di Mario Braconi

Chi lavora per una grande azienda è probabilmente assuefatto allo spettacolo poco edificante delle moderni corti di blasonati consulenti "strategici", tutti presi a sussurrare le loro presunte “ricette miracolose” direttamente nelle orecchie dei vertici direttivi. Talora i loro costosi consigli servono a giustificare a posteriori decisioni già prese in altre sedi, più frequentemente costituiscono una summa di ovvietà ben confezionate.

Nei rari casi in cui aggiungono veramente valore, lo fanno al prezzo di mortificare l'impiego e lo sviluppo di risorse già inquadrate all'interno degli organigrammi aziendali e di un incremento di costi esponenziale. Secondo una stima molto benevola nei confronti dei consulenti, il costo di un'ora del lavoro di una di codeste persone "venute di cielo in terra a miracol mostrare" è 10 volte superiore alla retribuzione oraria di un quadro aziendale responsabile di una funzione.

Una cosa è certa: una volta saldata la fattura, spesso tutto quello che il cliente si ritrova tra le mani è un'interminabile presentazione in PowerPoint, costituita da decine e decine di slide (anche se ai piani alti, dove si è adusi allo sproloquio "in english", talvolta si preferisce parlare, in modo assai civettuolo, di "tavole").

Sembra comunque che il programma comprato da Microsoft dalla Forethought nel 1987, dopo aver saturato il mondo corporate, abbia finito per occupare manu militari anche la Difesa degli Stati Uniti d'America: in un documentato e godibilissimo pezzo pubblicato sul New York Times lo scorso 26 aprile, Elizabeth Bumiller spiega come, se il Segretario alla Difesa Robert Gates riceve i suoi briefing quotidiani in PowerPoint, il generale David Petraeus (delegato per le guerre in Iraq e Afghanistan) ha condotto numerose presentazioni elettroniche usando l'infernale strumento. E anche Richard H. Holbrooke, rappresentante speciale del Governo USA per l'Afghanistan e il Pakistan, quando si è recato nelle zone di guerra si è dovuto sorbire delle presentazioni in PowerPoint. Idem per i militari italiani, spesso assediati, oltre che dai talebani, anche da sconvolgenti presentazioni elettroniche a stelle e strisce cui ogni tanto viene perfino  aggiunto un galvanizzante commento musicale…

Tutto andava bene, finché il Generale Stanley A. Mac Chrystal, capo delle forze americane e NATO in Afghanistan, si è visto comparire sullo schermo una slide grottesca che aveva l'ambizione di spiegare in un unico diagramma l'intera gamma delle forze in campo e dei fenomeni da controllare per comprendere e vincere la guerra: di fronte a quel delirio di frasi schematiche interconnesse da centinaia di frecce impossibili da seguire, si dice che il militare abbia rinunciato non si sa se a vincere la guerra o a capire lo specchietto (due obiettivi della stessa difficoltà, in effetti).

Come nota Richard Engel, capo dei Corrispondenti Estero della NBC, che già a dicembre dello scorso aveva messo le mani sulla slide dello scandalo, "mentre per alcuni comandanti militari è geniale - in quanto rappresenta un nuovo approccio alla guerra, che guarda oltre alla semplice eliminazione fisica dei nemici - per altri, essa è il culmine del percorso folle che gli Stati Uniti hanno intrapreso nel nome della sicurezza nazionale.

I suoi detrattori sostengono che lo schema rappresenti una forma di violenza contro ogni logica. Non a torto, infatti, pensano che occupare un paese straniero per garantire sicurezza in patria sia un processo costoso, lungo e che conduca solo ad illogiche aberrazioni a forma di piatto di spaghetti. Questo è quanto accade quando a persone intelligenti viene chiesto di dare una risposta alla domanda errata".

Scorrendo la pagina dei commenti alla redazione del quotidiano newyorkese, si può concludere che, secondo la gran parte dei lettori, il problema non sia tanto lo strumento tecnologico in sé, quanto il modo in cui viene usato. Di questo stesso tenore anche la lettera che al NYT hanno inviato Peter Norvig (capo della ricerca per Google) e Stephen M. Kosslyn (professore di Psicolgia ad Harvard ed autore di un libro sui "trucchi" psicologici da impiegare per rendere le presentazioni elettroniche più efficaci): "Un'immagine digitale che si accende su uno schermo è quanto di meglio vi sia per rappresentare oggetti bidimensionali (statistiche, foto e mappe), ma una realtà complessa viene comunicata molto meglio con un rapporto scritto da distribuire all'uditorio, cui dovrebbe seguire una discussione."

