di Valerio Di Stefano

L'entusiasmo seguìto all'istituzione delle caselle di posta elettronica certificata (PEC) per i cittadini, dopo l'annuncio trionfalistico del Ministro Brunetta e gli immancabili “disguidi tecnici”, dovuti a fantomatiche e non ben meglio precisate richieste di accesso in quantitativi massicci, pare essersi spento dopo la fiammata iniziale, rivelando una serie di contraddizioni e inefficienze che non fanno altro che ampliare il divario tecnologico e dei diritti del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione.

La Posta Elettronica Certificata, in realtà, è da anni ampiamente disponibile, in forma capillare, ai cittadini, sia pure a pagamento. Non costituisce, dunque, di per sé, una novità. Probabilmente il “nuovo” ostentato era la gratuità della risorsa per il cittadino. Ma anche quest’aspetto si sgretola al confronto coi fatti.

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, recante "Disposizioni in materia di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini", in vigore dal 6 maggio 2009, prevede che ogni cittadino che lo desideri e ne faccia richiesta possa ottenere una casella di posta elettronica certificata gratuita e senza oneri (art. 2).

Del resto, non poche perplessità aveva destato il comma 4 dell'articolo 3 dello stesso testo, che prevedeva letteralmente: “La volontà del cittadino espressa ai sensi dell’art. 2, comma 1, rappresenta la esplicita accettazione dell’invio, tramite PEC, da parte delle pubbliche amministrazioni di tutti i provvedimenti e gli atti che lo riguardano” .

Dunque, con la richiesta della assegnazione di una casella di posta elettronica certificata il cittadino non solo dimostrava di volersi dotare di uno strumento, ma accettava anche che tutto ciò che veniva inviato dalla Pubblica Amministrazione rivestisse carattere di ufficialità (una comunicazione da una casella di PEC a un'altra, come è noto, ha il valore legale della classica raccomandata con ricevuta di ritorno). Con l'aggravante (naturalmente a carico del cittadino), che i documenti inviati alla Pubblica Amministrazione richiedono spesso la firma digitale, di cui nella quasi totalità dei casi il cittadino è sprovvisto, per poter dimostrare l'identità di chi formula una determinata richiesta o fornisce un determinato documento.

In breve, anche se il cittadino usa la PEC per rivolgersi al proprio Comune per richiedere un intervento dei Vigili Urbani, qualunque altra Pubblica Amministrazione diversa dal suo comune può notificargli qualunque documento via PEC (ad esempio, un atto giudiziario, una comunicazione da parte del fisco e quant'altro). Tutto questo in nome di una supposta trasparenza e abbattimento di costi e tempi di gestione a beneficio di tutti.

Il risparmio sui costi, appare evidente, è tutto a beneficio della Pubblica Ammistrazione che, già dal 2009, con l'introduzione della legge n. 2, deve comunicare con i suoi dipendenti attraverso la PEC. Il che non significa solo che il dipendente del Comune di Vibo Valentia possa e debba ricevere qualsiasi comunicazione dal suo ente di servizio nella casella PEC di Stato, ma anche - e soprattutto - che se lo stesso dipendente di Vibo Valentia dovesse incorrere in una contravvenzione del Codice della Strada nel territorio del Comune di Orgosolo, il Comune di Orgosolo è tenuto a notificargliela via PEC.

Ed è qui che il sistema comincia ad andare in tilt: nella Pubblica Amministrazione manca personale, risorse e know-how per gestire il baraccone inutile che il Ministro Brunetta ha costruito su un sistema di comunicazione indubbiamente utile (anche se costituisce un'anomalia del tutto italiana). Non si tratta di ripetere che basta una casella di posta elettronica tradizionale, come succede in qualsiasi altro Paese dell'Unione, perché è evidente che la necessità di certificare il messaggio e il mittente sono sacrosante; si tratta di rendere effettivamente chiaro e trasparente il rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione che, in questo momento, appare assolutamente squilibrato a favore di quest'ultima.

Perché se il settore pubblico può interfacciarsi con il cittadino, non sempre (anzi, quasi mai) è vero il contrario. L'art. 34 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, aggiungendo il comma 2-ter all'art. 54 del D. Lgs. n. 82/20905 (Codice dell'Amministrazione Digitale) ha stabilito che le amministrazioni pubbliche, che dispongono di propri siti, sono tenute entro il 30 giugno 2009 a pubblicare nella pagina iniziale del loro sito web un indirizzo di posta elettronica certificata, a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta che riguardi il codice digitale della pubblica amministrazione.

