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di Mario Braconi
Il porno è un'industria fiorente. Secondo il Rapporto sulla pornografia 2005 dell'Eurispes (ultima ricerca disponibile in Italia sull'argomento) poco meno di 9 milioni di connazionali ne fanno uso, per un fatturato annuo stimato di poco superiore al miliardo di euro. Dati certamente sottostimati per due ragioni: prima di tutto, non incorporano le vendite effettuate tramite operatori non specializzati nel settore (come Sky), che però, senza dare troppo nell'occhio, portano nelle case dei benpensanti italiani migliaia di ore annue di filmati "proibiti" (da novembre, per motivi di budget, la pay-per-view Sky per adulti trasmette porno 24 ore su 24); ma soprattutto perché il fenomeno YouPorn consente a circa 1,5 milioni di italiani di soddisfare le loro voglie pruriginose senza metter mano al portafogli.
Poiché dunque la pornografia è un fenomeno diffuso, interrogarsi su quali siano i suoi effetti sulla quella società che la genera e la consuma è un esercizio doveroso: la pornografia, insomma, fa bene o no alla società? E' questo, grosso modo, il titolo di un articolo comparso il primo marzo sul sito internet della rivista americana The Scientist, a firma di Milton Diamond, professore di anatomia e biologia riproduttiva presso la University of Hawaii a Manoa. Diamond, dopo aver ridicolizzato negli Anni Novanta le cosiddetta Teoria della neutralità di genere, secondo la quale essere maschio o femmina è soprattutto un fatto culturale, ha condotto ricerche sul campo in Giappone ed in Croazia, concludendo che non esiste alcuna relazione provata tra incremento nella disponibilità di pornografia e numero degli stupri e dei reati sessuali in genere. Secondo Diamond, anzi, sarebbe vero il contrario: in concomitanza con un più facile accesso a materiale pornografico registrato con l'avvento di internet, il numero di questa categoria di delitti sarebbe addirittura diminuito.
Dall'analisi delle abitudini degli uomini colpevoli di violenza sessuale anche su minori, risulterebbe che essi facciano meno uso di pornografia rispetto a quelli che non si macchiano di questi crimini; sembra invece provata, secondo Diamond, la relazione tra educazione repressiva e sessuofobica e delitti di tipo sessuale. Diamond conclude proclamando la legittimità della pornografia; perorazione per certi versi preoccupante, nel senso che implica l’esistenza negli USA di una tendenza verso progetti che la rendano illegale: "Non esiste forma di libertà di cui sia impossibile abusare. Detto questo, la libertà della maggioranza non può essere conculcata per prevenire gli abusi di una esigua minoranza. Quando le persone superano certi limiti, commettono reati, per punire e reprimere i quali già esistono leggi specifiche."
L'articolo di Diamond non è però inattaccabile dal punto di vista scientifico. Kate Harding, firma del giornale online americano Salon, femminista e suffragetta dei diritti delle persone sovrappeso, dedica al professore un pezzo puntuto e preciso: innanzitutto, sostiene la Harding, Diamond non cita una serie di studi recenti secondo cui i crimini contro le donne sarebbero invece aumentati assieme alla maggior diffusione della pornografia. In generale, sostenere che il periodo in cui Diamond ha riscontrato un calo degli stupri (1970 - 1995) sia stato caratterizzato soprattutto da una maggiore produzione e consumo di materiale pornografico, appare a dir poco riduttivo: non sono forse innumerevoli i fenomeni culturali e sociali verificatisi in quegli anni che possono reclamare una qualche influenza sulla pretesa contrazione del numero dei delitti?
La Harding cita ad esempio la maggiore consapevolezza delle donne, ottenuta anche grazie all'apporto del movimento femminista. Senza contare che, per quanto Diamond si svoci a difendere la pornografia considerandola addirittura un driver di attitudini favorevoli alle donne, anche chi non mastica statistica è in grado di capire che c'è una bella differenza tra correlazione e nesso causale.