C'è però anche chi, come Edward Tufte, statistico ed esperto di "information design" (ingegneria dell'informazione), la pensa in modo diametralmente opposto: nel suo pamphlet "L'uso cognitivo di PowerPoint" (2003), il professore rilevava che il programma della suite office "costringe le persone a mutilare i dati oltre i livelli utili alla loro comprensione." Ad esempio, obbliga ad esprimere concetti in "bullet point" che contengono fino ad un massimo di circa quaranta parole -leggibili in otto secondi. In realtà, il fatto stesso di disgregare un ragionamento in brevi frasi lascia allo speaker l'onere (e il rischio) di collegare tra loro i vari punti. Inoltre, lo strumento è basato su “un'ossessione medievale per la gerarchia di concetti” - esistono infatti 4 o 5 modi per segnalare l'importanza relativa di un’idea rispetto alle altre: ordine di apparizione, rientro più o meno accentuato, stile e formato dei bullet point.

Le conclusioni di Tufte coincidono con i risultati dell'indagine NASA sull'esplosione dello Shuttle del 1 febbraio del 2003: certo, la schiuma del rivestimento della carlinga è stata la causa dell'incidente, ma una parte della colpa va al prodotto Microsoft: la NASA, infatti, ai tempi dell'incidente, faceva tutte le sue presentazioni in PowerPoint. Secondo la ricostruzione della commissione NASA (sposata anche da Tufte) la confusione ingenerata dal modo in cui il problema tecnico era stato rappresentato ha causato una sua sottovalutazione e, in ultima analisi, ha contribuito alla morte dei sette membri dell'equipaggio. Benché PowerPoint abbia certamente dei difetti ed in fondo incoraggi uno stile cognitivo superficiale e mercantile, non sembra poi del tutto onesto attribuirgli tutto questo potere. In fondo le sue storture sono quelle prodotte da un sistema sempre più commerciale e sempre più nemico della conoscenza autentica.
 

di Mariavittoria Orsolato

La prossima domenica cade l’annuale festa della mamma, una festività voluta nel 1870 dalla pacifista Julia Ward Howe ma ufficializzata nel 1914 dal presidente americano Woodrow Wilson. Che questa festa sia appannaggio dei fiorai, e più in generale di quel grande mondo consumistico da cui siamo quotidianamente fagocitati, è una realtà comprovata; ma il Mother’s day nasce soprattutto come giornata per ricordare l’importanza fondamentale della figura materna. “Schiava degli schiavi”, come direbbe John Lennon o, molto più semplicemente, pilastro e collante di quella famiglia tanto celebrata da Chiesa e Governo.

Dove stia quindi la notizia, ce lo spiegano l’undicesimo rapporto su “Lo stato delle madri nel mondo” realizzato da Save the Children e il nuovo rapporto Fondazione Cittalia-Anci Ricerche: essere madri in Italia significa inevitabilmente impoverirsi. I numeri emersi dalle statistiche dicono, infatti, che ben il 15,4% delle coppie con un bambino sotto i 18 anni vive in condizioni di indigenza, percentuale che sale al 16,5% in presenza di 2 figli, di cui almeno uno minorenne, e al 26,1% se i figli - maggiorenni o meno - diventano 3.

La fotografia è quella di un Paese dove esiste un bonus bebè e si organizzano plateali family-day, ma non si è in grado di migliorare le condizioni di vita delle madri e dei bambini: l’Italia infatti scivola dal 16° al 17° posto nella classifica mondiale quanto ad assistenza statale della maternità. La situazione è sicuramente bizzarra se si pensa a quante energie sono state profuse per invogliare alla creazione di nuovi nuclei familiari; ma il bandolo di questa triste matassa è proprio da ricercare nel ruolo delle istituzioni.

