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di Rosa Ana de Santis
Hanno provato a farlo morire di anoressia, di droga, di cadute accidentali dalle scale e di un quasi suicidio. Ma gli esperti di parte civile non hanno dubbi. Stefano è morto di edema polmonare acuto per le percosse violente subite. Il suo cuore, sotto i colpi delle botte, sarebbe diventato sempre più lento. Affaticato dalla frattura in L3, spacciata per troppo tempo come lesione antecedente agli eventi, dall’immobilizzazione forzata e da tutta la “catena di eventi” seguita a quello traumatico, si sarebbe spento piano piano. Con efficiente complicità della negligenza dei sanitari. Dei camici bianchi che hanno finto di non ravvedere l’urgenza e la gravità del caso e che non hanno voluto salvare Stefano.
Appena ricoverato al Pertini i suoi battiti erano già 49, contro i 60-90 normali. Una conseguenza piuttosto scontata e rischiosa per i pazienti che hanno subito lesioni midollari. Il quadro delle ecchimosi e delle lesioni fa il resto. Ci spinge a non voler cadere nella trappola della disinformazione. Quella che vuole circoscrivere il fango alle responsabilità, che pure sono evidenti e gravissime, dei sei medici coinvolti. Per lasciare pulite le tre guardie carcerarie e, insieme a loro, la macchina perfetta della violenza di Stato.
Stefano Cucchi era gracile, ma sano. Praticava sport e sua sorella Ilaria ha da sempre respinto il tentativo di occultare le fratture recenti addebitandole al passato. Oggi ci sono le prove autoptiche e la documentazione dei periti a dare forza alle parole dei suoi familiari. Le fratture non hanno callo osseo e concordano con i segni feroci che abbiamo visto tutti su quel corpo ridotto a uno scheletro di sangue.
Queste ultime perizie, va precisato, non spostano l’attenzione e l’occhio della Procura dalle omissioni dei medici, dall’ingiusta disparità di trattamento e cure tra cittadini liberi e detenuti, dalla disumanità in cui i sanitari hanno lasciato Stefano da solo, agonizzante. Ma strappano i poliziotti indagati dal comodo silenzio in cui erano finiti in questi ultimi mesi. Ricorda all’opinione pubblica che qualcuno ha picchiato, qualcuno in divisa ha dato calci e pugni fino al punto di uccidere il giovane Cucchi.
Per la Commissione d’inchiesta Parlamentare Stefano è morto di disidratazione. Il dottor Albarello, direttore dell'Istituto di medicina legale della Sapienza di Roma, a capo del pool di medici, consulenti del pubblico ministero che conduce l'inchiesta, parla certamente di terapie sbagliate e di responsabilità per i medici che hanno preso in carico il giovane. Ma le evidenzia come responsabilità omissive che non scagionano più, come sarebbe accaduto senza questa perizia, i poliziotti indagati.
Aver parlato di malasanità, d’imperizia medica, di condizioni disumane dei detenuti, avrebbe annebbiato il caso, avrebbe dissolto gli assassini in una riflessione generale sulle carceri e le morti dietro le sbarre. Quelle che suscitano formale tristezza, ma che si dimenticano in fretta. Quelle che quasi sembrano naturali, quando non sono addirittura invocate come meritate, per chi finisce ai ferri.
Questo non si può più dire. O almeno sarà sempre più difficile. I medici avrebbero potuto salvare Stefano Cucchi con una diversa terapia, ma non l’hanno fatto. La loro colpa è di averlo condannato a morte. I poliziotti a calci e pugni gli hanno procurato un trauma che ha iniziato a ucciderlo lentamente, nelle sequenze di una lucida agonia. Lucida fino a quando Stefano è riuscito a chiedere aiuto. Un familiare, un legale.
Questa è la disperazione che ci racconta la sorella di Stefano dall’ultima conferenza stampa alla Camera dei Deputati. Immaginarlo in quegli ultimi attimi di vita. Quando forse avrà creduto di esser stato lasciato da tutti, di esser stato dimenticato lì. Le sue parole obbligano a non scantonare nelle questioni generali e a non cancellare i nomi e i cognomi.
