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di Elena Ferrara
A metà strada tra le “Pagine gialle” e la “Guida Monaci”. Un “chi è” e un “Bignami” del mondo religioso che orbita attorno alla Chiesa di Roma. E’ questo, in sintesi, il contenuto del nuovo annuario pontificio che esce ora e che contiene “novità e dinamiche” che portano il governo mondiale dell’Oltretevere a fare i conti anche con il passato. Dalla lettura del volume - che entra di diritto nelle biblioteche della geopolitologia mondiale - si scoprono oggi una serie di “novità” relative alla vita della Chiesa cattolica nel mondo, a partire dal 2009. Perchè è in quest’anno che il Papa tedesco Benedetto XVI “ha eretto otto nuove Sedi vescovili e una prelatura”; ha “elevato una prelatura a diocesi e tre prefetture a vicariati apostolici”.
Si tratta di notevoli cambiamenti strutturali che hanno portato alla nomina di 169 nuovi vescovi chiamati a operare sulla linea del Papa e sulle scelte di politica estera dello stesso Vaticano. Ci sono poi in questo libro - “giallo e santo” - una serie di dati statistici che, riferiti all'anno 2008, forniscono un'analisi sintetica delle principali dinamiche riguardanti la Chiesa cattolica nelle 2.945 circoscrizioni ecclesiastiche del mondo. Risulta che nel periodo che va dal 2007 al 2008 i fedeli battezzati sono complessivamente passati da quasi 1.147 a 1.166 milioni, con un incremento assoluto di 19 milioni di fedeli e una percentuale pari all'1,7 per cento.
Confrontando questi dati con l'evoluzione della popolazione mondiale nello stesso periodo, passata da 6,62 a 6,70 miliardi, si osserva che l'incidenza dei cattolici a livello planetario è lievemente aumentata, dal 17,33 al 17,40 per cento. Tra il 2007 e il 2008 anche il numero dei vescovi è aumentato globalmente dell'1,13 per cento, passando da 4.946 a 5.002. L'incremento è stato significativo in Africa (più 1,83 per cento) e nelle Americhe (più 1,57 per cento), mentre in Asia (più 1,09 per cento) e in Europa (più 0,70 per cento) i valori si collocano sotto la media complessiva. L'Oceania registra nello stesso periodo un tasso di variazione meno del tre per cento.
Tali dinamiche differenziate non hanno però causato sostanziali modifiche nella distribuzione dei vescovi per continente. La situazione numerica dei sacerdoti, sia diocesani che religiosi, continua a mostrare, a livello aggregato, un'evoluzione moderata e comunque attorno all'un per cento nel periodo 2000-2008. I sacerdoti, diocesani e religiosi, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi nove anni, passando da 405.178 nel 2000 a 408.024 nel 2007 e a 409.166 nel 2008. Le suore, invece, sono diminuite del 7,8 per cento. Nel mondo erano 801.185 nell'anno 2000: nel 2008 se ne contavano 739.067, con una diminuzione relativa nel periodo del 7,8 per cento. Ma questa “svolta” è accolta con diffidenza negli ambienti religiosi più oltranzisti.
Quanto alla distribuzione del clero tra i continenti, nel 2008, questa è caratterizzata da una forte prevalenza di sacerdoti europei (47,1 per cento), quelli americani sono il 30 per cento; il clero asiatico incide per il 13,2 per cento, quello africano per l'8,7 per cento e quello nell'Oceania per l'1,2 per cento. Dal 2000 e il 2008, invece, non è variata l'incidenza relativa dei sacerdoti in Oceania; è però cresciuto il peso sia del clero africano, sia di quello asiatico e dei sacerdoti americani, mentre il clero europeo è vistosamente sceso dal 51,5 al 47,1 per cento.
