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di Alessandro Iacuelli
C'era una volta un'azienda cinese di elettronica, la Shenzhen Great Loong Brother Industrial, che era però un'azienda un po' diversa dalle centinaia di migliaia di fabbriche cinesi che oramai abbiamo imparato a conoscere. Infatti, mentre queste ultime si dedicano al copiare i prodotti occidentali, da quelli tessili a quelli ad alta tecnologia, e a riprodurli su grande scala a prezzi ridottissimi, la Shenzhen è una delle poche che pensa a prodotti nuovi, realmente innovativi, con i quali tenta d’invadere il mercato mondiale. Certo, sempre d’invasione si tratta, e la politica economica cinese è tutta qui, ma alla Shenzhen non hanno mai voluto copiare i prodotti occidentali e, con il fior fiore d’ingegneri che hanno a disposizione, non molto tempo fa pensarono a qualcosa di assolutamente innovativo. Costruirono un apparecchio, un gioiellino tecnologico, che chiamarono P88. Di certo un nome che è solo una sigla e non uno di quei nomi destinati a rimanere nella memoria degli acquirenti di consumer electronic, affamati di tecnologia.
Così, nel 2009, il capitano dell'azienda, l'ingegnere Huang Xiaofang, presentò il prodotto all'Internationale Funkausstellung, fiera internazionale dell'elettronica di Berlino. Il prodotto piacque a molti e qualcuno si mostrò interessato ad importarlo in Europa, anche perché era la prima volta che i cinesi non proponevano la scopiazzatura di un prodotto occidentale. Nel frattempo, oramai da sei mesi, il P88 è in vendita in tutta la Cina. Con buoni risultati. Ma cosa fa il P88? Cos’é?
Non è un telefono, non è un computer portatile, ma ci si avvicina molto. E' più grande di un palmare, ha all'incirca le dimensioni di un lettore di e-books, ma ha di più: è touch screen, con tanto di tastiera che appare sullo schermo, si connette a internet, permette la navigazione, la visione di filmati, l'ascolto di musica e la lettura di documenti. Insomma, non ha le capacità di calcolo di un computer, non ha le caratteristiche di un I-Phone, poiché non è stato pensato per essere un telefono, ma si tiene in mano, ha uno schermo a colori leggibile e permette di navigare in rete. Mica poco.
Un lettore un po' superficiale potrebbe a questo punto esclamare che questa descrizione assomiglia molto a quella dell'iPad, il tablet presentato a San Francisco da Steve Jobs, come prodotto rivoluzionario di casa Apple. In realtà le differenze ci sono, nel bene e nel male. Anche l'iPad si tiene in mano, ma pesa decisamente meno di un P-88 marchiato Shenzhen, e per un dispositivo portatile il peso è molto importante. La batteria dell'iPad durerebbe, secondo le dichiarazioni di Apple, (forse un po' esagerate perché si tratterebbe di un vero record) 10 ore, contro l'ora e mezza del P88, ed anche questo è una caratteristica cruciale per un prodotto portatile. Di contro, il P88 ha uno schermo più grande, il che è una delle cause del maggiore peso, ha molta più memoria dell'iPad ed è dotato di porte USB, che invece il tablet californiano non ha. Infine c'è il design e, com’è noto, Apple è l'unica azienda elettronica che mette il design tra i suoi principali obiettivi.
Per tutto il resto, software, caratteristiche, e soprattutto per cosa fa il tablet, l'iPad è la copia, migliorata negli aspetti visti sopra, del cinesino P88. La palese copia è stata sottolineata, con spunti umoristici notevoli, dal blog cinese Shanzai.com, dedicato alle copie tecnologiche, che ha ironizzato sulla neo acquisita capacità della Apple: clonare nuovi prodotti già fatti dai cinesi.
In realtà, mettendo da parte le facili ironie, l'iPad della Apple rappresenta una doppia svolta epocale, e sarà ricordato come un momento topico della storia dell'elettronica di consumo. Doppia svolta, perché i cambiamenti di direzione sono due. Il primo nasce dall'ormai decennale confronto nel mondo dell'informatica di consumo. Una vecchia barzelletta metteva a confronto, a bordo di un treno, un gruppo d’ingegneri della Apple con un gruppo di ingegneri di Microsoft. Nella barzelletta, originata da ragionamenti sul come risparmiare sul prezzo del biglietto ferroviario, si va a finire alla morale della favola; cioè che Apple aveva le idee innovative, i veri lampi di genio, e Microsoft si limitava a copiarne le idee e tentare di migliorarle. La storia dell'informatica di consumo è davvero racchiusa in questa barzelletta, con la differenza che nella realtà non sempre Microsoft è davvero riuscita a migliorare le idee di Apple, e i malfunzionamenti di Windows ne sono la prova sotto gli occhi di tutti.