Costrette in molti casi ad abbandonare il lavoro al momento della gravidanza, le mamme italiane vengono coccolate e iper-protette al momento del parto, poi dallo Stato più nulla: l’enorme divaricazione tra assistenza sanitaria alla nascita - di per sé considerata comunque ottima a livello internazionale - e l’assenza pressoché completa di servizi che accompagnino il bambino nella crescita, sta infatti alla base del depauperamento di circa 1.678.000 madri.

Partendo dall’impossibilità d’iscrivere il figlio ad un asilo nido (i costi sono solitamente proibitivi per le coppie a basso reddito), fino ad arrivare all’organizzazione del tempo scolastico e domestico, tutto rema contro la possibilità di emancipazione economica della donna, troppo spesso costretta a “fare la mamma a tempo pieno” e di conseguenza impossibilitata a contribuire al reddito familiare.

E’ così che il 16,3% delle mamme in coppia con figlio piccolo paga in ritardo almeno una delle bollette di casa, mentre il 10,3% non riesce a sostenere regolarmente le spese scolastiche dei figli: la povertà relativa, quella che tocca i nuclei con un reddito inferiore ai mille euro al mese, interessa infatti più spesso le famiglie in cui la donna non lavora o rinuncia a lavorare fuori casa.

Quella evidenziata da Save the Children è un’anomalia tutta italiana, la realtà extracomunitaria ne rimane fuori quasi del tutto dal momento che il lavoro femminile, connesso com’è al rinnovo del permesso di soggiorno, ha incidenza quasi totale tra i residenti presi in considerazione dell’indagine. Non è nemmeno un problema delle madri single, solo il 7,5% del totale; ben l’86,3% delle madri costrette a tagliare sul cibo, a trascurare visite mediche e spese scolastiche vive in coppia con il padre dei suoi figli o con un secondo marito.

Inutile dire che nel resto d’Europa le cose sono ben diverse: lì il disagio economico inizia a farsi sentire solo dopo l’arrivo del terzo figlio ma è comunque compensato dagli innumerevoli servizi che le istituzioni mettono a disposizione dei genitori, dal tempo pieno scolastico agli asili aziendali. In Italia il welfare domestico - deputato ufficialmente allo Stato - è invece affidato alla rete familiare composta da nonni, zii e parenti di vario grado (necessariamente in pensione): dove questi sono arzilli, è più probabile che la madre possa dedicarsi al lavoro retribuito.

Insomma, la decisione di diventare madre nel Belpaese non corrisponde tanto ad una realizzazione della propria femminilità, ma corrisponde all’accettazione di una sfida quotidiana, ad una lotta contro il tempo e il conto in banca, ed ad inevitabile frustrazione personale che nessun bonus bebè può alleviare. Non stupiamoci dunque se il nostro Paese è passato dal baby-boom alla crescita zero.

 

di Rosa Ana de Santis

Il 9 maggio la pillola anticoncezionale compirà negli Stati Uniti i suoi primi 50 anni. Una rivoluzione culturale dirompente che nel nostro Paese, numeri alla mano, sembra essersi interrotta o non essere mai iniziata. In Italia si abortisce, si ricorre alla pillola del giorno dopo e le donne sono all’ultimo posto per l’uso di contraccettivo orale. Dopo anni di dosaggi sempre più bassi si è arrivati addirittura alla pillola tutta naturale. Segno di una medicina che vuole essere sempre più attenta alla salute delle donne e che esprime una maggiore prudenza, di quanta non ce ne fosse agli inizi, sui rischi degli estrogeni.

La pillola ha comunque rappresentato un’opportunità fondamentale per l’emancipazione delle donne, finalmente libere di autogovernare il desiderio di maternità senza dover mediare qualsiasi decisione con il proprio partner. La solitudine di un gesto che poteva restituire ad ogni singola donna l’autonomia della progettualità, di decidere del proprio corpo e della maternità senza imposizioni che fossero familiari o di autorità pubbliche. Il riconoscimento ufficiale, dopo secoli d’imperio maschile, di un’emancipazione nel letto e nella società.