Sempre in questo contesto - pur rilevando il calo generale delle suore - resta il fatto che i gruppi più numerosi di religiose professe si trovano in Europa (40,9 per cento) e in America (27,5 per cento) e che le contrazioni di maggior rilievo si sono manifestate ugualmente in Europa (meno 17,6 per cento) e in America (meno 12,9 per cento), oltre che in Oceania (meno 14,9 per cento), mentre in Africa e in Asia si hanno dei notevoli aumenti (più 21,2 per cento per l'Africa e più 16,4 per l'Asia), che controbilanciano l'anzidetta diminuzione, ma non sino al punto di annullarla.
A livello globale, il numero dei candidati al sacerdozio è aumentato, passando da 115.919 nel 2007 a 117.024 nel 2008. Complessivamente nel biennio si è avuto un tasso di aumento di circa l'un per cento. Tale variazione relativa è stata positiva in Africa (3,6 per cento), in Asia (4,4 per cento) e in Oceania (6,5 per cento), mentre l'Europa - caratterizzata da forti crisi ideologiche - ha fatto registrare un calo del 4,3 per cento. L'America presenta invece una situazione di quasi stazionarietà pur se in Vaticano sostengono che in quel paese c’è ancora uno sterminato campo di azione.
Un fatto è comunque certo. Ed è che questo “Annuario”, con i dati che si riferiscono ai paesi emergenti, dimostra sempre più che la geografia dei cattolici segnala un calo dei motivi ideologici e lascia il passo a considerazioni geopolitiche. Ed è questa, sembra, la linea scelta dal papa polacco e dal suo entourage.
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di Rosa Ana De Santis
La notizia è arrivata dalla Gran Bretagna. Ray Gosling è stato accusato di omicidio per la morte del compagno, malato terminale di HIV. Rischia fino a 14 anni di carcere per il reato di suicidio assistito. Potrebbe non valere nulla l’accordo che il famoso conduttore della BBC dice di aver onorato rispettando la promessa fatta per dare la buona morte. I titoli parlano di eutanasia e la cronaca dell’accaduto ci racconta di una morte avvenuta per asfissia. Gosling avrebbe ucciso il compagno malato con un cuscino in faccia, sul letto di ospedale. La morte sarebbe quindi sopraggiunta dopo una vera agonia. Qualcosa però stona, non convince.
Stando ai fatti, per mettere fine alle inutili e terribili sofferenze dell’uomo ammalato, rimasto ancora senza un nome e un cognome, sarebbe stata scelta una morte che assomiglia di più a una tortura breve. Nessun accompagnamento alla morte, ma un’azione fredda e violenta, degna di un killer. Quello che, non a caso, non è emerso dalle prime pagine e dai titoli dei giornali, è che questo caso è profondamente dissonante dalle storie che raccontano di eutanasia. La buona morte, sempre scelta e richiesta dal paziente, rappresenta l’ultima estrema medicina rispetto ad una condizione organica e psicologica di sofferenza cronica e irreversibile. La buona morte non uccide, ma fa morire e la differenza tra queste due condizioni della fine della vita è estrema e inconciliabile.
Non sappiamo se davvero la richiesta di porre fine alle sue sofferenze ci sia stata e non sappiamo nemmeno se il modo sia stato concordato o scelto da Gosling. Certo che, accostare la scena di un soffocamento di un uomo inerme e debole al concetto di eutanasia equivale a suggerirne un significato sbagliato e soprattutto a raffigurare la persona che decide di rispettare un‘alleanza di solidarietà profonda con i contorni di un assassino.
L’uso strumentale delle parole diventa, soprattutto in un dibattito aperto e fresco come quello italiano con l’operato dei giudici nel mirino, come il caso Englaro ha dimostrato, un’efficace strumento per plagiare e confondere. Se le parole hanno un valore l‘eutanasia affonda le sue radici nel prefisso greco eu, che rimanda al concetto di bene. Eppure l’interpretazione sdoganata come ufficiale da un dibattito fondato su errori di metodo e su pregiudizi ha prodotto lo snaturamento di alcuni termini che nell’uso corrente sono diventati altro.