Se da un lato, continua Harding, è rinfrancante ribadire quanto possa essere dannosa un'educazione religiosa repressiva e sessuofobica, a portare agli estremi il ragionamento di Diamond sembrerebbe che gli stupratori siano tali a causa del poco porno consumato: il che implica tra l'altro che, un'eventuale maggiore diffusione del porno, non impatterebbe più di tanto i crimini sessuali (per qualche ragione gli stupratori non ne consumerebbero in ogni caso). Senza contare che il ragionamento di Diamond sembra considerare lo stupro dall'angolazione della gratificazione sessuale (dello stupratore, ovviamente) e non da quella del controllo e della violenza; che i colpevoli di crimini diversi non abbiano mai compiuto anche una violenza sessuale (magari mai scoperta né punita) e, infine, che l'educazione repressiva tenda ad influenzare solo il consumo di materiale a luci rosse anziché contribuire ad instillare esecrabili quanto sciocchi stereotipi sulla femmina ("creatura del demonio", "tentatrice" e via delirando).
Infine, a parte qualche lodevole eccezione, il materiale pornografico in circolazione (che abbia o meno l'imprimatur femminista) difficilmente contribuisce ad ispirare nei suoi utilizzatori maschi rispetto ed atteggiamenti paritari nei confronti dell'altra metà del mondo. Insomma, se pure è condivisibile la difesa della legittimità e della legalità della pornografia, Diamond non riesce a convincere completamente quando sostiene che più pornografia significhi automaticamente una società migliore e maggior rispetto per le donne. E a farglielo notare è una donna.
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di mazzetta
Quasi tutto quello che compriamo si porta dietro una serie di avvertimenti e suggerimenti precauzionali “per la sicurezza del consumatore”. Dal cibo fino ai semplici sacchetti di plastica (non sono un giocattolo, rischio di soffocamento) sembra che gran parte di quello che compriamo sia potenzialmente pericoloso, tanto da rendere necessarie avvertenze che sfidano l'ovvio (“non ingerire” c'è scritto anche sui cuscinetti a sfera d'acciaio).
Poi quando si arriva a certi oggetti di consumo, le cautele evaporano. È successo a lungo per le sigarette, per le auto, succede ora per i telefoni cellulari e i dispositivi wireless in generale. Dispositivi che hanno un mercato enorme, destinato a essere sempre più importante nei decenni a venire. Eppure se i cellulari provocano un'incidenza di gravi malattie appena statisticamente rilevante, questi diventano necessariamente milioni di casi nel mondo, non esattamente un caso “raro”.
Dopo venticinque anni dall'introduzione sul mercato dei cellulari si dice che non esiste ancora uno studio epidemiologico sugli effetti dell'uso dei cellulari sulla salute. Un'assenza clamorosa, se si pensa che, oltre a un lungo lasso di tempo, sono a disposizione circa quattro miliardi di utenti di cui si conosce tutto, dall'età al sesso, fino alle abitudini d'uso del terminale e agli spostamenti.
Nonostante questa mancanza sospetta, molti - scienziati - hanno dichiarato che i cellulari non sono dannosi per la salute e non provocano tumori: semmai, i cellulari sono pericolosi alla guida.
Una linea condivisa e sostenuta da quasi tutti media, ma se non ci sono ancora gli studi, come si fa a dichiarare che non sono pericolosi? Se non si può dire che siano pericolosi, poiché non ci sono studi, come si può supportare la conclusione contraria? Un atto di fede o di convenienza? Gli studi esistono in realtà, ce ne sono diversi, anche se incredibilmente pochi e modesti se confrontati con la base statistica a disposizione. Il dottor Henry Lay, dell'università di Washington, ha fatto due conti e ha notato che il 67% delle ricerche indipendenti ha trovato prove della pericolosità dei cellulari, mentre solo il 28% delle ricerche sponsorizzate dai big del settore ha esposto risultati dello stesso segno, ma meno evidenti.
Gli unici limiti alle emissioni elettromagnetiche dei cellulari (e dei cordless e degli altri dispositivi wireless) in vigore sono stabiliti sulla presunzione indimostrata che queste emissioni non siano dannose per la salute (si dice per la loro particolare frequenza): si tratta quindi di limiti posti primariamente per evitare interferenze con altre apparecchiature. Eppure, la nocività delle emissioni elettromagnetiche è nota e si sa che i loro effetti possono essere devastanti, quanto basta a molti per adottare comportamenti precauzionali anche in assenza di una certificazione scientifica. Lo stesso consiglio per l'uso dell'auricolare, diffusissimo e sposato anche dalle autorità sanitarie, non deriva da leggende urbane, ma da solide basi teoriche ed empiriche.