La trasmissione di questa libertà non è stata però così netta ed efficace come previsto. Qualcosa si è incrinato ed è saltato in parte il patto generazionale tra madri e figlie. Il pensiero femminista era certo che, anche grazie alla pillola, la liberazione della sessualità femminile dalla riproduzione e dall’egemonia del sesso maschile sarebbe stata totale. Eppure, ancora oggi la metà delle gravidanze negli Stati Uniti non è programmata. Un’ingenuità pensare che siano tutte donne disinformate e sprovvedute. Basta arrivare ai dati italiani poi, offerti dalla Sigo - la Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia - per rendersi conto ancora meglio di quanto elementi storico-culturali possano intervenire con potere condizionante sulla diffusione della pillola anticoncezionale, anche in un momento in cui notizie e informazioni circolano in abbondanza. Solo il 16% delle donne italiane ha la pillola sul comodino. Numeri bassissimi rispetto agli standard europei. La differenza tra il Nord e il Sud del nostro paese è molto forte.

Ancora più difficile da credere quello che accade nel mondo delle giovani adolescenti alle prime esperienze sessuali. Il resoconto di moltissimi sportelli di assistenza psicologica nelle scuole medie inferiori e superiori della Capitale racconta di penosi rimedi fai da te. Dal bidé di Coca Cola a quello con il dentifricio. Il tam tam di queste ricette, che assomigliano pericolosamente al prontuario del medioevo femminile, circola velocemente tra le giovanissime. Le ragazze la pillola la conoscono, ma non la usano. Vuoi per la sopravvivenza di pregiudizi sul peso e sulla pericolosità, a suo tempo messi in circolo dalla controriforma cattolica e dai medici obiettori, vuoi perché la vivono come un’invasione. Una sorta di medicina obbligata per il semplice fatto di essere donne che proprio non va giù.

Non è stato sufficiente trovare il rimedio farmacologico, peraltro importante anche nella cura di varie patologie femminili, per affrancare in via definitiva la sessualità delle donne dalla riproduzione. La valutazione delle contingenze culturali, sociali ed economiche è passata in secondo piano con la speranza che il farmaco bastasse all’esercizio dell’autodeterminazione femminile. Ma le cose non stavano proprio così e i condizionamenti culturali hanno avuto un’influenza molto forte.

Se il ricorso alla contraccezione di emergenza rimane preferibile all’assunzione quotidiana della pillola e se questo non ha a che vedere solo con donne disinformate e prigioniere dei maschi, è evidente che si tratta di un problema che attiene a un rifiuto della pillola e alla percezione della contraccezione chimica come una medicina per le donne. Se fosse un autentico oscurantismo religioso a impedirne in Italia la diffusione, non avremmo nemmeno la pillola del giorno dopo, né il ricorso alla legge 194. Esiste una variabilità culturale nel modo di sentirsi donne, madri e mogli di cui non si può non tener conto e che non può essere ricondotta al solo criterio valutativo dell’emancipazione o della non emancipazione, della cultura o dell’ignoranza.

Sembra che alle nuove generazioni la pillola sia arrivata come il rimedio prescrittivo di un limite. Quello di essere donne e di poter rimanere incinte. Quello di una donna che se la sbriga da sola. Soprattutto un’alterazione della norma naturale che in una cultura come quella italiana, avvinghiata al dogma della natura come criterio di orientamento morale, non poteva che diventare un’extrema ratio consigliata dal ginecologo, piuttosto che un’abitudine scelta autonomamente dalla donna. Questo forse spiega perché sia accettata la pillola del giorno dopo: una violazione dell’ordine naturale giustificata dall’emergenza.

L’idea di un rimedio che togliesse agli uomini in via definitiva ogni ruolo nella decisione della maternità, non funziona evidentemente come formula di emancipazione per le donne italiane. Rimane da stabilire se sia il mito della famiglia a sopravvivere, un’emancipazione incompleta o soltanto un diverso e rispettabile modo di essere donne libere. Il pensiero femminista oggi ha un tema da mettere sotto la lente: la comunicazione interrotta tra madri e figlie, la rottura di un’alleanza generazionale che non ha trasmesso per intero quel patrimonio che è stata la rivoluzione delle donne.

Oggi le figlie di quelle donne sono liberissime di vivere il sesso, di raccontarlo, soprattutto di esibirlo, ma altrettanto decise a privarsi di qualsiasi difesa contraccettiva. Sono le loro madri dicono le statistiche, donne adulte e sposate, a prendere la pillola. Interrogarsi sul perché di una rivoluzione interrotta è quello che va fatto in occasione di un anniversario simbolico così importante come quello della pillola. E alle donne la responsabilità di trovare le risposte.