Oggi non parliamo di carceri e di dignità dei malati in carcere. Ma di Stefano e dei suoi assassini. Di un detenuto ucciso, degli uomini in uniforme che l’hanno massacrato di botte e di quelli in camice bianco che non l’hanno salvato. Parliamo dei suoi assassini. Per non dimenticare chi era Stefano e non dimenticare come è stato ucciso.
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di Rosa Ana de Santis
La notizia aveva fatto il giro di tutti i quotidiani suscitando sconcerto. Persino il Ministro della Giustizia era dovuto intervenire di fronte a tanto clamore. Oggi i quotidiani locali raccontano la fine di una vicenda giudiziaria impasticciata di omertà. Il caso è quello del carcere di Teramo e dell’accusa di pestaggi, lesioni e omissioni per tre agenti penitenziari e il loro Comandante Giuseppe Luzi. Quello che dava indicazioni su dove “massacrare” un detenuto. “Meglio al piano di sotto”, diceva lui. L’audio raccontava poi del testimone scomodo, del negro che aveva visto tutto. Una confessione impeccabile. Le violenze ai danni di un detenuto, l’ansia per la rivolta che sembrava bollire nelle celle e la sensazione che la pratica ordinaria di quel luogo di pena fosse fatta di ordinari riti di violenza.
Il testimone Uzoma Emeka, soltanto un mese dopo, era morto per un tumore al cervello mai diagnosticato. Un decesso un po’ troppo repentino, il segno dell’abbandono totale in cui versano le condizioni dei detenuti, e senza dubbio una morte comoda. Le indagini subito dopo sono andate avanti a singhiozzo, fino ad arrivare ad oggi in cui viene avanzata la richiesta di archiviazione. Il magistrato ha segnalato come principale impedimento il codice di omertà che lega i detenuti e che non consente di trarre prove ed elementi sul caso né di avere dichiarazioni su cosa accade nelle celle del carcere. Ma l’omertà andrebbe chiamata per nome. E si chiama terrore.
Quello del detenuto vittima delle violenze, l’unico indagato rimasto, che ora si affanna a negare tutto. Quello che forse deve aver avuto il testimone morto all’improvviso. Così gli agenti e il loro comandante potrebbero cavarsela non negando quelle conversazioni, inconfutabili del resto, ma ricorrendo alla tesi bizzarra del “contesto”. Sarebbero stati quei giorni di tensione nel carcere e il timore di una rivolta a causare quegli sfoghi verbali, ma nulla sarebbe accaduto davvero. O meglio: nulla può essere più dimostrato. Le accuse si sbriciolano, anche se emergono chiare le versioni contraddittorie degli indagati e ci sono agli atti le prime timide dichiarazioni. Ma tutto sarà archiviato, la giustizia bloccata. Sono proprio i detenuti a scagionare i loro carnefici. Per paura.
Il caso di Teramo ha lo stesso sapore di altre storie rimaste ancora senza colpevoli. Solo qualche giorno fa, il caso di Giuseppe Uva, condannato a morte in una caserma dei Carabinieri; o le indagini ancora in piedi per Stefano Cucchi, ucciso a metà dalle botte e a metà dalle omissioni dei medici. Per non dire della pena ridicola per i poliziotti responsabili della morte del giovanissimo Federico Aldovrandi. E chissà quanti altri insabbiati. Chissà quanti stranieri stipati nelle nostre carceri di cui nessuno sa ne ha memoria, per cui nessuno avrà strumenti mai per chiederne giustizia.
Teramo disegna un macabro ritratto delle nostre forze d’ordine e soprattutto la consapevolezza che dietro le sbarre ci sia la terra di nessuno. Luogo senza Stato, senza legge. Uno spazio vuoto dato in pasto alla forza. Proprio in occasione dei lavori del ventunesimo Consiglio nazionale del sindacato autonomo Polizia Penitenziaria si è parlato dei problemi serissimi in cui versa la popolazione carceraria nel nostro Paese e, soprattutto, della necessità di ristabilire una diversa e più efficace politica della pena che sia fatta il più possibile, e proporzionalmente ai reati commessi, di misure alternative e di reali proposte rieducative. Un aspetto della detenzione che non importa alla pancia di tanti italiani.