L'unico rapporto internazionale (Interphone), finanziato da governi e compagnie costruttrici e svolto con i dati di ventotto paesi, doveva uscire nel 2006, ma ancora non si è visto. Si sono viste solo conclusioni parziali, tra le quali quella per la quale i cellulari proteggerebbero dal cancro, se usati per un certo tempo. Conclusione che tuttavia le compagnie non hanno pubblicizzato, probabilmente considerata rivelatrice di grossi problemi metodologici nello studio.
Un gruppo di scienziati di quattordici paesi, che si occupa dell'inquinamento elettromagnetico, ha inviato al presidente americano Obama un rapporto ("Cellphones and Brain Tumors: 15 Reasons for Concern, Science, Spin and the Truth Behind Interphone") e una supplica per la revisione dello studio Interphone, chiedendo perché l'amministrazione obblighi i produttori a mettere avvisi precauzionali sulle confezioni dei prodotti.
Nello stesso studio Interphone, diversamente dalle conclusioni tratte fino ad ora, ci sono dati che testimoniano la relazione tra uso dei cellulari e l'insorgenza del cancro, aumento che cresce di un fattore quattro se si usa il cellulare sempre dalla stessa parte. Lo stesso studio Interphone parla di un raddoppio del rischio dopo dieci anni di uso del cellulare, senza distinguere tra uso intenso o meno. Durante la ricerca è stata raccolta un'enorme mole di dati, ma Interphone dice che “non sono ancora disponibili” per la maggior parte, sono disponibili solo quelli che dicono che i cellulari proteggono dai tumori.
Dallo stesso studio (e confermato da altri) emerge in particolare che l'uso in età prepuberale può provocare danni gravi e aumentare ancora di più (esponenzialmente) il rischio d'insorgenza di tumori. È bene notare che lo studio Interphone non riguarda altre patologie, come la possibile insorgenza di leucemie o di modificazioni a livello del DNA, effetti già legati dalla medicina alle emissioni elettromagnetiche, e nemmeno i danni al nervo uditivo, che sembrano in crescita negli ultimi anni o altre lesioni al sangue o ai tessuti.
L'unico effetto riconosciuto unanimemente e ufficialmente è quello del riscaldamento dei liquidi nei tessuti per effetto delle microonde emesse dai cellulari, cioè il riscaldamento di parte della testa dopo un contatto prolungato con l'apparecchio. Effetto che, pur riconosciuto, non ha portato le compagnie ad inserire alcun avvertimento nelle confezioni, in fondo la nostra testa soffre escursioni termiche molto più rilevanti durante la vita.
Nonostante molti medici consigliano ormai di non tenere il cellulare vicino alla testa, al cuore e ai genitali e di usare per quanto possibile auricolari collegati con un cavo, questi consigli non appaiono quasi mai nelle istruzioni degli apparecchi, in nessuna confezione è riportata una qualsiasi allusione ai tumori o a gravi patologie.
Restando alle avvertenze riportate negli studi conosciuti, il terminale aumenta la sua pericolosità con la riduzione della distanza dell'apparecchio dal corpo, con l'aumento dell'uso e proporzionalmente all'intensità delle emissioni dell'apparecchio. Rilevante in questo senso è la distanza dal primo ripetitore, che condiziona l'intensità del segnale che emesso e altrettanto rilevante è la durata dell'impiego del terminale. Chi telefona a grande distanza da un ripetitore è investito da radiazioni molto più forti di chi si trova in sua prossimità.
Non a caso uno dei bachi più rilevanti dello studio Interphone è proprio nell'aver classificato come “forti” utenti dei cellulari quanti usino il telefono più di cinque minuti al giorno che è un espediente statistico utile a diluire eventuali picchi nella diffusione del tumore tra chi, ad esempio, sta al telefono un paio d'ore o più al giorno. Le cronache hanno già confermato l'ipotesi, registrando casi di tumori devastanti nel lato della testa usato per telefonare da utenti che ne facevano un uso molto intenso, tra questi recentemente anche l'ultimo senatore Kennedy.