Perché Gosling avrebbe deciso di porre termine alle sofferenze estreme del proprio compagno con una morte altrettanto atroce? Un moto di esasperazione spacciato per rispetto di un patto di amore come argomento da usare in tribunale? Se davvero ci fosse stata una promessa di questo tipo non sarebbe stato tutto organizzato da tempo e nel dettaglio? Qualcuno potrebbe trovare ipocrita la differenza tra l’uso di un cuscino per soffocare e la somministrazione di un’alta dose di sonniferi; eppure il diverso modo di morire ha un valore simbolico che supera il fatto stesso della morte e che, in questo caso specifico, è proprio il terreno su cui si misurano tutti gli argomenti morali in gioco. Il rapporto tra volontà personale e morale pubblica, tra medicina e significato della vita, tra malattia e società.
Il modo in cui morire è proprio l’espressione fisica e concreta di un atto di volontà ed è proprio ciò che può aiutare la riflessione a discriminare tra l’eutanasia e l’omicidio. Rimane difficile credere che una persona che sceglie consapevolmente la dolce morte per riscattare la propria condizione di sofferenza senza speranza, possa accettare di morire in modo crudele o in qualsiasi modo. Potremmo credere sia eutanasia lasciarsi strangolare o farsi bruciare vivi? O possiamo confondere il martirio dei santi o la cicuta di Socrate con l’eutanasia? Persino il suicidio di Jacopo Ortis con il pugnale non è lo stesso del Werther che usa l’arma da fuoco. Le diverse morti e le diverse icone della morte hanno uno specifico e inalterabile significato. E’ proprio la modalità, il come a restituire un significato ai temi su cui ci interroghiamo e su cui si rischia troppo spesso di sprecare parole che rischiano la perdita di significato.
Aldilà del caso giudiziario Goslin, qualora avesse compiuto quel gesto estremo con la reale intenzione di assecondare il desidero del proprio compagno - cosa della quale ci auguriamo - dovrà chiedersi per il resto della vita se non sarebbe stato naturale e doveroso accompagnare la persona amata ad una morte fatta di dignità e di cessazione del dolore. L’eutanasia ha in se il concetto della pietas. Ne è la premessa e la sua condizione fondante.
La scelta di morire per non soffrire, la rinuncia a una qualità della vita che non si ritiene coerente con il proprio sistema di valori, la libertà di abbandonare l’esistenza, non si può confondere con un atto brutale; ed è tutto quello che sembra mancare troppo nella scena repentina del soffocamento che viene dall’alto e del cuscino schiacciato sul volto. Un’azione che azzera e quasi umilia la dignità della scelta di morire. L’icona di una morte eroica e insieme innocente. Quella di chi pensa che “una vita senza libertà non è una vita”.
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di mazzetta
Al Festival di Sanremo arriva un’ospite particolare: la regina Rania di Giordania. Una scelta curiosa per un festival della canzone che cerca di attirare l'attenzione di un pubblico più vasto possibile, attingendo al capace cesto nazionale e internazionale dei personaggi in cerca d'autore che nulla hanno a che vedere con la musica. La presenza della regina di Giordania è però più interessante di quella del principino cantante in gara o di quella di altri ospiti, perché la sua figura è il paradigma vivente della distorsione della realtà da parte della società spettacolare.
Era già accaduto con Diana Spencer e con la saga della famiglia Grimaldi, che la rappresentazione di gesta o fatti personali sovrastasse quella dei rispettivi paesi; ci sono stati anni nei quali la cronaca estera italiana è stata dedicata per più della metà alle loro vicende, senza che la cosa suscitasse particolare scandalo Anche l'immagine di un grande e vicino paese come la Gran Bretagna si è sfumata alle spalle del protagonismo mediatico di Lady Diana.
In tutto il mondo le notizie dall'estero hanno un'audience molto più modesta di quelle sul gossip e sulle avventure dei vip e i media inseguono da anni la tendenza auto-alimentandola al ribasso; un fenomeno noto e molto più vasto, che negli anni ha devastato l'informazione trasformandola in infotainment. Il nostro paese è uno dei meno attenti alla politica estera, a chi se ne occupa si chiedono esercizi di colore e, occasionalmente, di allinearsi quando un evento in un paese lontano può essere strumentalizzato in chiave di politica interna. Evento fortunatamente raro, la nostra classe politica ha così poco interesse e conoscenza su quello che accade oltre frontiera, da non interessarsene mai, il noto deputato colto a confondere il Fast Food con il Darfur rappresenta davvero la triste media italiana.
