensione della proposta delle quote rosa ai Cda delle società, private o pubbliche che siano: e ora, in Francia, i direttivi delle aziende con più di 500 dipendenti hanno tempo fino al 2017 per adeguarsi.

Tentativi di quote di genere sono stati fatti anche in Spagna, Portogallo e Slovenia, mentre in Germania la discussione occupa le prime pagine di tutti i giornali da ormai qualche settimana. Da sottolineare che, nel frattempo, ai vertici della Bundesbank tedesca è stata eletta una donna: la nuova vicepresidentessa della Banca federale si chiama Sabine Lautenschlaeger ed è la prima donna nella storia del paese a ricoprire tale carica. Senza contare la Cancelliera Angela Merkel, figura chiave della politica tedesca ed europea già da quasi un decennio che, per certi versi, va a rassicurare le aspettative professionali delle donne tedesche.

E ora, con qualche anno di ritardo, il dibattito sulle quote rosa sembra aver raggiunto anche l’Italia. Questa settimana si discuterà in Senato il disegno di legge Golfo-Mosca, che prevede consigli e collegi sindacali di società quotate e statali composti per un terzo dal gentil sesso. Anche se i diritti delle donne sono uno di quei beni poco adatti all’export, e già ci si chiede se il popolo femminile del Belpaese abbia le basi sociali per usufruire veramente di una riforma dell’economia incentrata sulle quote rosa.

Per quel che riguarda i diritti delle donne, la Norvegia è stata da sempre all’avanguardia. Il diritto al voto è stato introdotto per il popolo femminile nel 1913 e, da oltre vent’anni, lo Stato paga alle neomamme uno stipendio dell’80% per gli anni di maternità previsti. In Norvegia, le quote rosa sono il fiore all’occhiello di una società abituata a stimare il gentil sesso da diversi decenni non soltanto in funzione del lato b, una delle qualità che sembrano più apprezzate invece in Italia.

Nel Belpaese, probabilmente, il genere femminile ha problematiche più basilari da risolvere prima di arrivare alle quote di genere. Come scrollarsi di dosso il ruolo che il sistema mediatico italiano - in testa la televisione commerciale - gli attribuisce da trent’anni a questa parte. Trasformate lentamente negli oggetti di spettacolo più proficui del mondo televisivo, sembra che le donne italiane comincino solo adesso a risentirsene veramente. Perché ora, forse, si cominciano a intravederne gli effetti concretamente e in maniera assordante.
 

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