Se tutto questo ha solo qualche lontana occasione di essere credibile, si deve ripartire dall’elemento fondamentale. Riportare la legge dietro le sbarre. Ristabilire la giustizia e almeno i diritti inalienabili di ciascun individuo. Punire gli assassini anche quando sono poliziotti o carabinieri. Per raccontare se questa montagna di omertà è il nemico o il pane della nostra storia. E se quello che accade dietro le sbarre non sia soltanto la replicazione più esasperata di una stessa diffusa democrazia di carta.
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di Mario Braconi
Un programma televisivo francese in cui ai partecipanti viene richiesto di somministrare scariche elettriche anche molto forti ad uno sconosciuto quando quest'ultimo commetta un errore in un esercizio mnemonico: è questa l'ultima frontiera horror-trash della televisione europea? Fortunatamente, "Zone Extreme" (questo il titolo della trasmissione) non esiste nel mondo reale: solo che le ottanta persone selezionate a partecipare al suo falso episodio pilota non lo sapevano; così come ignoravano che le urla di dolore che sentivano provenire dalla minuscola "cella delle torture" ripresa dalle telecamere erano solo il saggio di bravura di un attore professionista...
Benché a prima vista il gioco di "Zone Extreme" (documentato da un filmato del regista Michel Nik) si presenti come una provocazione contro gli eccessi dei reality estremi, esso è la riedizione contemporanea di uno dei celebri esperimenti condotti dallo psicologo sociale americano Stanley Milgram per studiare fino a dove si possa spingere l'obbedienza ad una figura percepita come autorevole. Correva l'anno 1961 e a Gerusalemme era appena iniziato il processo al criminale nazista Adolf Eichman, corresponsabile della deportazione e dello sterminio di milioni di ebrei. Il geniale quanto spregiudicato Milgram voleva capire quanto fosse solida dal punto di vista psicologico la giustificazione che molti dei macellai lordi del sangue dell'Olocausto, invocavano nel tentativo di diluire le proprie responsabilità: "Non abbiamo fatto altro che obbedire agli ordini".
I risultati degli studi di Milgram possono essere così riassunti: primo, un soggetto autorevole (nel caso di specie, un finto scienziato) è in grado di ridurre le persone che riconoscono la legittimità del suo status ad una forma di obbedienza tanto estrema che arrivano a violare i principi morali normalmente da esse riconosciuti e rispettati; inoltre, il livello dell'obbedienza è funzione del contesto in cui viene richiesta e praticata: in altre parole, esistono "situazioni" (in senso sociologico) in cui atti normalmente considerati contrari alla morale vengono percepiti non solo come accettabili, ma addirittura inevitabili. Le conclusioni dello studio, invero devastanti dal punto di vista morale, sono ancora più agghiaccianti se si considera che, nei casi in cui il torturatore e la vittima furono mantenuti ad un ragionevole grado di distanza fisica (e pertanto anche emotiva) ben il 65% delle "cavie" arrivò a somministrare quella che riteneva una scarica "molto pericolosa" alla vittima (anche in quel caso, un attore).
Il falso programma "Zone Extreme", se possibile, ha avuto un esito anche più distruttivo degli esperimenti di Milgram: innanzitutto tutte le persone contattate hanno accettato di prendervi parte; evidentemente tutte le persone cui è stato richiesto di partecipare ad un programma nel quale si arriva a torturare uno sconosciuto hanno pensato che fosse una buona idea dire di sì. Inoltre, ben 8 partecipanti su 10, nel corso della trasmissione, hanno spinto la leva del voltaggio fino al massimo livello (460 volt). In cinquanta anni il mondo cambia, e non in meglio, se il numero dei torturatori estremi cresce e se un qualsiasi presentatore TV è oggi considerato tanto autorevole quanto negli Anni Sessanta era stimato uno scienziato.