Così Rania è diventata sua volta l'immagine della Giordania. Fa sensazione che la regina di un paese “islamico” si muova nel jet-set come un'occidentale, che usi Facebook e YouTube, che promuova cause nobili in autonomia dal marito, che non appare quasi mai accanto a lei in queste sue proiezioni mediatiche. Fa sensazione soprattutto in coloro che negli ultimi anni hanno maturato un'idea monolitica dei paesi islamici, anche a seguito della martellante propaganda che ha voluto identificare nell'islamico il nuovo nemico d'elezione per raccogliere il consenso necessario alla War o Terror e a strumentalizzazioni razziste non meno bieche. Una riservatezza giustificata quella di Abdllah, vedendolo qualcuno potrebbe chiedersi che faccia, come governi, che tipo di re sia il consorte di una signora tanto progressista e glamour.
Abdallah figlio di Hussein di Giordania ha ereditato un paese che è un vaso di coccio tra vasi di ferro, essendo un paese povero di risorse, in condizione d'inferiorità militare nei confronti di tutti i vicini, con una maggioranza interna palestinese e un buon numero di profughi iracheni. Un discreto rompicapo che il vecchio re teneva insieme d'autorità e che il figlio non ha ancora trovato il modo di gestire diversamente. Non che non ci abbiano, padre e figlio, provato sul serio: il Parlamento giordano è vagamente rappresentativo e dotato di poteri deboli al confronto di quelli del re e del governo; la sua composizione è stata una gentile concessione alle pressioni esterne più che una genuina cessione e condivisione di poteri.
Il Parlamento deve comunque votare le leggi e, visto che non voleva votare le leggi fortemente volute da Abdallah, è stato sciolto a novembre scorso, decidendo che le prossime elezioni si terranno dopo che il re avrà varato le riforme desiderate. La democrazia formale giordana è poca cosa e se Abdallah, attento all'immagine come la moglie, ha addirittura ammesso al voto il partito islamico che s'ispira ai temutissimi Fratelli Musulmani, qualcuno nel 2007 si è incaricato di deprimere il loro risultato elettorale dopo che alla prima uscita avevano riscosso troppo successo, pur rimanendo una minoranza modesta.
Ma lo scioglimento del parlamento ha poco che fare con gli islamici cattivi e molto con l'economia che zoppica, per risollevare la quale Abdallah ha in mente una bella cura liberista e l'apertura delle miniere d'uranio del paese agli investimenti internazionali. L'interesse dell'informazione per la situazione giordana nel nostro paese è prossimo allo zero, in particolare oggi che Abdallah è un sicuro amico dell'Occidente. Nonostante la Giordania sia sicuramente un importante tassello del puzzle mediorientale, quasi tutti i media hanno sorvolato.
Abdallah vive tempi relativamente tranquilli a livello internazionale, perché la frattura tra i palestinesi e l'abbandonarsi di Fatah alle iniziative del Dipartimento di Stato Usa, gli hanno permesso di sdraiarsi sulla politica statunitense senza temere particolari critiche da parte palestinese o dalla grande famiglia delle autocrazie mediorientali, tutte velocemente allineate a Washington dopo il 2001, ottenendo in cambio il totale disinteresse statunitense ai loro affari interni e l'esclusione dalla lista dei paesi “poco democratici”. Disinteresse che hanno tutte messo a frutto consolidando il proprio potere con la repressione.
Paesi ai quali per anni l'amministrazione Clinton e il FMI avevano vanamente chiesto riforme e passi avanti verso una maggiore democrazia. Dall'Egitto alla Siria, dalla Giordania all'Arabia Saudita, fino alla Libia, alla Tunisia e al Marocco, dopo il 2001 le “famiglie regnanti” di questi paesi si sono ulteriormente rafforzate e gli spazi democratici interni si sono compressi.