A quasi un anno dall'entrata in vigore di quel provvedimento si continua ad assistere a una vera e propria diserzione da parte degli Enti Pubblici all'obbligo previsto. Comuni, Scuole, Istituzioni Pubbliche, Università, Ministeri, Tribunali, Uffici che dispongono di un sito web, difficilmente forniscono la loro casella di posta elettronica certificata, che il cittadino deve andarsi a cercare, se esiste, su altre risorse (www.indicepa.gov.it).

Un caso eclatante, in questo senso, è quello del sito ufficiale del Ministero dell'Istruzione e della Ricerca (www.istruzione.it) che continua gelminianamente a fornire un indirizzo di posta elettronica tradizionale per i contatti con il pubblico senza dare nessuna garanzia che i messaggi siano stati effettivamente ricevuti.

Il collasso finale del sistema si verifica alcuni giorni fa, quando, tra l'indifferenza della stampa e dei mezzi di informazione, lo stesso Ministero dell'Economia blocca alcune disposizioni del nuovo Codice dell'Amministrazione digitale, tra cui gli articoli 10 e 20 bis. Secondo il Ministero, l'assegnazione di un recapito di Posta Elettronica Certificata ad ogni cittadino per i contatti con l'Amministrazione Pubblica, avrebbe un significativo impatto sull'organizzazione delle Amministrazioni stesse.

In parole povere, il cittadino avrebbe tra le mani un'arma che la P.A. non sarebbe minimamente in grado di gestire (ogni Amministrazione avrebbe l'obbligo di protocollare qualsiasi comunicazione). Basti solo pensare alla paralisi che si avrebbe se ogni impiegato comunicasse, come sarebbe suo diritto, la propria condizione di malattia. Potrebbe farlo in qualunque ora (comprese quelle notturne), avrebbe un’immediata ricevuta della propria mail valida a tutti gli effetti legali e non avrebbe nessun altro obbligo, se non quello di recapitare successivamente la certificazione medica.

Se il personale addetto alla segreteria non controlla la PEC perché l'ufficio apre solo pochi minuti prima del turno del dipendente, o perché - si veda il caso - non è capace di gestire il sistema, tutto crolla miserevolmente: il dipendente risulta assente, lo si chiama a casa con ulteriore aggravio di costi per accertarsi che sì, aveva dato regolare comunicazione, ma spesso non si è in grado di sostituirlo (si prenda in considerazione l'assenza di un insegnante in una scuola).

Dulcis in fundo, l'obbligo delle Amministrazioni pubbliche di comunicare tra loro con la PEC, prevedere “ulteriori oneri finanziari e organizzativi“, per cui le pubbliche amministrazioni potranno continuare a comunicare tra di loro tramite telefono, raccomandata tradizionale, posta e fax a spese dei cittadini, in uno sperpero di denaro pubblico che ha come unica giustificazione l'incapacità di interfacciarsi con la tecnologia.

 

 

di Rosa Ana de Santis

Il 16 maggio é dedicato ai malati di cancro. Una giornata per parlare di loro e di una malattia che non molti anni fa era innominabile, infarcita di una mistica del male e di un simbolismo che parlava solo di morte, quasi allegoria di una colpa e di una condanna senza scampo. Le storie dei pazienti raccontano invece non di un’esistenza interrotta, ma di una vita capovolta e mutata in profondità.

La malattia oncologica, proprio per la modalità della sorveglianza, per l’incertezza della prognosi e per la variabile altissima della risposta individuale alle terapie, richiede uno sforzo di convivenza con la malattia che può anche durare anni e che può trasformare la patologia clinica, anche quando fosse scomparsa dal corpo, in una condizione dell’animo e in uno stato mentale. Il cancro come un virus dei pensieri, perché è l’incontro eccellente, senza mediazioni e diplomazie, con le domande fondamentali della vita.

La sensazione di precarietà esistenziale che scatena la diagnosi diventa spesso l’origine però di una nuova disponibilità alla vita in cui l’interiorità, le relazioni e i sentimenti diventano la finalità del quotidiano, i primi strumenti di guarigione e gli ingredienti fondamentali del futuro.  I percorsi, com’è ovvio, sono diversi. I numeri dello studio realizzato dall'Associazione di volontariato Aiscup-Onlus, dall’Idi-Irccs di Roma e dall'Ospedale Sant'Andrea, dicono che il 54% dei malati di cancro ritiene molto importante la spiritualità nella propria vita. Dove spiritualità non è necessariamente religione o fede confessionale, ma cura di sé, forza della mente, interiorità. La problematizzazione psico-emotiva della nuova condizione di vita, diventa strumento per sopportare meglio la sofferenza e per rivendicare la dignità della malattia.