Lo studio Interphone oltre ad essere in ritardo è evidentemente sovvertito dalle compagnie, che hanno tutti gli interessi a minimizzare i possibili pericoli, l'appello sopra ricordato accusa apertamente le compagnie di aver sabotato le ricerche e di averle dirottate. Accusa forte anche delle dichiarazioni di alcuni ricercatori coinvolti che hanno denunciato errori e manipolazioni
La denuncia ha avuto scarsa eco negli Stati Uniti e quasi nessuna altrove, in Italia siano prossimi allo zero, eppure proprio di recente un tribunale italiano ha riconosciuto il rapporto causa-effetto tra il tumore di un denunciante e l'uso del telefonino, per farlo si è basato su uno studio epidemiologico svedese. Che evidentemente esiste.
Gli autori della denuncia fanno riferimento al “principio di precauzione” così come definito dalla UE e alle richieste di nuove indagini provenienti dalla stessa UE per chiedere a Obama un cambiamento deciso nella politica dell'amministrazione americana, l'amministrazione Bush er del tutto schierata al fianco dei produttori fino alla plateale negazione delle evidenze scientifiche e ai (poi rivelati) taroccamenti degli studi governativi in loro favore. Nella realtà le compagnie si sono “generosamente” offerte di finanziare queste ricerche per poterle controllare, non c'è nessun altro studio epidemiologico simile a Interphone, ma indipendente, in corso. Un'anomalia più che evidente.
Eppure lo stesso leader della Cellular Telecommunications Industry Association’s (CTIA) ha ammesso che dagli studi della sua associazione (dei produttori) emergerebbe un raddoppio del rischio di tumori, un aumento del neuroma acustico direttamente proporzionale all'esposizione dopo almeno 6 anni di uso del cellulare e “il rinvenimento di danni genetici nel sangue esposto alle radiazioni dei cellulari”.
Accertato è anche l'effetto negativo sulla fertilità, secondo gli studi disponibili la vicinanza di un apparecchio riduce del 59% gli spermatozoi vitali, ma non lo dice nessuno e non c'è nessuna avvertenza in merito sui prodotti, altri studi hanno testimoniato un aumento del rischio di tumori ai testicoli, mentre non esistono studi sull'influenza dei cellulari sull'apparato riproduttivo femminile, le consumatrici sono ancora più impressionabili.
Parallelamente le compagnie assicurative tendono sempre in maggior numero ad escludere la copertura di patologie insorte a causa dell'esposizione a sorgenti elettromagnetiche, se tra venti o trenta anni ci sarà un aumento dei casi di tumori, loro non pagheranno, ma se non c'è rischio che senso ha questa esclusione?
Molti paesi (Francia, Russia, Gran Bretagna, Germania, Israele e India) hanno posto limiti all'uso dei cellulari da parte dei bambini e nelle aree scolastiche, senza alcuna contestazione da parte delle compagnie produttrici, ma senza che questo facesse apparire alcuna avvertenza nelle confezioni dei cellulari, che spesso riportano una curiosa e unica dicitura, quella che dichiara che il cellulare rispetta i limiti delle emissioni se tenuto a 1.5 o addirittura a 2.5 centimetri dal corpo. Quindi, se tenuti in una tasca o all'orecchio, questi apparecchi non rispettano i limiti, ma questo non c'è scritto. Nel nostro paese lo Stato latita e i bambini non li protegge nessuno se non la coscienza e le possibilità dei genitori.
Tutti fatti, leggi, ed avvenimenti in palese contraddizione con il “non è dimostrato che i cellulari facciano male”, che per inciso è la stessa tattica negazionista usata prima dai produttori di sigarette e poi dalle grandi corporation che distribuiscono idrocarburi, che fino a ieri negavano l'esistenza del “climate change” e oggi che è accertato e riconosciuto da tutta la comunità scientifica internazionale, cercano di negare che ne siano responsabili le emissioni dei carburanti fossili.
Nell'aprile del 2009 la UE ha votato a stragrande maggioranza un approccio completamente diverso al problema e il finanziamento di nuovi studi, proprio per aggirare lo scandalo Interphone, ma i produttori hanno fatto finta di nulla e i media non hanno colto l'occasione per avvisare gli utenti dei rischi
Il rapporto inviato a Obama, pubblicato l'estate scorsa, si chiude chiedendo ai media di focalizzare l'attenzione sul problema, ma non l'ha fatto nessuno, anche i grandi giornali che hanno parlato di questo allarme si sono limitati a riassumerne le conclusioni senza richiamare la responsabilità delle aziende produttrici o senza fare altro per richiamare l'attenzione dei consumatori sui gravi rischi incombenti, anche in Italia non ne ha parlato nessuno.