Si può dunque concludere che viviamo in una società di sadici e di dementi? Non ne è convinto Jean Léon Beauvois, psicologo sociale e coordinatore dell'esperimento "Zone Extreme", il quale, in un'intervista resa al settimanale francese L'Express, spiega: "Non bisogna credere che, per il semplice fatto che i soggetti obbediscono, lo facciano a cuor leggero. Inoltre, al fine di valutare l'eventuale sadismo dei concorrenti, abbiamo introdotto una variante del gioco in cui la presentatrice si assenta lasciando i giocatori liberi di somministrare le scariche senza poter essere influenzati dalla figura autorevole: in questo contesto, ben il 75% dei partecipanti ha interrotto la somministrazione della scossa non appena la finta vittima ha cominciato ad urlare." Il che conferma che non è il presunto sadismo a spingere le persone - in condizioni "normali" non farebbero deliberatamente del male ad uno sconosciuto - ma il cosiddetto stato eteronomico (quello in cui un sistema morale viene temporaneamente sovrascritto da un altro contrastante percepito come gerarchicamente vincente).
La gran parte delle persone, secondo Beauvois, ha investito tutte le sue abilità sociali sulla figura della presentatrice del programma: è per non scontentarla, per non entrare in conflitto con lei, che la gran parte dei partecipanti, nonostante in possesso di una normale senso del bene e del male, le ha obbedito, calpestando principi minimi di umanità. Si tratta di una forma di obbedienza subdola e molto pericolosa. Gli stessi soggetti che ne restano vittime sono pronti ad autoingannarsi pur di riconciliare i loro principi generali con il singolo comportamento deviante: racconta Beauvois, infatti, che alcuni concorrenti intervistati dopo la conclusione dell'esperimento hanno sostenuto di aver sospettato che si trattasse di una burla, ma di aver comunque deciso di proseguire. Altri, che hanno detto di aver capito sin dall'inizio che si trattava di un falso programma, sono però stati sorpresi a tentare di suggerire le risposte alla "vittima" del gioco, al fine di risparmiargli la terribile punizione prevista.
Sono, chiaramente, posizioni incoerenti: come si può proseguire un gioco tanto dannoso se si anche il minimo dubbio che sarà coinvolta veramente una persona? E perché passare le risposte sottobanco se si è consapevoli che è tutta una farsa? Sono solo modi per razionalizzare comportamenti di cui intimamente ci si vergogna, spiega Beauvois.
Una cosa è certa, conclude Beauvois, "un esperimento come questo, che dimostra come l'80% della gente si trasformi in un torturatore se glielo chiedono in TV, riflette un potere terrificante. Questo io lo chiamo totalitarismo. Un totalitarismo tranquillo, perché non si tratta di picchiarci o sbatterci in prigione, ma pur sempre un totalitarismo". E come potremmo dissentire, noi italiani, vittime di una psico-dittatura catodica?
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di Mario Braconi
Il porno è un'industria fiorente. Secondo il Rapporto sulla pornografia 2005 dell'Eurispes (ultima ricerca disponibile in Italia sull'argomento) poco meno di 9 milioni di connazionali ne fanno uso, per un fatturato annuo stimato di poco superiore al miliardo di euro. Dati certamente sottostimati per due ragioni: prima di tutto, non incorporano le vendite effettuate tramite operatori non specializzati nel settore (come Sky), che però, senza dare troppo nell'occhio, portano nelle case dei benpensanti italiani migliaia di ore annue di filmati "proibiti" (da novembre, per motivi di budget, la pay-per-view Sky per adulti trasmette porno 24 ore su 24); ma soprattutto perché il fenomeno YouPorn consente a circa 1,5 milioni di italiani di soddisfare le loro voglie pruriginose senza metter mano al portafogli.