Il cambio epocale è che adesso, per la prima volta, Apple si è allineata con Microsoft: una volta visto il P88 Shenzhen alla fiera internazionale di Berlino, gli ingegneri di Steve Jobs a Cupertino hanno accantonato l'idea di fare un prodotto innovativo: hanno preferito copiare il P88 e migliorarlo nel peso, nelle dimensioni, nel design, e soprattutto contando sul marchio Apple e sul grande numero di suoi estimatori, pronti ad acquistarlo anche per la sola soddisfazione di possedere un nuovo gioiellino tecnlogico. Marchiato Apple naturalmente, perché nell'immaginario dell'acquirente medio non è la stessa cosa se è marchiato Shenzhen.
La seconda svolta epocale è di tipo industriale e potrebbe avere risvolti economici imprevedibili: per la prima volta è l'America che copia un prodotto cinese e, sfruttando la presenza sul mercato, impone il prodotto surclassando la concorrenza, anche se la concorrenza è rappresentata dall'inventore in persona. Scenario già visto, ma di solito sempre al contrario: europei, americani e giapponesi che presentavano nuovi prodotti e, sei mesi dopo, arrivava sul mercato la copia cinese a costo dimezzato. Un'inversione di tendenza mai vista, questa dell'iPad. Una svolta effettivamente epocale, visto che ora sono i cinesi ad essere copiati.
Per il resto, il tablet è per l'appunto un gadget tecnologico. Per cui più che utile è dilettevole. Non è un telefono, non è stato pensato per esserlo, e d'altronde in un'epoca in cui la telefonia è sempre più miniaturizzata non avrebbe senso usare come telefono un tablet così grande. Leggero (appena 680 grammi), con un prezzo a partire da 499 dollari. E' pensato per la multimedialità, per cui è più simile ad un iPod touch che a un telefono. I modelli più costosi dell'iPad dispongono di un dispositivo Umts/Hsdpa: serve solo per navigare sul Web poiché non è previsto alcun supporto per la voce.
Non è un computer. Tanto per capirci, non ha il multitasking, per cui si può fare una sola cosa alla volta, si può aprire una sola applicazione e, per aprirne una seconda, si deve chiudere la prima. Mentre sull'iPhone il multitasking è disabilitato per ragioni di carico di lavoro sul processore e di consumo energetico, l'iPad ha un hardware più potente che permetterebbe il multitasking. Alla presentazione del prodotto, Steve Jobs non ha fornito alcuna spiegazione per questa grave lacuna. Peccato, visto che il P88 cinese permette il multitasking. Anche in questo, si vede la svolta epocale: il prodotto di Apple è migliorabile, ma in perfetto stile Microsoft (o in perfetto stile da copia cinese) è già stato presentato e nell'arco di pochi mesi sarà messo sul mercato.
Sull'utilità, c'è ben poco da dire: l'iPad è bello da vedere, sarà sicuramente divertente da utilizzare come novità, per gli appassionati sarà appagante possederlo, ma è un surrogato semplificato del computer, pertanto sarà davvero utile per chi vuole usare internet ma non vuole un computer.
Già. Usare internet senza computer. Stava in questo l'idea davvero geniale e innovativa di Huang Xiaofang, da Shenzhen. Purtroppo per lui, passerà alla storia come l'ennesima idea geniale e innovativa di Steve Jobs. Uno "scippo" che ci saremmo aspettati più da Bill Gates, a dire il vero. Qualche analista economico d'oltreoceano già dice che è la giusta rivalsa per tutte le volte che i cinesi ci hanno copiati.
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di Rosa Ana De Santis
Lo sfogo estremo di Salvatore Crisafulli e della sua famiglia ha portato nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica la relazione controversa e densa di dubbi tra la sofferenza estrema e la morte. Forse però nel modo sbagliato; anzi, nel peggiore dei modi. Nei giorni del caso Englaro, la famiglia Crisafulli si era spesa nel rivendicare la piena dignità di esistenze tormentate e difficili come quelle del giovane Salvatore, rimasto inerme e bisognoso di continua assistenza in un risveglio forse troppo “usato” e abusato dai suo familiari. Speso come "anti-Welby" e come icona alternativa alla scelta di Eluana; oggi, attraverso la voce dei propri congiunti, per la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria, annuncia, così pare, di voler morire.