 

 

di Mariavittoria Orsolato

A distanza di cinque anni dalla barbara uccisione del diciottenne Federico Aldrovandi, Ferrara e le sue Forze dell’Ordine tornano a far parlare di sé per un triste episodio di abuso di potere: quattro giovani stranieri - due ecuadoriani, un nigeriano e un albanese - un presunto pestaggio, un militare indagato. A far scoppiare il caso è stato un video in bassa qualità, diffuso dall'associazione “A buon diritto” di Luigi Manconi, in cui si possono scorgere movimenti concitati, persone stese e tenute a terra e addirittura un uomo denudato.

Le immagini risalgono allo scorso 24 febbraio e sono state girate nella sede dell'Arma di via del Campo di Ferrara. I quattro stranieri, tutti ventenni e residenti a Rovigo, erano stati fermati in stato di ebbrezza per resistenza a pubblico ufficiale ed erano poi stati trattenuti per ore in caserma. I fotogrammi ripresi dalla telecamera di sorveglianza e forniti alla procura di Ferrara per l’apertura del fascicolo per lesioni contro un carabiniere e per resistenza a pubblico ufficiale, contestata ai quattro giovani, mostrano uno dei ragazzi ammanettato, spinto più volte contro un muro ed aggredito addirittura con un manganello al contrario, ovvero con l’impugnatura rivolta verso l’esterno.

I presupposti per una contro-indagine hanno indotto il pm ferrarese Barbara Cavallo, ad aprire un’inchiesta per accertare le reali responsabilità dei militari presenti; e ad indagare ufficialmente il carabiniere con il manganello. Secondo il racconto di Angelo Bova, legale del carabiniere indagato, sarebbero infatti stati i 4 giovani ad innescare la reazione degli ufficiali: uno di loro si era appunto denudato, mentre l’altro si era ferito volontariamente al braccio e, sanguinante, si lanciava addosso ai carabinieri per infettarli. Non la pensa allo stesso modo Luigi Manconi, secondo cui “Uno dei fermati ha subìto pesanti maltrattamenti e violenze, nonché colpi inferti con manganello a opera di uno, e forse non solo uno, appartenente all'Arma”.

Non c’è ancora nulla di accertato e la scarsa risoluzione del filmato non aiuta a comprendere le esatte dinamiche degli avvenimenti, ma un fatto potrebbe essere considerato indicativo: l’uomo col manganello è stato riconosciuto da Barbara Simoni, un avvocato che aveva precedentemente assistito l’uomo come parte civile in altri episodi di arresti per resistenza e che dopo aver visto il video ha scelto di difendere i quattro giovani stranieri, su cui è comunque pendente in tribunale il processo per direttissima, fissato all'11 maggio in attesa degli sviluppi della nuova inchiesta.

Quello fornito dai Carabinieri è in ogni caso uno spettacolo che, inevitabilmente, evoca i giorni del G8, la morte di Stefano Cucchi, di Aldo Branzino, di Giuseppe Uva; e scatena inesorabili polemiche manichee sulla natura e la realtà operativa delle Forze dell’Ordine. Molto più semplicemente, questi episodi - che sempre di più si affacciano alle pagine di cronaca e rimarcano il fatto di non essere casi isolati - dovrebbero portare a pensare che una persona affidata ad un apparato dello Stato non può e non deve sentire a rischio la propria incolumità. E’ inutile e dannoso pensare che un apparato statale sia nella sua interezza caratterizzato da personalità fasciste, violente e razziste; sarebbe d’altro canto ingenuo mettere i paraocchi e fingere che il problema non sussista.

La cosa peggiore sarebbe quella di ritenere le divise, di per se stesse, garanzia incontestabile di rispetto delle leggi e delle norme. Ad esempio, lo scorso 14 aprile è trapelata la notizia che a Roma ben 17 carabinieri - 6 dei quali coinvolti nell’affaire Marrazzo - sarebbero stati trasferiti dopo il furto di ben 10 kili di hashish facenti parte del sequestro di un’operazione. E se pensiamo che in media i sequestri di cocaina coinvolgono cifre superiori al quintale, è facile immaginare che quantitativi molto più piccoli (come pochi grammi) possano essere sottratti non tanto per fini di lucro, ma per uso personale.