Poiché dunque la pornografia è un fenomeno diffuso, interrogarsi su quali siano i suoi effetti sulla quella società che la genera e la consuma è un esercizio doveroso: la pornografia, insomma, fa bene o no alla società? E' questo, grosso modo, il titolo di un articolo comparso il primo marzo sul sito internet della rivista americana The Scientist, a firma di Milton Diamond, professore di anatomia e biologia riproduttiva presso la University of Hawaii a Manoa. Diamond, dopo aver ridicolizzato negli Anni Novanta le cosiddetta Teoria della neutralità di genere, secondo la quale essere maschio o femmina è soprattutto un fatto culturale, ha condotto ricerche sul campo in Giappone ed in Croazia, concludendo che non esiste alcuna relazione provata tra incremento nella disponibilità di pornografia e numero degli stupri e dei reati sessuali in genere. Secondo Diamond, anzi, sarebbe vero il contrario: in concomitanza con un più facile accesso a materiale pornografico registrato con l'avvento di internet, il numero di questa categoria di delitti sarebbe addirittura diminuito.
Dall'analisi delle abitudini degli uomini colpevoli di violenza sessuale anche su minori, risulterebbe che essi facciano meno uso di pornografia rispetto a quelli che non si macchiano di questi crimini; sembra invece provata, secondo Diamond, la relazione tra educazione repressiva e sessuofobica e delitti di tipo sessuale. Diamond conclude proclamando la legittimità della pornografia; perorazione per certi versi preoccupante, nel senso che implica l’esistenza negli USA di una tendenza verso progetti che la rendano illegale: "Non esiste forma di libertà di cui sia impossibile abusare. Detto questo, la libertà della maggioranza non può essere conculcata per prevenire gli abusi di una esigua minoranza. Quando le persone superano certi limiti, commettono reati, per punire e reprimere i quali già esistono leggi specifiche."
L'articolo di Diamond non è però inattaccabile dal punto di vista scientifico. Kate Harding, firma del giornale online americano Salon, femminista e suffragetta dei diritti delle persone sovrappeso, dedica al professore un pezzo puntuto e preciso: innanzitutto, sostiene la Harding, Diamond non cita una serie di studi recenti secondo cui i crimini contro le donne sarebbero invece aumentati assieme alla maggior diffusione della pornografia. In generale, sostenere che il periodo in cui Diamond ha riscontrato un calo degli stupri (1970 - 1995) sia stato caratterizzato soprattutto da una maggiore produzione e consumo di materiale pornografico, appare a dir poco riduttivo: non sono forse innumerevoli i fenomeni culturali e sociali verificatisi in quegli anni che possono reclamare una qualche influenza sulla pretesa contrazione del numero dei delitti?
La Harding cita ad esempio la maggiore consapevolezza delle donne, ottenuta anche grazie all'apporto del movimento femminista. Senza contare che, per quanto Diamond si svoci a difendere la pornografia considerandola addirittura un driver di attitudini favorevoli alle donne, anche chi non mastica statistica è in grado di capire che c'è una bella differenza tra correlazione e nesso causale.
Se da un lato, continua Harding, è rinfrancante ribadire quanto possa essere dannosa un'educazione religiosa repressiva e sessuofobica, a portare agli estremi il ragionamento di Diamond sembrerebbe che gli stupratori siano tali a causa del poco porno consumato: il che implica tra l'altro che, un'eventuale maggiore diffusione del porno, non impatterebbe più di tanto i crimini sessuali (per qualche ragione gli stupratori non ne consumerebbero in ogni caso). Senza contare che il ragionamento di Diamond sembra considerare lo stupro dall'angolazione della gratificazione sessuale (dello stupratore, ovviamente) e non da quella del controllo e della violenza; che i colpevoli di crimini diversi non abbiano mai compiuto anche una violenza sessuale (magari mai scoperta né punita) e, infine, che l'educazione repressiva tenda ad influenzare solo il consumo di materiale a luci rosse anziché contribuire ad instillare esecrabili quanto sciocchi stereotipi sulla femmina ("creatura del demonio", "tentatrice" e via delirando).