Ma tutto questo Sanremo non lo sa e non lo dice: la rassegna canora ospita la regina scintillante del reuccio mediorientale, che viene a promuovere l'immagine spettacolare di un paese che da noi già vende benissimo, visto che gli italiani sono al quarto posto tra i turisti che visitano la Giordania. Racconterà dal palco come si fa a catturare e sedurre un principe, evitando accuratamente di riferire come se la cava il principe una volta diventato re o sulle condizioni di vita dei suoi sudditi, così come eviterà qualsiasi riferimento al conflitto mediorientale o al dramma dei palestinesi.
Non sta bene, non sono argomenti da Sanremo, che si trova a disagio nel confrontarsi con le realtà sgradevoli: lo si è visto in passato, quando Bonolis sollecitò la colletta per i bambini del Darfur tra cantanti e produttori presenti al festival. Tra tutti, solo il povero Povia aprì il borsellino. Lo spettacolo ha le sue leggi e solo in questa veste Rania e la Giordania possono conquistare qualche minuto sul palcoscenico di Sanremo e qualche servizievole servizio sui media.
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di Giovanni Cecini
Nel giorno in cui cade il 18° anniversario del primo arresto di Mani Pulite, sembra che l’Italia possa rivivere giorni come quelli, nei quali una classe politica collassava per effetto della montagna di illeciti commessi in ogni comparto della scena pubblica del Paese. Gli scandali sessuali condiscono con un po’ di pepe l’appetito dei gossippari, ma la realtà è ben diversa per chi sa osservare il fenomeno tale e quale è: il persistere di attività illecite nel comparto della pubblica amministrazione, dove concussione, corruzione, abuso d’ufficio e favoritismi di ogni specie sono solo i più lampanti tra i reati mai spariti tra i capi d’imputazione degli amministratori e dei politici italici.
Si sperava che Tangentopoli avesse insegnato qualcosa o quanto meno avesse permesso agli italiani di comprendere a fondo quanto di rivoltante ci sia nell’approfittarsi della cosa pubblica. Per fortuna - e forse anche cosa palese - gli onesti sono sempre maggioranza, anche perché altrimenti i disonesti non saprebbero a chi rubare. Tuttavia, attanagliata in ciascuno di noi c’è sempre l’ombra di una possibile attività illegale. A urlarne la presenza sono due fonti abbastanza autorevoli e differenti tra loro, tanto da dover far suonare più di un campanello d’allarme per coloro che si ostinano a credere che in fondo in fondo quella telefonata al potente di turno è fatta a fin di bene, senza nuocere a nessuno.
Sulle colonne del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia invita a meditare sull’attitudine disonesta dei connazionale, imbevuti di un familismo amorale che si accresce di generazione in generazione, senza scampo a possibili ripensamenti o pentimenti. Da un pulpito diverso, questa volta da un ente censore per antonomasia, come quello della Corte dei Conti, proprio in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario il grido di allarme tocca le stesse corde. Anche qui lo scenario è tutt’altro che rassicurante, se viene indicata come manchevole la stessa Pubblica Amministrazione perché impreparata a combattere le tante piaghe insite nel suo tessuto connettivo.
Forse anche per effetto della gigantesca burocrazia interna ed esterna il cittadino onesto perisce nel mare magno di bolli e scartoffie, mentre il disonesto alla fine non ha troppi problemi a raggiungere il suo basso scopo, perché sa oliare le ruote giuste del farraginoso congegno statale o parastatale. Al cospetto del furfante lo Stato non sa essere inflessibile e drastico, mentre il cittadino perbene, che segue le tortuose regole molto spesso ne è vittima, perché le trova ostiche e illogiche. Va da sé che il cerchio si chiude, proprio perché la morale della favola è che solo seguendo l’illecito si vive e si procede nel proprio cammino, tanto che la raccomandazione, la spintarella e ogni altra possibile diavoleria, per dare corso alla propria attività, diviene cosa quotidiana, normale o addirittura corretta, perché svolta per necessità di sopravvivenza.