Le vittime di quest’ultimo episodio odioso e violento sono extracomunitari, senza famiglia o amici che possano difenderli. Gli avvocati del caso non sono certo annoverabili tra i principi del foro capaci di sostenere le loro ragioni e le loro versioni anche a livello mediatico. Ma questo non può e non deve diventare motivo di attenzione ridotta sull’accaduto. E’ bene che ogni qualvolta vengano accertati casi si abuso di potere da parte delle parte delle istituzioni preposte alla pubblica sicurezza, la giustizia faccia il suo dovere per far sì che questi non possano più nuocere. Ne abbiamo abbastanza di sentenze come quelle sulla scuola Diaz e sulla caserma Bolzaneto.

 

di Rosa Ana de Santis

L’inchiesta è chiusa. la posizione dei sanitari coinvolti è sempre più grave e molto più leggera la responsabilità degli agenti penitenziari indagati. L’accusa per sei medici, tre infermieri e un dirigente del provveditorato regionale dell'Amministrazione penitenziaria è quella di “abbandono di incapace”, reato grave, ben più dell’iniziale accusa di omicidio colposo. I tre agenti sono accusati di lesioni e abuso di autorità. La storia di Stefano è divisa esattamente a metà. L’arresto e il tribunale e poi l’ospedale Pertini. E’ tra queste due zone d’ombra che finora sono rimbalzate le accuse e i sospetti. Li chiama “vuoti” Ilaria, l’indomita sorella di Stefano. Quei sei giorni di agonia occultati, ritrattati e scoperti a piccoli pezzi.

La decisione di rendere pubbliche le carte della commissione parlamentare sul comportamento dei sanitari che avevano seguito il caso di Cucchi (che ha visto contrario il solo Pdl) ha messo ancora meglio in evidenza i drammatici contorni dell’abbandono terapeutico in cui Stefano è stato lasciato. Rianimato a tre ore dalla morte per prevenzione, ignorato nelle sue elementari richieste di ricevere conforto e nella prosecuzione fatale di uno sciopero della fame e della sete che Stefano interrompe alla mezzanotte del giorno prima di morire quando chiede invano una cioccolata. Lui non sa e non comprende quanto si siano aggravate le sue condizioni. Ma i medici sanno bene che per salvarlo basta un po’ di zucchero che torni a far salire la glicemia. Il suo catetere è occluso, ma nessuno se ne accorge e l’urina risale nella vescica. L’orrore prosegue e il corpo di Stefano si sgretola. Quella stanza come una baracca di Aushwitz,  dice il legale della famiglia. Poi i reni di Stefano si fermano in modo irreversibile. E’ finita.

La famiglia però non vuole dimenticare perché Stefano sia finito al Pertini e non accetta sconti di gravità per chi ha massacrato di botte il figlio. A ricordarlo insieme a loro c’è anche il Presidente della commissione parlamentare Ignazio Marino. Se non avesse subito botte e calci con inaudita violenza non sarebbe finito con le ossa rotte in regime di ricovero. E se qualcuno non avesse avuto paura delle sue parole e della sua testimonianza, forse non sarebbe morto.

La famiglia di Stefano si dice soddisfatta della formulazione del capo d’accusa, aldilà della quantificazione del reato a carico della polizia. Ma la morte di Stefano è per loro un omicidio con tanti carnefici ed è solo così che possiamo raccontarla. Un omicidio iniziato con le botte e concluso con un’agonia prolungata e deliberatamente ignorata che è tutta scritta addosso a Stefano e al suo corpo rattrappito come quello di un deportato.

Sul banco degli imputati quindi ci sono tutti. Perché tutti l’hanno ucciso. Questa è la verità che la famiglia di Stefano rivendica e che non baratterà per qualche briciola di condanna sotto i riflettori. Non sarà facile in un paese anestetizzato agli abusi di Stato. Ma ha capito bene la famiglia di Stefano che il primo passo della giustizia doveva essere ricordare e raccontare. Far vedere tutto, i particolari, i dettagli, le cronache delle ultime ore a prezzo di qualsiasi critica. Perché chiunque non potesse dimenticare l’ultima foto di Stefano. E’ lì che stanno tutti i suoi assassini.  


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