Infine, a parte qualche lodevole eccezione, il materiale pornografico in circolazione (che abbia o meno l'imprimatur femminista) difficilmente contribuisce ad ispirare nei suoi utilizzatori maschi rispetto ed atteggiamenti paritari nei confronti dell'altra metà del mondo. Insomma, se pure è condivisibile la difesa della legittimità e della legalità della pornografia, Diamond non riesce a convincere completamente quando sostiene che più pornografia significhi automaticamente una società migliore e maggior rispetto per le donne. E a farglielo notare è una donna.
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di mazzetta
Quasi tutto quello che compriamo si porta dietro una serie di avvertimenti e suggerimenti precauzionali “per la sicurezza del consumatore”. Dal cibo fino ai semplici sacchetti di plastica (non sono un giocattolo, rischio di soffocamento) sembra che gran parte di quello che compriamo sia potenzialmente pericoloso, tanto da rendere necessarie avvertenze che sfidano l'ovvio (“non ingerire” c'è scritto anche sui cuscinetti a sfera d'acciaio).
Poi quando si arriva a certi oggetti di consumo, le cautele evaporano. È successo a lungo per le sigarette, per le auto, succede ora per i telefoni cellulari e i dispositivi wireless in generale. Dispositivi che hanno un mercato enorme, destinato a essere sempre più importante nei decenni a venire. Eppure se i cellulari provocano un'incidenza di gravi malattie appena statisticamente rilevante, questi diventano necessariamente milioni di casi nel mondo, non esattamente un caso “raro”.
Dopo venticinque anni dall'introduzione sul mercato dei cellulari si dice che non esiste ancora uno studio epidemiologico sugli effetti dell'uso dei cellulari sulla salute. Un'assenza clamorosa, se si pensa che, oltre a un lungo lasso di tempo, sono a disposizione circa quattro miliardi di utenti di cui si conosce tutto, dall'età al sesso, fino alle abitudini d'uso del terminale e agli spostamenti.
Nonostante questa mancanza sospetta, molti - scienziati - hanno dichiarato che i cellulari non sono dannosi per la salute e non provocano tumori: semmai, i cellulari sono pericolosi alla guida.
Una linea condivisa e sostenuta da quasi tutti media, ma se non ci sono ancora gli studi, come si fa a dichiarare che non sono pericolosi? Se non si può dire che siano pericolosi, poiché non ci sono studi, come si può supportare la conclusione contraria? Un atto di fede o di convenienza? Gli studi esistono in realtà, ce ne sono diversi, anche se incredibilmente pochi e modesti se confrontati con la base statistica a disposizione. Il dottor Henry Lay, dell'università di Washington, ha fatto due conti e ha notato che il 67% delle ricerche indipendenti ha trovato prove della pericolosità dei cellulari, mentre solo il 28% delle ricerche sponsorizzate dai big del settore ha esposto risultati dello stesso segno, ma meno evidenti.
Gli unici limiti alle emissioni elettromagnetiche dei cellulari (e dei cordless e degli altri dispositivi wireless) in vigore sono stabiliti sulla presunzione indimostrata che queste emissioni non siano dannose per la salute (si dice per la loro particolare frequenza): si tratta quindi di limiti posti primariamente per evitare interferenze con altre apparecchiature. Eppure, la nocività delle emissioni elettromagnetiche è nota e si sa che i loro effetti possono essere devastanti, quanto basta a molti per adottare comportamenti precauzionali anche in assenza di una certificazione scientifica. Lo stesso consiglio per l'uso dell'auricolare, diffusissimo e sposato anche dalle autorità sanitarie, non deriva da leggende urbane, ma da solide basi teoriche ed empiriche.
L'unico rapporto internazionale (Interphone), finanziato da governi e compagnie costruttrici e svolto con i dati di ventotto paesi, doveva uscire nel 2006, ma ancora non si è visto. Si sono viste solo conclusioni parziali, tra le quali quella per la quale i cellulari proteggerebbero dal cancro, se usati per un certo tempo. Conclusione che tuttavia le compagnie non hanno pubblicizzato, probabilmente considerata rivelatrice di grossi problemi metodologici nello studio.