Ecco quindi il proliferare di atti o fatti quotidiani dell’italiano qualunque che solo apparentemente non danno adito a irregolarità, ma che sommati tra di loro rendono le casse dello Stato o degli Enti locali più povere e mettono in soffitta il bene pubblico. Chi non ricorre all’amico che lavora in quel determinato ufficio o che intesta la casa al mare alla figlia per un personalissimo e quindi egoistico interesse, è uno sciocco che crede ancora al senso civico e al rispetto per le istituzioni come valori un po’ come i fanciulli con Babbo Natale.
In Italia si vive molto spesso così, non ci si può nascondere dietro un dito; ed è proprio per questo motivo che alcune piaghe congenite nel fare popolare sono immuni da qualsiasi possibile anticorpo, di cui hanno accennato le relazioni alla Corte dei Conti. Quest’ultima ha rivolto l’indice contro tutti quei settori dove si controlla poco e male, fonti prime di guasti all’intero sistema-paese. In risalto è quindi emersa la ricorrente nociva attività dei lavori pubblici e della mala sanità, dove tra sprechi, opere inutili e interventi non necessari, si rosicchia gran parte dei bilanci nazionali, senza un vero perché al di fuori di riempire le tasche dei cacciatori di commesse e di quella fetta di politici spregiudicati, che rappresentano nelle sedi preposte solo il peggio dell’italiano medio.
La risposta a tutto questo non è semplice né immediata, tanto che la rivoluzione dovrebbe partire dal basso, per far tornare nei suoi propri binari la correttezza e la moralità. L’astenersi dal fumare dove non si può, evitare di parcheggiare in doppia fila, fare la raccolta differenziata, non copiare un compito a scuola, sembrano piccoli gesti, ma rappresentano anche il minimo germe che può fare la differenza. Via via offrirebbero senso a quel principio per il quale ci si prepara meglio a un concorso, sperando nelle proprie capacità senza aiuto della grazia ricevuta o nel garantire un progetto impeccabile, utile ed economico sotto ogni punto di vista, rispetto agli scandali colossali di cui siamo pieni.
L’Italia si candida agli Europei del 2016 e Roma alle Olimpiadi del 2020? C’è già chi pregusta le commesse, mentre altri tremano solo all’idea di ripetere gli scempi e le brutture di quel che fu Italia ’90 e i recenti Mondiali di nuoto con le loro colossali mostruosità. La speranza è e rimane sempre che il senso di sdegno venga percepito e possa mutare gli animi, perché altrimenti si continuerà imperterriti nel crogiolarsi di fronte ai vizi altrui, senza dare peso alle tante e pesanti leggerezze di cui siamo, narcotizzati dal sistema, artefici.
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di Mariavittoria Orsolato
Che l’Italia sia uno dei campioni del cattolicesimo lo dicono i numeri e lo testimonia al meglio quella Città del Vaticano che da due millenni ci portiamo in seno alla capitale. Che però l’affezione alla chiesa non sia più quella dei tempi d’oro, lo si vede dai banchi vuoti che ogni domenica spogliano le navate di quella che è l’esperienza topica del cristiano, ovvero la messa. Le ragioni di questo fenomeno sono legate all’inevitabile evoluzione della società e dei costumi, alla discordanza di pensiero riguardo a temi civili ed etici o al semplice disinteresse: essere laici, atei o agnostici è sempre stata più che altro una scelta personale, che all’atto pratico non implica conversioni formali come nei casi di affiliazione ad un’altra religione.
Per tutte queste persone i sacramenti impartiti durante l’infanzia sono più che altro ricordi di enormi abbuffate, parenti e regali e non rivestono più il significato originario di missione apostolica e comunione con Dio. Nonostante ciò, tutti coloro che pur non praticando sono stati battezzati, risultano nei registri vescovili, vengono perciò computati in quel 96% di popolazione cattolica e, secondo il Catechismo Ufficiale della Chiesa “non appartengono più a se stessi […] perciò sono chiamati […] a essere obbedienti e sottomessi ai capi della Chiesa”.