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di Mario Braconi
Che i visionari riescano a proteggere il popolo meglio di quanto possano fare i soldati? Questo è forse l'interrogativo cui l'Esercito USA ha inteso rispondere dando vita al "Seminario dello scienziato matto sulla tecnologia futura": un incontro annuale al quale sono invitati, oltre agli scienziati, anche i futurologi e per il quale perfino gli scrittori di fantascienza possono guadagnarsi un accredito. Si pensi alle penose immagini di Colin Powell che al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite agita davanti alle televisioni il modellino della fialetta di antrace "made in Iraq": se questo è il livello delle prove "scientifiche" che un governo può produrre per giustificare la guerra, allora perché non darsi alla fiction? Senza contare che i generali non ne potranno più dei soliti, barbosi convegni pieni di ricercatori targati Ivy League, esperti NASA e cinici "contractor"...
L'edizione americana di WIRED ha messo le mani su un memo (anonimo) dei lavori dell'edizione più recente del Seminario (20 - 23 gennaio): un documento utile per comprendere quali innovazioni scientifiche e tecnologiche possano rivelarsi potenzialmente tanto pericolose per gli Stati Uniti da turbare i sonni del Presidente. In linea di massima, sembra che la guerra sarà sempre meno confronto tra eserciti e, sempre più, creativa declinazione di violenza non convenzionale, il cui obiettivo (diretto o indiretto) tenderà ad essere sempre più frequentemente la popolazione civile.
Infatti, grazie ai progressi nelle biotecnologie, tra soli cinque anni, con un investimento di soli 5.000 dollari, chiunque riuscirà ad alterare un virus influenzale naturalmente predisposto alla mutazione e trasformarlo in un'arma che, pur non necessariamente letale in sé, può comunque costringere a letto un esercito e/o paralizzare la capacità di reazione di un Paese intero ad un possibile attacco.
Un altro incubo è quello delle armi elettromagnetiche: niente di nuovo, visto che già negli anni Sessanta era noto che l'esplosione in quota di un ordigno nucleare produce un campo elettromagnetico in grado di distruggere in pochi secondi le reti di distribuzione di energia elettrica e mettere fuori uso definitivamente tutti i dispositivi elettronici su cui poggia la civiltà come la conosciamo oggi - luci, riscaldamento, refrigerazione, automobili, computer, telefoni e benzina - (che viene pompata mediante dispositivi alimentati elettricamente). In pochi secondi il mondo tornerebbe indietro di duecento anni. Se si considerano i progressi nel campo della miniaturizzazione, un'arma elettromagnetica portatile potrebbe essere disponibile prima del 2020.
Anche la vita dei soldati al fronte potrebbe diventare ancora più dura, a causa dell'integrazione sempre più spinta di "nanotecnolgie, networking, sistemi computazionali avanzati e intelligenza artificiale", che darà vita a sciami di apparecchiature miniaturizzate in grado di corrodere, rilevare mediante sensori ed esplodere", moltiplicando il numero delle vittime anche più degli attacchi terroristici. Il "nemico " (quale esso sia, nazione o singolo individuo), inoltre, si infiltra nei social network, dove può da un lato individuare parenti ed amici dei soldati nemici - rendendo necessaria la loro protezione - e, dall'altro, fare propaganda minando la capacità dell'Esercito di reclutare personale o di mantenerlo tra i suoi ranghi.
Tuttavia, l'aspetto più sottile della guerra che verrà è la tendenza a prendere di mira non più solamente il corpo, ma anche la mente del nemico. Secondo il documento pubblicato da WIRED, attorno al 2030 saranno disponibili una seria di "strumenti di guerra neuro-cognitiva in grado di coordinare tecnologie elettromagnetiche, infrasuoni e luci per colpire il sistema neurologico e fisiologico umano". La cosa interessante è che è sufficiente alterare anche lievemente il livello di risposta di ogni singolo individuo: un danno complessivo notevole è assicurato dalla somma di milioni di défaillances individuali infinitesimali. Questo tipo di influenza subliminale sul comportamento può essere utilizzata, in modo particolarmente efficace, nei "sistemi online immersivi": i social network, Second Life, ma il ragionamento vale per ogni gioco o servizio internet.