Il governo si è subito mosso per verificare se a parlare fosse davvero la volontà del paziente o, piuttosto, l’esasperazione di una famiglia in lotta da anni per il suo completo risveglio. Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Sistema Sanitario nazionale, Ignazio Marino, ha avviato un’istruttoria sul caso. La Regione Sicilia e il Comune di Catania, nel frattempo, rivendicano l’adeguatezza dell’assistenza sanitaria riservata a Salvatore Crisafulli, ma la famiglia chiede finanziamenti per un piano assistenziale domiciliare e non presso strutture esterne. Convinti dal vescovo di Catania, hanno rimandato per ora il viaggio a dopo i festeggiamenti della patrona della città. Per non turbare l’atmosfera della ricorrenza.
Il viaggio della morte in Belgio rimane comunque in agenda, senza date confermate. Pronto ad essere cancellato se la famiglia otterrà le risposte che attende. Un progetto di assistenza 24h su 24, coordinato e mirato; un’assistenza che non sia di base, ma finalizzata al miglioramento delle condizioni generali di un paziente così giovane. Resta da chiarire, rispetto alle attese dei familiari, quali siano i reali margini di miglioramento di un paziente con una grave cerebrolesione acquisita e, soprattutto, pur accogliendo tutta la rabbia di una famiglia così travolta dal dolore, quanto sia disonesto e pericoloso usare in questi termini la minaccia dell’eutanasia. Disonesto per tutti coloro che una vita come quella di Salvatore non la vogliono, nonostante la migliore assistenza sanitaria, tutti coloro che il governo prenderà in carico di salvare ad ogni costo, come minaccia di fare con la legge ancora in aula.
La scelta della famiglia Crisafulli rappresenta il modo peggiore di parlare dell’eutanasia, soprattutto ad una popolazione così imbavagliata dal senso di colpa e dal bigottismo di costume come quella italiana. Non c’è traccia di quella dignità, di quel fiero atto di libertà e di proprietà indiscutibile sulla propria vita, che ha alimentato per anni la battaglia della giovanissima Eluana. Qui l’invocazione della morte non ha la dignità di una scelta, ma le sembianze di un abbandono, di una resa, di una cieca disperazione. Nulla che possa aiutarci ad avvicinarci con pudore e rispetto alla scelta di chi non vede senso in certe forme di sopravvivenza, attraversate dal dolore come condizione cronica e dall’irreversibilità come orizzonte di senso.
L’auspicio è che questa storia e questo atto di rivolta non veicoli, come sempre è accaduto, un modo sbagliato e mediocre di accostarsi a scelte come quelle di Eluana. E’ lo stesso tipo di approccio che fa credere agli obiettori dell’aborto, ai credenti e a quanti faticano a mettere al centro l’individuo, che offrire alle donne aiuti sociali e psicologici sia l’antidoto per evitare l’aborto. Come se la scelta non avesse a che fare con la libertà individuale e con la proiezione del desiderio personale, ma fosse interamente riassorbibile nelle ragioni della collettività e del sociale. Perché sia, invece che una scelta libera e consapevole, un atto imposto dalla morale ufficiale, che usa i pulpiti e le scomuniche, non sapendo più ascoltare e capire.
Lo sfogo della famiglia Crisafulli rischia di alterare il messaggio di rottura e di coraggio che la famiglia Englaro, assecondando il desiderio della giovane figlia, si è fatta carico di portare allo Stato Italiano e ai legislatori. L’idea che l’eutanasia sia la ratio della disperazione alla mancanza o alla lentezza di risposte pubbliche e istituzionali significa non soltanto azzerare il valore della volontà individuale, ma svilire il significato della morte e restituire tutto il valore del singolo allo Stato.
Così se le parole della famiglia di Crisafulli sono strumentali, come ci auguriamo, al raggiungimento di condizioni migliori per la vita di Salvatore, l’auspicio è che quel viaggio rimandato non sia più invocato di fronte alla stampa e all’opinione pubblica come argomento del terrore. Un modo per contaminare di significati sbagliati la storia di Welby o di Eluana verso cui la famiglia Crisafulli ha sempre rivendicato con forza le ragioni della vita e la speranza del risveglio. Un prestigio di parole e di significati che a tutti toglierà un po’ di libertà.