Un gruppo di scienziati di quattordici paesi, che si occupa dell'inquinamento elettromagnetico, ha inviato al presidente americano Obama un rapporto ("Cellphones and Brain Tumors: 15 Reasons for Concern, Science, Spin and the Truth Behind Interphone") e una supplica per la revisione dello studio Interphone, chiedendo perché l'amministrazione obblighi i produttori a mettere avvisi precauzionali sulle confezioni dei prodotti.
Nello stesso studio Interphone, diversamente dalle conclusioni tratte fino ad ora, ci sono dati che testimoniano la relazione tra uso dei cellulari e l'insorgenza del cancro, aumento che cresce di un fattore quattro se si usa il cellulare sempre dalla stessa parte. Lo stesso studio Interphone parla di un raddoppio del rischio dopo dieci anni di uso del cellulare, senza distinguere tra uso intenso o meno. Durante la ricerca è stata raccolta un'enorme mole di dati, ma Interphone dice che “non sono ancora disponibili” per la maggior parte, sono disponibili solo quelli che dicono che i cellulari proteggono dai tumori.
Dallo stesso studio (e confermato da altri) emerge in particolare che l'uso in età prepuberale può provocare danni gravi e aumentare ancora di più (esponenzialmente) il rischio d'insorgenza di tumori. È bene notare che lo studio Interphone non riguarda altre patologie, come la possibile insorgenza di leucemie o di modificazioni a livello del DNA, effetti già legati dalla medicina alle emissioni elettromagnetiche, e nemmeno i danni al nervo uditivo, che sembrano in crescita negli ultimi anni o altre lesioni al sangue o ai tessuti.
L'unico effetto riconosciuto unanimemente e ufficialmente è quello del riscaldamento dei liquidi nei tessuti per effetto delle microonde emesse dai cellulari, cioè il riscaldamento di parte della testa dopo un contatto prolungato con l'apparecchio. Effetto che, pur riconosciuto, non ha portato le compagnie ad inserire alcun avvertimento nelle confezioni, in fondo la nostra testa soffre escursioni termiche molto più rilevanti durante la vita.
Nonostante molti medici consigliano ormai di non tenere il cellulare vicino alla testa, al cuore e ai genitali e di usare per quanto possibile auricolari collegati con un cavo, questi consigli non appaiono quasi mai nelle istruzioni degli apparecchi, in nessuna confezione è riportata una qualsiasi allusione ai tumori o a gravi patologie.
Restando alle avvertenze riportate negli studi conosciuti, il terminale aumenta la sua pericolosità con la riduzione della distanza dell'apparecchio dal corpo, con l'aumento dell'uso e proporzionalmente all'intensità delle emissioni dell'apparecchio. Rilevante in questo senso è la distanza dal primo ripetitore, che condiziona l'intensità del segnale che emesso e altrettanto rilevante è la durata dell'impiego del terminale. Chi telefona a grande distanza da un ripetitore è investito da radiazioni molto più forti di chi si trova in sua prossimità.
Non a caso uno dei bachi più rilevanti dello studio Interphone è proprio nell'aver classificato come “forti” utenti dei cellulari quanti usino il telefono più di cinque minuti al giorno che è un espediente statistico utile a diluire eventuali picchi nella diffusione del tumore tra chi, ad esempio, sta al telefono un paio d'ore o più al giorno. Le cronache hanno già confermato l'ipotesi, registrando casi di tumori devastanti nel lato della testa usato per telefonare da utenti che ne facevano un uso molto intenso, tra questi recentemente anche l'ultimo senatore Kennedy.
Lo studio Interphone oltre ad essere in ritardo è evidentemente sovvertito dalle compagnie, che hanno tutti gli interessi a minimizzare i possibili pericoli, l'appello sopra ricordato accusa apertamente le compagnie di aver sabotato le ricerche e di averle dirottate. Accusa forte anche delle dichiarazioni di alcuni ricercatori coinvolti che hanno denunciato errori e manipolazioni
La denuncia ha avuto scarsa eco negli Stati Uniti e quasi nessuna altrove, in Italia siano prossimi allo zero, eppure proprio di recente un tribunale italiano ha riconosciuto il rapporto causa-effetto tra il tumore di un denunciante e l'uso del telefonino, per farlo si è basato su uno studio epidemiologico svedese. Che evidentemente esiste.
