di Rosa Ana De Santis

Il dossier Caritas- Migrantes, presentato qualche giorno fa, parla chiaro sui numeri dell’immigrazione e con la stima di quasi 5 milioni di stranieri sul territorio nazionale supera di circa 700mila unità le stime dell’ISTAT. Ma all’aritmetica spicciola aggiunge alcuni dati importanti: la dislocazione geografica, l’apporto al fisco, l’occupazione. L’immigrazione arriva principalmente da Albania e Romania, al terzo posto troviamo gli africani. E’ il Nord ad accoglierne la maggior parte, circa il 60%.

Braccia per tante attività economiche trascurate, figli, e quindi riduzione dell’invecchiamento generale della popolazione italiana sono - tra gi altri - i contributi più significativi che gli stranieri stanno portando nel nostro paese. Molte le unioni “miste” e non soffrono più delle altre di crisi coniugali e separazioni. Una novità che fonde tradizioni e culture e che é destinata a mutare profondamente costumi e comportamenti sociali.

Non c’è alcun nesso tra l’aumento degli stranieri e le denunce; la criminalità degli stranieri regolari è uguale a quella degli italiani, così come nelle regioni a maggior incidenza d’immigrati (irregolari compresi) non c’ è stato alcun aumento di criminalità. La mancanza di questo legame, peraltro confermato ripetutamente anche dalle analisi ISTAT, conferma chiaramente quanto gli stereotipi e i pregiudizi abbiano condizionato il dibattito politico e i comportamenti sociali sul fenomeno dell’immigrazione. Ed è proprio il Ministero dell’Interno a dirci che non c’è un legame causale tra l’aumento dell’immigrazione e della criminalità. Possiamo dire con tranquillità che la piaga della mafia e della malavita infiltrata a tutti i livelli, esisteva ancor prima degli sbarchi di Lampedusa.

E’ evidente come non ci sia altra strada di convivenza, per un processo inarrestabile, che non passi per l’integrazione. Una strada affatto semplice, che vede nell’elemento femminile il motore della trasformazione. Molto importante è, infatti, il ruolo delle donne in questa fase delicata di conoscenza, di scambio culturale e di creazione di nuovi equilibri.

La percezione che gli italiani hanno del fenomeno dell’immigrazione è molto lontana da questi numeri. Quelli che sentiamo negli autobus al mattino, quelli che vogliono mandarli a casa, quelli che li accusano di rubare il lavoro ai figli laureati, ancorano a teorie fasulle un rozzo ed elementare razzismo di pancia. I numeri dell’immigrazione italiana, infatti, sono tra i più bassi d’Europa. La presenza forte dei romeni (categoria invisa all’italiano medio) è stata determinata soprattutto dall’inclusione della Romania nella UE e, quindi, dalla conseguente libertà di circolazione riconosciuta ai romeni, come a tutti i cittadini europei.

I clandestini sono soprattutto gli asiatici e non, come si crede, i gitani, gli albanesi o i marocchini. La maggioranza degli immigrati, inoltre, è cristiana e non musulmana, come gli spauracchi dell’integralismo propagandati dalla Lega Nord vorrebbero far credere. Andando al tema del lavoro, bisogna riconoscere che gli stranieri sono andati a riempire vuoti occupazionali generati, nel nostro paese, soprattutto da ragioni demografiche (il calo pauroso delle nascite, ad esempio) e che tutti gli altri lavorano a nero nelle occupazioni più umili, pur vantando qualifiche e titoli di studio.

Questa fotografia della nuova società italiana ci offre diversi spunti di ragionamento. Il primo è che questo paese sta cambiando volto irreversibilmente. Che il percorso d’integrazione è molto difficile e lungo. E soprattutto emerge quanto sia necessario attrezzarsi politicamente per fronteggiare questa grande metamorfosi, che è operazione molto più articolata della sola repressione legislativa. Il ritratto del nostro paese racconta di un’Italia che, scansando la commedia della tradizione sentimentale, è a tutti gli effetti un paese razzista.

Un paese attraversato da viscerale intolleranza e volontà di chiusura. Nell’opinione comune la differenza tra regolare e clandestino non è quasi percepita, non arriva. Sono tutti stranieri, intrusi che contaminano le tradizioni e le regole. E il dato più sconcertante è che le istituzioni hanno scarsamente contribuito a fare pensiero su questo argomento e hanno scelto la strada delle leggi e leggine, del buonismo dell’accoglienza. O, peggio ancora, hanno cavalcato i peggiori sentimenti xenofobi per armare le campagne elettorali dei partiti di centrodestra.

Le migrazioni di milioni di persone in cerca di lavoro e di sopravvivenza sono figlie dell’organizzazione internazionale del mercato del lavoro e del mercato del commercio internazionale. Nessuno lascia la propria casa, la propria terra, i propri affetti e la propria lingua se non è costretto a farlo per poter sopravvivere. E nessuno può, se non colpito da ignoranza profonda, pensare che il proprio Paese sia estraneo a tutto ciò.

Se il lavoro non segue gli uomini, gli uomini seguono il lavoro. Se i paesi ricchi rapinano le risorse di quelli poveri, i lavoratori poveri vanno a cercare le loro risorse nei paesi più ricchi. E se gli italiani pensano che il loro progressivo impoverimento sia causa della mano d’opera straniera a basso costo e non delle politiche del lavoro che strangolano diritti, riducono gli addetti e azzerano gli investimenti, è solo perché gli autori politici di queste scelte sono gli stessi che sostengono le ideologie xenofobe e che dispongono del sistema mediatico che divulga ignoranza e razzismo a proprio tornaconto politico.

Se l’Italia riconoscesse la propria identità razzista saremmo già un passo avanti. Uno sforzo di autocomprensione che restituirebbe coscienza alla nostra storia e forse un po’ di memoria. Siamo diventati quello che nei secoli abbiamo subito. Quando da questa minuscola lingua di terra nel Mediterraneo sono fuggiti, dall’Ottocento al secolo scorso, milioni di poveri italiani. Tra emigranti e discendenti si superano i 60 milioni sparsi nel mondo, tanti quanti vivono nei nostri confini. Non ci risulta che i paesi che ci hanno accolto abbiano perso tradizioni e identità, semmai hanno dovuto imparare a gestire il dramma, importato con noi, della mafia e della mala.

Non ci risulta, soprattutto, che alcuno abbia potuto arrestare la diaspora che partiva su navi e treni dalle nostre coste e dai paesi montani. Sarà quindi arrivato il momento di azzerare termini e ragionamenti su clandestini, criminali, imbarbarimento delle città. E’ il momento di parlare di razzismo e di ragionare in fretta sugli antidoti adatti per questa peste culturale che, in barba alla memoria storica, parla attraverso la voce di un popolo di emigranti. Che non ha imparato dalla propria storia e che non ricorda più.

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