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di Rosa Ana De Santis
Senza un nome e senza una storia, più intimoriti di prima e ancora più schiavi, alcuni di quegli africani cacciati e allocati nei centri di espulsione, stanno tornando a Rosarno. A lavorare sui nostri campi. Manodopera preziosa e quasi gratuita per i caporali italiani. A raccontarlo al Redattore Sociale è un giovane ragazzo ghanese, in Italia da due anni, anche lui, come tanti, sbarcato a Lampedusa dopo una fuga dal proprio paese per motivi umanitari.
La notizia di Rosarno è sparita, scivolata via in nevrotica fretta dalla tv e dalla stampa. Il Ministro dell’Interno ha suggellato i nobili sentimenti di casa nostra regalando l’asilo politico come gentile concessione del potere ai feriti degli scontri e tutto sembra tornato al proprio posto. Lo ha fatto in prima serata, per riparare in modo efficace le colpe e le responsabilità che gravavano sull’Italia dopo le cronache apparse sulla stampa straniera sui fatti di Rosarno. Ma, dietro la parata del perdono, lo scenario è lo stesso. I braccianti neri sono in viaggio verso la piana delle clementine. Molti di loro vengono da Castel Volturno, dove si sono rifugiati nella diaspora che li ha cancellati e dispersi dalla terra in cui lavoravano anche da dieci anni.
L’indigenza delle condizioni di vita li costringe ad accettare uno sfruttamento e una violenza ancora peggiore di quella che ha scatenato la rivolta. La cronaca ha omesso troppo spesso che molti di loro sono in possesso di regolare permesso di soggiorno. Anche i regolari che tanto piacciono a questo governo non riescono a trovare un alloggio dignitoso, né un’occupazione. Anche quelli che non sono clandestini cadono vittime della malavita. Le ‘ndrine li chiamano, li reclutano a sfregio dei documenti, sanno dove trovarli. E il governo invece? Non vede. Non vede i clandestini quando sono sfruttati, né i regolari, non li protegge, non vede nemmeno gli enormi capannoni che solo ora si accinge a smantellare.
Il testimone ghanese che ha raccontato l’invisibile ritorno degli africani a Rosarno ha chiesto aiuto ai centri di assistenza, alle associazioni, ai centri di raccolta. E’ finito a dormire alla stazione Termini di Roma, nella folla scomposta di disperati e clochard che disturbano la visuale degli italiani. La sorte non sarà molto diversa per i duemila braccianti agricoli stagionali, vitali per l’economia del sud Italia. Fantasmi nei centri di raccolta o per strada, oppure schiavi dei padroni italiani. Ma non era la clandestinità l’unica causa di questi abusi e di episodi fuori controllo come quello della rivolta?
Magari non ci fosse il ritorno a Rosarno. Magari le braccia degli schiavi si fermassero all’improvviso. Magari nessuna rivolta fornisse più argomenti alla parabola dell’irriconoscenza. Sarebbe difficile, allora trovare altri capri espiatori per la terra sterile affidata alle mafie, per gli italiani indisponibili a lavorare come gli stranieri sui nostri campi o nelle case dei nostri anziani. E chissà quanti permessi di soggiorno regalerebbe Berlusconi per il prossimo Natale. Magari insieme alle clementine.
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di Rosa Ana De Santis
Le scene sono quelle di un girone dantesco. L’Africa degli schiavi è sotto gli occhi di tutti e gli immigrati fuggono da Rosarno scortati dalla polizia. Lasciano gli agrumeti e i terreni su cui hanno lavorato anche più di dieci ore al giorno, sottopagati e minacciati dai padroncini italiani. Su quelle strade che ora abbandonano in un esodo di paura, era nata qualche giorno fa la loro protesta.
Quella che il Ministro dell’Interno aveva sbrigativamente spiegato come un effetto collaterale da eccesso di tolleranza. La scintilla della guerriglia urbana scoppia per il ferimento di un ragazzo del Togo, rifugiato politico con regolare permesso di soggiorno, da parte di persone non identificate. Ma la disperazione di una rivolta che diventa da subito un assedio viene da lontano. Dall’omertà diffusa sul feroce sfruttamento in cui sono abbandonati e dalla segregazione in cui sopravvivono.