Commentando l'articolo di WIRED USA sul blog a cui collabora (mindhacks.com), il neuroscienziato inglese Vaughan Bell ricorda i numerosi esperimenti che provano una relazione causale tra esposizione dei soggetti a determinati argomenti e comportamenti rilevati successivamente. Ad esempio, un gruppo di studenti cui subito prima dell'esperimento era stato fatto leggere un brano in cui si menzionino comportamenti arroganti, rudi ed aggressivi, si sono dimostrati mediamente più impazienti di altri che avevano letto brani in cui si parlava di gentilezza e pazienza: l’effetto in psicologia viene definito "priming" (quando “uno stimolo precedente influenza una reazione successiva anche non correlata”).
Dunque, continua Bell, basterebbe una "determinata stimolazione codificata all'interno di un un gioco o di un servizio internet (credo che nell'Esercito siano troppo timidi per dire la parola “porno”) per ridurre la performance cognitiva di una frazione, ma quando si considera che questo avverrebbe sull'intero esercito, la sua potenza offensiva potrebbe esserne drasticamente influenzata." La guerra non è stata mai così sporca. E facile.
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di Rosa Ana De Santis
La mimosa dell’8 marzo è tornata puntuale ai semafori urbani. Gli stranieri, al posto degli ombrelli o dei fazzoletti, tenevano per mano l’unico pallido simbolo della ricorrenza. La festa delle donne è stata come sempre spaccata in due. Le goliardate notturne simil-maschi, con pupazzi di maschi palestrati o gli intensi convegni di riflessione autoreferenziale sui diritti delle nostre mamme lavoratrici, delle nostre giovani nel luogo di lavoro, delle straniere e delle loro preziose differenze.
Il bilancio dell’emancipazione è ancora pieno di crepe. La famiglia italiana ha rincorso un parametro di uguaglianza zoppicando sui numeri dell’Europa. A guardare la vita delle nostre donne si scopre che la loro emancipazione e autonomia di guadagno è costruita, purtroppo, non tanto sull’eguaglianza negli oneri e nel lavoro di cura con i propri compagni, quanto sulla non emancipazione di altre. Le più povere o le immigrate.
Il rapporto è quasi di diretta proporzionalità e ci obbliga a riportare la questione femminile all’interno di domande più ampie, spesso incautamente trascurate. E’ tanto romantica quanto sbagliata l’idea di pensare la questione femminile come scissa dalle categorie del tempo e dello spazio. Le donne non sono donne e basta. Stanno dentro alle grandi questioni politiche del nostro tempo e nessuna categoria del loro pensiero rappresenta una scommessa valida per il futuro se si prescinde da questo nesso. Il naufragio di tanto femminismo nasce proprio da questo peccato originale: averle portate fuori dal mondo.
Cent’anni di 8 marzo obbligano a registrare i progressi. Dal 1910 ad oggi, dicono filosofe come Irigaray e Marzano, la posizione delle donne nello spazio pubblico ha vissuto forti miglioramenti, ma entrambe devono riconoscere il ritorno di vecchi clichè. La colpa? Forse proprio delle donne, basta prendersela con gli uomini. Quelle che non hanno assunto alcuni parametri di novità o che li hanno assorbiti soltanto nella versione deteriore: quella del potere, della supremazia, dell’assuefazione ai parametri maschili dell’essere vincenti, della quantità, del poter fare tutte le cose che fanno i propri padri o i mariti. Misurando i talenti secondo le stesse unità di misura.
La cronaca politica e quella del gossip in Italia, proprio il paese che protegge a tutti i costi il dogma della famiglia perbene, ha visto il trionfo e la benedizione di quelle donne disponibili alla mercificazione plateale del corpo per un vantaggio economico o di collocazione sociale. Il fenomeno non è “di poco conto”, né circoscrivibile al mondo del sesso, alla prostituzione tradizionale, al sottobosco dello spettacolo. A quello che c’è sempre stato, insomma. Il costume della prostituzione è stato nobilitato, normalizzato, spalmato nell’immaginario collettivo su tutte le donne e assunto a valore di scambio potenziale per il genere femminile tout court. Venduto come rottura dell’ipocrisia, è diventato solo un abbassamento del profilo di genere. Un imbarbarimento, un rigurgito di passato remoto. Un asservimento al mondo degli uomini che non risparmia donne colte, consapevoli e autodeterminate. Sarà anche per questo abbandono delle tradizionali differenze che nelle fantasie degli uomini eterosessuali è diventata sempre più forte la seduzione del corpo e del pensiero trans. Sono più donne delle donne?