Il rifiuto dell’estraniazione dalla società e l’ostinazione a recuperare canoni normali di vita hanno bisogno - indica il risultato dello studio - di questo motore spirituale. Lo studio ha riguardato 220 pazienti chemioterapici dell’Idi. Più donne che uomini e molte di loro giovani. La maggior parte ha dichiarato di desiderare una vita serena, una ridotta percentuale ha elaborato un rifiuto della fede e molti di questi pazienti si definivano già credenti prima della malattia. Lo studio ora si spingerà ad analizzare il rapporto tra malattia e spiritualità in paesi caratterizzati da una cultura religiosa che non sia cristiana e sarà esportato ai centri oncologici di Gerusalemme e di Teheran.

Spiritualità nella malattia non significa preghiere: vuol dire piuttosto mettere al centro l’umanizzazione delle cure, l’integrazione tra medicina e psicologia al fianco del paziente e l’attenzione continua alla non esclusione della persona ammalata nel sistema sociale e nel mondo del lavoro. Solo tutti questi elementi aiutano il paziente a elaborare la malattia come un passaggio, una battaglia da vincere, una condizione in cui non si aggiunga all’invalidità fisica la depressione di un’esclusione sociale.

I diritti sul posto di lavoro, lo snellimento della macchina burocratica in cui s’imbatte un paziente quando entra in ospedale, la creazione di corsie di prenotazioni preferenziali, l’esenzione e il riconoscimento dell’invalidità, è tutto quello che la politica deve fare per queste persone. Il cancro è una malattia sempre più diffusa nelle società occidentali, per longevità della popolazione, per diffusione di dannosi stili di vita, cattive abitudini e soprattutto fattori d’inquinamento spesso colpevolmente tollerati. Una sempre più accurata conoscenza inoltre del dna e dell’identità genetica permette ormai di elaborare una mappatura precisa e quasi individuale di rischio e predisposizione ai tumori. Tutto questo impone l’obbligo di trattare il cancro come una malattia certamente grave e seria, ma di normalizzarla. Il cancro è curabile anche quando non è guaribile in modo definitivo. Non è fuori dalla vita e non è la bestia nera.

Le terapie sono sempre più personalizzate e la clinica pone sempre più attenzione allo studio e al contenimento degli effetti collaterali. La percezione di sé - e quindi l’immagine del proprio corpo nella fase chirurgica e in quella delle cure - non sono più considerati dettagli ininfluenti, ma condizioni importanti per la guarigione. L’estetica, ad esempio, nelle patologie oncologiche femminili non è più interpretata come un vezzo o un aspetto coadiuvante, ma è messa al centro della stessa chirurgia. Tantissime testimonianze raccolte dall’AIRC documentano come dopo la diagnosi di cancro si possa, pur con tutta la fatica immaginabile, recuperare normalità.

Spiritualità nel cancro non è necessariamente risposta al perché sia accaduto. Non è necessariamente fede. Né è un percorso risolto di significato e di disegno provvidenziale. Più semplicemente è la trasformazione di un fatto occasionale e grave in un cambiamento anche interiore della vita e, spesso, nel raggiungimento di un’esistenza più raffinata, meno elementare e di maggiore autocoscienza. Nessuna didattica della sofferenza, ma la convinzione che l’esistenza sia naturalmente fatta di questi improvvisi incontri con il dolore e che l’ostinazione di vivere non sia altro che la saggezza della normalità messa accanto alla velleità dei sogni.

Soltanto per questo, per parlare di cancro, di cura e di corpo, non si può non parlare di spirito. Le persone vanno curate tutte intere, il loro mondo, i pensieri, le relazioni e i desideri vivono insieme a loro questo assedio e vivono pensando al giorno in cui saranno liberi. La guarigione inizia anche così, anche quando non può essere scritta su nessuna cartella clinica. Il 16 maggio è dedicato a queste storie di straordinaria normalità.

di Fabrizio Casari

Impegnati sulla volata scudetto o sulla nazionale geriatrica in partenza per il Sudafrica, quasi distratti dall’ampliarsi quotidiano della lista della cricca del mattone a buon mercato, ci capita di non riuscire a concentrarci sulla cronaca nera. Succede, del resto, quando il governo e i media vanno d’accordo e quando non c’è bisogno di utilizzare la cronaca dei delitti peggiori in chiave elettorale. Eppure, le ultime settimane sono state ricche, tristemente ricche, di episodi di violenza e di follia, di uomini che uccidono donne.