In queste ore i neri della protesta scappano da una spietata caccia all’uomo partita tra gli abitanti subito dopo la rivolta. I casolari sperduti di campagna, in cui erano costretti a vivere in condizioni bestiali, sono diventati celle per topi. La task force del Viminale ha come obiettivo quello di portarli via tutti da Rosarno verso i centri di accoglienza di Bari e Crotone o altrove, per quanti hanno regolare permesso di soggiorno.
Spranghe, taniche di benzina, fucili, i primi gravi feriti di questi giorni documentano una pagina pericolosamente somigliante alle più note persecuzioni xenofobe e razziali. Per le violenze delle ultime ore sono stati arrestati 5 dei sette immigrati fermati e 3 italiani, uno dei quali figlio di una delle più note cosche locali.
La rivolta degli immigrati rompe la tregua sociale vigente a Rosarno e a Gioia Tauro. Quella che vede la n’drangheta dominare indisturbata gli affari e le terre e che nella manodopera a basso costo degli stranieri clandestini, trova il suo business più facile. Niente di sommerso e di invisibile, dicono alcuni abitanti. I nuovi lavoratori neri li vedono tutti, così come i capannoni della vergogna che soltanto adesso il governo ha deciso di smantellare. A Rosarno, in pochi giorni di guerriglia urbana, viene fuori l’intreccio scivoloso e incandescente tra potere locale e mafia, tra clandestinità ed economia, tra il governo della regolarità propagandata e la banale routine degli affari guadagnati sulla pelle degli immigrati. Il succulento piatto della clandestinità.
La condanna della feroce intolleranza da parte degli abitanti contro i lavoratori stranieri arriva, ma troppo sottovoce, dalle Istituzioni. Sottovoce soprattutto quando, già nel maggio del 2009, un’inchiesta della Direzione Investigativa Antimafia documentava per i lavoratori di Gioia Tauro condizioni di estorsione e riduzione in schiavitù. Ma è più facile raccontare la rivolta rabbiosa con i cassonetti dati alle fiamme e i video di una città barricata dietro le finestre di casa che non raccontare tutta la storia. Quella dei diritti negati ai più deboli, dati in pasto alle cosche locali. Quelle di cui per prima sono diventate vittime nel tempo gli agricoltori del posto.
La fuga degli stranieri in pericolo restituisce alla collettività l’immagine più cruda e più autentica dell’intolleranza che scorre nelle vene degli italiani. Intolleranza per chi lavora duramente sulle nostre terre. Per chi può farlo solo se disponibile ad essere trasformato in uno schiavo. Sugli agrumeti di Rosarno, in un passato che oggi sembra preistoria, altri lavoratori hanno combattutto le loro battaglie per i diritti del lavoro. Battaglie di cui non si ha più memoria, mentre mafie e istituzioni sembrano riuscire a convivere in pace in una reciproca comoda cecità.
Tutto bene fintanto che le vittime non decidono di rompere il patto dell’omertà. Ma se hanno il colore di pelle sbagliato e non sono cittadini italiani è facile chiudere la vicenda con la tesi dell’immigrazione difficile. E l’inferno che è qui, nella nostra terra, continua a rimanere il paradiso promesso ai tanti, tantissimi disperati pronti per il prossimo viaggio della speranza.
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di Rosa Ana De Santis
Al termine della partita di domenica Mario Balotelli non ha risparmiato parole dure contro i tifosi veronesi. Davanti alle telecamere, super Mario, il fuoriclasse dell’Inter che sembra destinato a scatenare continue polemiche, non ha quasi voglia di parlare del goal che ha reso la sua squadra “campione d’inverno”. “Il pubblico di Verona mi fa sempre più schifo”. Lo dice così, in modo semplice e diretto, con il volto carico di chi è stato sommerso di fischi e insulti per tutti i 90 minuti di gioco. Non è la prima volta che accade con Balotelli. Colpa secondo alcuni, come il CT della Nazionale Lippi ha sostenuto più volte, soltanto del carattere arrogante e spavaldo che lo contraddistingue e di un comportamento scomposto e indisciplinato sul campo.