L’8 marzo italiano una novità di costume l’ha portata. Indubitabile. E’ saltata quell’odiosa distinzione tra donne per bene e prostitute, e l’icona del femminino ha preso le sembianze di una creatura mista. Una mitologia interrotta. Corpo di donna e testa di maschio. Sono così le donne che incontriamo? Quelle del post femminismo? E’ questo l’incrocio dell’eguaglianza imperfetta e della differenza degenerata? L’esasperazione della battaglia per il nemico esterno ha spinto il nemico sempre più dentro.
Eduardo Galeano, scrittore uruguayano, nei colori vividi e penetranti dei suoi versi ha detto che la donna è il Sud del Mondo. E conoscendo il simbolismo pindarico delle sue parole, vuole senz’altro raccontarci qualcosa di più dei numeri e delle statistiche della differenza e del disavanzo con gli uomini. Vuole portarci proprio dentro quel vortice al sud della terra, dove l’ingiustizia della storia si è mescolata a una strana liturgia della maledizione che impedisce ogni riscatto, ogni atto persino. Così nelle donne rimane lo stesso arresto. Un sacro limite che la velocità delle conquiste esterne ha abolito solo nei riti e nella forma lasciandolo intatto al suo posto. E se c’è ancora bisogno di rivoluzione, forse, danno e beffa dell’ultima nostra storia, sarà per tornare a come eravamo.
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di Ilvio Pannullo
I prodotti della casa sono sempre i più buoni? Forse in ambito agro-alimentare, ma di certo non se si tratta di prodotti finanziari distribuiti dalle banche. Soprattutto se, abbinati alla vendita di questi investimenti, ci sono lauti bonus per i dirigenti che li consigliano ai risparmiatori, spesso ignari dei meccanismi che ci sono dietro ai "consigli per gli acquisti". Non è bello, insomma, che una banca spinga a comprare i prodotti finanziari che ha più urgenza di piazzare invece di quelli più adatti alle esigenze del cliente.
Sul tema, odioso dopo i tanti scandali finanziari che hanno distrutto l'immagine del settore in Italia, è tornata la Consob, che ha richiamato due settimane fa due istituti (il nome resta ancora oggi misterioso) a una maggiore disciplina nell'ambito della distribuzione di prodotti finanziari, e di una maggiore aderenza alle norme della direttiva europea Mifid, che prevede una forte tutela degli interessi esterni all'intermediario.
Il problema, però, sta tanto nella condotta fraudolenta delle banche quanto nell’ignoranza dei clienti, solitamente del tutto incapaci di muoversi autonomamente nel globale supermercato dei prodotti finanziari. Davanti al feroce corporativismo del sistema bancario e preso atto della sua influenza sulla casta politica, s’impone al nutrito popolo dei risparmiatori una maggiore consapevolezza dei meccanismi che regolano l’universo della finanza. Sempre più spesso, infatti, si sente parlare d’ignoranza finanziaria del popolo italiano. Non che questo nella sua media sia particolarmente colto, ma certamente in tema di mercati e finanza è tra i più ignoranti d'Europa. Politici, banchieri centrali e uomini d'affari lamentano periodicamente l'ignoranza del pubblico in tema di denaro, e hanno ragione.
Ciò, ovviamente, nulla toglie alla responsabilità di quegli istituti che, forti di una posizione di evidente superiorità rispetto al risparmiatore, sfruttano la propria posizione per liberarsi fraudolentemente dei rischi assunti scaricandoli sulla clientela. Sarebbe tuttavia logico aspettarsi un vero e proprio esodo dei risparmiatori da quelle realtà finanziarie che, di volta in volta, vengono coinvolte in simili scandali. Purtroppo, però, non è mai accaduto nulla di simile. Ma quali sono le due banche colpevoli di aver agito con troppa leggerezza nei confronti della clientela? La commissione guidata da Lamberto Cardia - Presidente della CONSOB, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa - non ne fa menzione per non scatenare la rivolta dei risparmiatori. La mancanza dei nomi ha tuttavia scatenato il tran tran di voci.