Eravamo abituati al clima estivo quale ambientazione dell’esplosione di follia familiare. Psicologi televisivi e intrattenitori, improvvisatisi giornalisti, negli ultimi anni avevano sempre scoperto nel clima torrido, nella solitudine delle vacanze fallite o in qualche altra scempiaggine, la molla scatenante delle devianze criminali sopite. Adesso invece, che la bella stagione non è ancora alle porte, quando tutte le concause sono ancora in attesa, la furia omicida, i comportamenti criminali in famiglia sono all’ordine del giorno. Da nord a sud, sposati o separati, con figli o senza, occupati o disoccupati, va in scena ovunque il filmino postmatrimoniale orrido, quello che ha un solo soggetto: la violenza sulle donne.

E non si tratta di violenza sessuale occasionale, di stupro addebitabile al maniaco o all’extracomunitario di turno, che invece di trasudare dolore e indignazione, risulta buono per rimpolpare la dose di xenofobia, questa tutt’altro che latente. Non lo troverete nei titoli dei giornali, ma sono italiani, italianissimi, gli assassini di donne di questa primavera infame. E non assassinano - o tentano di assassinare - incolpevoli quanto ignote donne indifese: sono i loro mariti o ex-mariti, fidanzati o amanti, persino parenti di primo o secondo grado.

La famiglia, dicono quelli che ne hanno almeno due, é sacra e indivisibile. E’ dove si edifica la struttura sociale del paese, il luogo della costruzione identitaria. Proprio per questo detiene diritti che le relazioni prive di timbro nemmeno si sognano. E se al timbro si lega il diritto, proprio per evitare che quei diritti possano averli un domani, si fa in modo che quei timbri non trovino liceità. Probabilmente difettiamo in etica teologica, ci ostiniamo a credere che la famiglia sia solo uno dei luoghi - e non l'unico - dove sia possibile costruire la rete di affetti con la quale si vive. La famiglia, insomma, come una possibilità, non come l'imprescindibile.

D’altra parte gli addetti alla diffusione dei sani valori e all’arricchimento del profilo pedagogico del Paese non brillano. La Chiesa che intima divieti all’amore egualitario mentre permette l’obbrobrio della pedofilia nelle sue chiese, si accompagna ai difensori della famiglia in servizio permanente effettivo, che insultano ed offendono in ogni modo le donne. Una moda oscena e bestiale, una vendetta conclamata contro i diritti che le donne hanno saputo conquistarsi quando ancora tra la società e la politica esisteva un legame. L’odio per l’indipendenza, l’odio per l’orgoglio, sembra essere, in compagnia dell’odio per “l’altro”, il senso compiuto della cristianità d’inizio millennio. Non sarà proprio un caso, quindi, se gli ultimi 3 anni, gli omicidi in Italia sono cresciuti del 16 per cento. Dei seicento omicidi all'anno di cui si "fregia" il Belpaese, circa la metà sono tra gente che si conosce e, la metà di questi, all'interno di nuclei familiari.

Il nord ricco non uccide diversamente dal sud povero. Anzi, colpisce semmai come i peggiori massacri siano avvenuti, in questi ultimi anni, proprio nelle villette monofamiliari, simbolo del benessere conquistato oltre che del gusto pessimo, e nei piccoli centri, spacciati ad ogni piè sospinto come l’alternativa dello spirito alla invivibilità della metropoli tentacolare. Pare proprio, invece, senza voler nemmeno lontanamente proporre una lettura sociologica d’accatto del fenomeno, che proprio nel nord, indicato per la qualità dei servizi, e proprio nei piccoli centri, indicati per la qualità della vita, la furia criminale all’interno delle famiglie si scatena con maggiore efferatezza.

Ci sarebbe bisogno di capire cosa c’è nel nostro modello di società che davvero non funziona più. Ci sarebbe bisogno di correre in soccorso della realtà, di uscire fuori dalle case d’ipotetici grandi fratelli e da quelle delle casalinghe disperate in formato televisivo. Bisognerebbe cacciare la Tv anche dall’urna elettorale, di ricominciare a scrivere e a parlarsi senza cercare il carburante dell’odio. Ricordiamo con nostalgia un paese solidario, dove le lotte per l'uguaglianza e per l'allargamento dei diritti di tutti prevaleva, anche sul piano morale, all'individualismo sfrenato e all'ostentazione del privilegio. Forse da quella nostalgia si dovrebbe ripartire.