Vista da quest’ultima prospettiva, l’appartenenza alla confessione cattolica è un legame inscindibile con un’autorità che per quanto sia di matrice morale ha un’innegabile margine di azione temporale.
Per questo da circa vent’anni l’UAAR (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti, di cui è presidente onorario l’astrofisica Margherita Hack) sta promuovendo iniziative volte a promuovere la non aconfessionalità dello Stato e delle sue istituzioni, arrivando ad ingaggiare una battaglia legale con il Vaticano per il riconoscimento formale della volontà di uscire dalla Chiesa cattolica.
Nel 1995, dopo aver ottenuto solo risposte evasive dalle autorità ecclesiastiche, gli azionisti dell’UAAR lanciavano un appello a Stefano Rodotà, allora garante per la tutela della privacy, in cui chiedevano espressamente di intervenire nei confronti delle parrocchie refrattarie alla cancellazione del battesimo. Dopo 4 anni, nel 1999 arriva la risposta del garante che, pur riconoscendo il fatto che il battesimo è incancellabile in quanto fonte di un fatto storicamente avvenuto, decreta la possibilità di far annotare la personale volontà di apostasia e di non essere quindi più formalmente “figli della chiesa”. Da quel momento in poi, l’UAAR ha mobilitato una campagna permanente per informare sulla pratica dello sbattezzo e combattere quel nicodemismo così diffuso entro i nostri confini geografici.
Il meccanismo codificato dalla giurisprudenza canonica e statale è di una semplicità estrema: è necessario conoscere la parrocchia nella quale si è ricevuto il battesimo ed inoltrarle una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui si esplicita la propria volontà di uscire formalmente dalla Chiesa cattolica - è inoltre possibile scaricare i moduli dal sito http://www.uaar.it/laicita/sbattezzo. Entro 15 giorni il parroco è tenuto per legge a rispondere con una lettera in cui conferma di aver annotato sull'atto di battesimo e/o sul registro dei battezzati quanto richiesto dallo “sbattezzando”. Una volta avvenuto l’atto formale, questo comporta per il richiedente l’esclusione da tutti i sacramenti, l’impossibilità di fungere da padrino o madrina e la privazione delle esequie ecclesiastiche qualora non ci sia stato un pentimento previo alla morte.
Ad oggi non sono ancora disponibili le cifre esatte sulla diffusione del fenomeno e in molti hanno già bollato questa rivendicazione come una goliardata anticlericale-anarchico-comunista ma la pratica dell’apostasia significa soprattutto rivendicare la propria identità. Pensiamo infatti a tutti quei gruppi di persone che vengono ben poco velatamente osteggiati dalle istituzioni vaticane, come gli omosessuali, le donne e il loro corpo, i conviventi, i divorziati: per questi soggetti il battesimo è un’incongruenza riscontrabile in ogni pronunciamento dottrinale e in tutte quelle chiusure dogmatiche che impediscono ogni tipo di partecipazione attiva alla comunità cristiana.
Sbattezzarsi è anche una presa di posizione politica di fronte agli atteggiamenti d’ingerenza cui il papa ed i vescovi ci hanno abituato: dalla condanna del profilattico espressa un anno da fa da Benedetto XVI, alle vere e proprie dichiarazioni di guerra che hanno interessato il referendum sulla legge 40 sono molti gli esempi in cui buona parte della popolazione italiana, pur essendo battezzata, ha intimamente o attivamente dissentito dai dettami di San Pietro.
Qui non si vuol certo fare l’apologia dello sbattezzo, ognuno ha il diritto di credere in ciò che gli è più congeniale e di comportarsi di conseguenza. Certo è, però, che secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 239/84, l’adesione a una qualsiasi comunità religiosa deve essere basata sulla volontà della persona ed è molto difficile che questa possa essere riscontrata nei bambini dai 3 ai 5 mesi; se a questo si aggiunge che per la legge 196/2003, l’appartenenza religiosa è considerata un dato personale sensibile - esattamente come l’appartenenza sindacale e politica, la vita sessuale e l’anamnesi medica - ben si capirà come mai oggi l’apostasia formale sia un esigenza sempre più sentita.