Nessun istituto si può escludere a priori, ma sembra che il richiamo, che si concretizzerà nella convocazione del consiglio di amministrazione dei due istituti, per l'esame di tematiche inerenti alla prestazione di servizi di investimento, non sia stato rivolto alle due big d'Italia, Unicredit e Intesa San Paolo. Voci accreditate dalle testate giornalistiche del settore sembrano escludere anche gruppi come Banca popolare di Milano, peraltro già toccata da rilievi Consob circa l'emissione di obbligazioni. Qualcuno comincia a fare i nomi di Banca Carige, Monte dei Paschi di Siena, Ubi banca, Banco Desio e Banca Etruria, ma le banche sospettate sono tante tra gruppi medi e medio grandi.
A breve si attendono le smentite degli istituti tirati al centro delle voci in un gioco a esclusione, fino ad arrivare alle due che da smentire avranno ben poco. Tra gli operatori le orecchie sono ben tese per carpire gli argomenti dei prossimi consigli di amministrazione in programma, per verificare se nell'ordine del giorno ci sono questioni inerenti la Mifid. Quel che è certo, tuttavia, è che la crisi finanziaria fatto riemergere in qualcuno vecchi vizi difficili da sradicare.
Rimane, però, il problema della facilità con cui gli squali della finanza riescano a mietere vittime tra i piccoli risparmiatori. Il problema è serio e si va imponendo all’attenzione generale a causa della sempre crescente volontà politica di rimettere all’autonomia privata scelte un tempo rimesse all’esclusiva competenza dello Stato. Una società moderna si aspetta che la maggior parte degli individui si assumano la responsabilità della gestione della spesa del proprio reddito (al netto delle tasse); che la maggior parte dei cittadini adulti sia proprietaria della propria casa di abitazione e che gli individui decidano quanto risparmiare per la pensione e se coprirsi da eventuali rischi attraverso la sottoscrizione di un'assicurazione. Ma una società che non fornisce ai propri cittadini gli strumenti necessari a prendere sagge decisioni finanziarie. Di più, sono in molti a sostenere che l'attuale crisi sia in parte dovuta alla diffusa ignoranza della storia finanziaria, non solo fra la gente comune. Conoscere, infatti, significa soprattutto essere messi nelle condizioni ottimali per poter operare una scelta coerente con le proprie esigenze.
Tra i tanti problemi del sistema finanziario il difetto principale è che esso riflette e accentua le debolezze umane. Come dimostra un numero crescente di ricerche sulla finanza comportamentale, il denaro accresce la nostra tendenza a reazioni eccessive, a passare dall'euforia quando le cose vanno bene alla depressione quando le cose vanno male. Il gonfiarsi e lo sgonfiarsi delle bolle finanziarie, in ultima istanza, è il frutto della nostra instabilità emotiva, della nostra incapacità di rimanere razionali quando tutto intorno a noi incomincia ad impazzire. Ma la finanza accentua anche le differenze fra gli uomini, arricchendo chi è intelligente e fortunato e impoverendo chi non è altrettanto intelligente e fortunato.
La stessa globalizzazione finanziaria potrebbe portare enormi benefici, se solo i soggetti ad ogni titolo in essa coinvolti fossero nelle condizioni per agire con piena coscienza e volontà; in linea teorica potrebbe portare, dopo più di trecento anni, al drastico ridimensionamento della divisione tra paesi ricchi e sviluppati e paesi poveri meno sviluppati. Sul piano strettamente dottrinario, infatti, quanto più i mercati finanziari s’integrano, tanto maggiori sono le opportunità per le persone che capiscono la finanza di migliorare le proprie condizioni, ovunque vivano, e parallelamente tanto maggiore è il rischio di una perdita di status sociale da parte di chi nulla sa di finanza. Ma i risultati dicono praticamente il contrario.
In termini di distribuzione generale del reddito, il mondo moderno non è un mondo piatto, semplicemente perché la remunerazione del capitale è aumentata esponenzialmente rispetto alla remunerazione del lavoro non qualificato. In altre parole, il premio riservato a chi conosce non è mai stato così elevato e la pena per l'ignoranza finanziaria non è mai stata così severa. Conoscere dunque le regole del gioco assume oggi un'importanza assolutamente fondamentale. Come nella vita di ogni giorno, è facile constatare che chi conosce agisce, mentre chi non conosce rimane immobile in un mondo che muta in modo troppo veloce per tollerare l'inerzia.