Gli autori della denuncia fanno riferimento al “principio di precauzione” così come definito dalla UE e alle richieste di nuove indagini provenienti dalla stessa UE per chiedere a Obama un cambiamento deciso nella politica dell'amministrazione americana, l'amministrazione Bush er del tutto schierata al fianco dei produttori fino alla plateale negazione delle evidenze scientifiche e ai (poi rivelati) taroccamenti degli studi governativi in loro favore. Nella realtà le compagnie si sono “generosamente” offerte di finanziare queste ricerche per poterle controllare, non c'è nessun altro studio epidemiologico simile a Interphone, ma indipendente, in corso. Un'anomalia più che evidente.
Eppure lo stesso leader della Cellular Telecommunications Industry Association’s (CTIA) ha ammesso che dagli studi della sua associazione (dei produttori) emergerebbe un raddoppio del rischio di tumori, un aumento del neuroma acustico direttamente proporzionale all'esposizione dopo almeno 6 anni di uso del cellulare e “il rinvenimento di danni genetici nel sangue esposto alle radiazioni dei cellulari”.
Accertato è anche l'effetto negativo sulla fertilità, secondo gli studi disponibili la vicinanza di un apparecchio riduce del 59% gli spermatozoi vitali, ma non lo dice nessuno e non c'è nessuna avvertenza in merito sui prodotti, altri studi hanno testimoniato un aumento del rischio di tumori ai testicoli, mentre non esistono studi sull'influenza dei cellulari sull'apparato riproduttivo femminile, le consumatrici sono ancora più impressionabili.
Parallelamente le compagnie assicurative tendono sempre in maggior numero ad escludere la copertura di patologie insorte a causa dell'esposizione a sorgenti elettromagnetiche, se tra venti o trenta anni ci sarà un aumento dei casi di tumori, loro non pagheranno, ma se non c'è rischio che senso ha questa esclusione?
Molti paesi (Francia, Russia, Gran Bretagna, Germania, Israele e India) hanno posto limiti all'uso dei cellulari da parte dei bambini e nelle aree scolastiche, senza alcuna contestazione da parte delle compagnie produttrici, ma senza che questo facesse apparire alcuna avvertenza nelle confezioni dei cellulari, che spesso riportano una curiosa e unica dicitura, quella che dichiara che il cellulare rispetta i limiti delle emissioni se tenuto a 1.5 o addirittura a 2.5 centimetri dal corpo. Quindi, se tenuti in una tasca o all'orecchio, questi apparecchi non rispettano i limiti, ma questo non c'è scritto. Nel nostro paese lo Stato latita e i bambini non li protegge nessuno se non la coscienza e le possibilità dei genitori.
Tutti fatti, leggi, ed avvenimenti in palese contraddizione con il “non è dimostrato che i cellulari facciano male”, che per inciso è la stessa tattica negazionista usata prima dai produttori di sigarette e poi dalle grandi corporation che distribuiscono idrocarburi, che fino a ieri negavano l'esistenza del “climate change” e oggi che è accertato e riconosciuto da tutta la comunità scientifica internazionale, cercano di negare che ne siano responsabili le emissioni dei carburanti fossili.
Nell'aprile del 2009 la UE ha votato a stragrande maggioranza un approccio completamente diverso al problema e il finanziamento di nuovi studi, proprio per aggirare lo scandalo Interphone, ma i produttori hanno fatto finta di nulla e i media non hanno colto l'occasione per avvisare gli utenti dei rischi
Il rapporto inviato a Obama, pubblicato l'estate scorsa, si chiude chiedendo ai media di focalizzare l'attenzione sul problema, ma non l'ha fatto nessuno, anche i grandi giornali che hanno parlato di questo allarme si sono limitati a riassumerne le conclusioni senza richiamare la responsabilità delle aziende produttrici o senza fare altro per richiamare l'attenzione dei consumatori sui gravi rischi incombenti, anche in Italia non ne ha parlato nessuno.