E’ davvero difficile spiegare in questo modo i cori razzisti delle tifoserie, soprattutto quando l’insulto esce fuori dal campo di calcio e sorprende Mario Balotelli per le strade di Roma, dove quest’estate era in ritiro con l’Under 21. Episodio grave che proprio quello stesso ragazzino immaturo e attaccabrighe non ha voluto denunciare. Le tifoserie, con la benedizione di tanta ipocrisia del calcio italiano, rivendicano le ragioni di una persecuzione verbale che non ha a che vedere con il colore della pelle, ma con il giocatore.
Eppure gli dicono sporco negro. Non una parolaccia come tante altre. Eppure gli tirano banane e lo chiamano scimmia. Le parole, tutte, anche quelle dell’insulto e dell’offesa, non sono mai neutre e denotano sempre l’anima e le viscere di una cultura, di un umore collettivo, di un costume sociale. Lo stesso, per intenderci, per cui a una donna, una certa cultura machista nostrana preferisce dare della puttana o della gallina che non della stronza.
Ma perché Balotelli è diventato il bersaglio preferito dei vandali, dei teppisti e dei neofascisti infiltrati nelle tifoserie di tante squadre? Perchè lui e non altri calciatori che come lui hanno la pelle nera? Per Mario non vale il furore ragionato e condiviso cavalcato dalla politica di destra che investe gli stranieri in Italia, quelli anonimi dei barconi, quelli diventati famosi come l’albanese Kledi, quelli dei rotocalchi con il visto scaduto come la bellissima Belen. Balotelli è italiano.
Nasce a Palermo da immigrati ghanesi e viene affidato dal Tribunale dei Minori alla famiglia Balotelli di Concesio. A 18 anni, come previsto dalla legge, diventa cittadino italiano. Ma non basta. Non è lo status giuridico di un diritto acquisito a renderlo italiano, ma un sentimento di appartenenza che rivendica e ribadisce ad ogni occasione utile. “Sono italiano, mi sento italiano, giocherò sempre con la Nazionale italiana”. Sarà proprio questo a dare fastidio? Che un negro, nerissimo come il Ghana che gli scorre nelle vene, si senta italiano come lo sono - purtroppo - quelli degli spalti?
Basterebbe questo a rendere evidente che dietro al comodo pretesto del carattere difficile c’è un giovanissimo campione scomodo che toglie spazio ai vip del calcio; che la spavalderia, giustamente redarguita più volte dallo stesso allenatore dell’Inter, nulla spiega dell’insulto razzista. Cosa distingue, ad esempio, Balotelli da un calciatore italiano come Cassano duramente penalizzato anche lui dal proprio comportamento arrogante e spavaldo? Uno dei due ha la pelle nera. Ed è proprio questo ciò su cui si accaniscono i cori degli stadi. Cos’é se non questa l’aggravante del razzismo e della discriminazione?
Il sindaco Tosi ha replicato alle parole di Balotelli profetizzando che non sarà mai un grande campione. “Un immaturo e un presuntuoso”, lo definisce così. Una raffinata forse anche legittima lezioncina sul caratterino di un ventenne di successo che fa sorridere rispetto al panorama che offrono i nostri stadi ogni domenica e di cui sarebbe il caso di occuparsi più seriamente e non solo nelle trasmissioni di calcio.
Lo sfogo fuori misura di tantissimi giovani ossessionati di “pallone”, spettri di un passato resuscitato, pericolosi proprio per tutto quello che la loro vita non ha più. Un progetto da realizzare, un sogno da costruire. Lo stadio come l’arena dei romani. Il volto peggiore della nostra gioventù o giovinezza, come amavano chiamarla non molti anni fa. Una violenza che dimostra di saper solo impazzire ancora di più se un ragazzo con la pelle nera, talentuoso, di successo, coperto di soldi e di donne, né umile, né remissivo come un vago senso di colpa dovrebbe spingerlo ad essere, osa dire di essere e sentirsi “italiano”.
Il sindaco di Verona farebbe bene ad occuparsi sul serio della sua città che in quello stadio ha gridato “Non ci sono negri italiani!”. E’ questo il coro che nessuno racconta mai fino in fondo. Ed è questo lo scomodo caso di Mario Balotelli. Non un negro e basta. Non il solito razzismo delle periferie invase dagli stranieri. E’ un negro ed è italiano. Da qui l’odio per il sangue e il colore della pelle. Il razzismo vero, quello dei bianchi. Quello che tutti fanno a gara a non vedere e che si affannano con veemenza a negare.