Per farlo, servirebbe ricominciare ad indagare la realtà nella quale viviamo, in un sistema arcaico ed iniquo che opprime tutti, chi più chi meno. Per scoprire magari che quest’Italia, che si sveglia sentendosi diversa da tutto e s’addormenta scoprendo di aver paura di tutti, il filo dell’unità e dei valori deve assolutamente recuperarlo. Perché l’ha perso da un pezzo. Da quando cioè, quindici anni fa, scelse di diventare più furba, invece che più giusta.

di Alessandro Iacuelli

Era un luogo davvero insospettabile, la base dell'organizzazione internazionale dedita al traffico di cocaina appena sgominata dai carabinieri del Comando provinciale di Piacenza: un convento di suore situato nel centro di Milano. L'idea geniale per mascherare deposito di droga e traffico era venuta ad alcuni affiliati alle cosche calabresi Pelle-Vottari e Coco-Trovato, legate a due cartelli colombiani della droga. Per "coprire" gli spostamenti della cocaina, venivano organizzati falsi pellegrinaggi.

A finire in manette sono state 33 persone in tutto, altre 80 denunciate, ed è stata sequestrate una considerevole quantità di stupefacente, circa 30 chili di cocaina purissima. Secondo gli investigatori il custode del convento, un sudamericano incensurato, avrebbe organizzato pellegrinaggi ai quali si univano dei suoi complici che, fingendo di essere dei fedeli, trasportavano la cocaina nei breviari e in altri oggetti nascosti nel bagagli a mano.

Non solo. C'è qualcosa di più grave dietro il traffico di droga. Infatti, dalle indagini è emerso anche che dei fondi FAO, il Fondo Mondiale per l'Alimentazione, fondi destinati allo sviluppo della pesca in aree povere dell'Africa, siano stati "illegalmente percepiti" e usati dalla stessa banda per realizzare una base di stoccaggio della cocaina in Ghana. Con buona pace per la fame nel mondo.

Sempre secondo gli investigatori, era proprio l'insospettabile custode del convento, ad essere uno dei capi della potente organizzazione internazionale di trafficanti di cocaina. Dalle indagini è emerso che utilizzava il convento come base per le sue operazioni e organizzava i viaggi dei corrieri della droga dalla Colombia, mascherandoli come pellegrinaggi. Pellegrinaggi in abito talare, perché i corrieri, fingendosi sacerdoti e religiosi, nascondevano e trasportavano la cocaina eludendo un bel po' di controlli aeroportuali, dove è un po' difficile che perquisiscano un sacerdote. L'uomo è stato arrestato tra lo stupore delle suore, che tra una preghiera ed un'altra hanno anche mormorato che era un brav'uomo e che, naturalmente, non si erano mai accorte di nulla.

E' stato proprio a partire da questi strani pellegrinaggi dall'America Latina all'Italia che i carabinieri di Piacenza, sotto il coordinamento delle DDA di Bologna e Milano, sono riusciti, nell'arco di ben tre anni, a capire come funzionava il meccanismo. Quelli che risultavano come pellegrini, diretti in Italia per un periodo di preghiera, trafficavano la cocaina stoccandola prima in Ghana e trasportandola poi in Italia. Proprio dietro la base africana ci sarebbe nascosta la pericolosa truffa alla FAO: l'organizzazione avrebbe,infatti, mediante dei prestanome, richiesto un finanziamento proprio alla FAO. I prestanome hanno presentato la documentazione di una società di import-export, che avrebbe dovuto sviluppare il mercato ittico in Africa e contribuire a salvare dalla fame chi non ha da mangiare. E, incredibilmente, il finanziamento l'hanno ottenuto.

Come non bastasse, secondo gli inquirenti era "già in fase esecutiva un accordo commerciale tra i trafficanti piacentini e alcuni narcos appartenenti ai cartelli colombiani, per destinare ingenti investimenti in termini di mezzi e capitali" nella costituzione di una nuova base operativa in Ghana, demandata allo stoccaggio di partite di cocaina da introdurre successivamente in Europa. Magari anche questa a spese della FAO. Sempre secondo la DDA, la banda era costituita principalmente non dai "soliti" calabresi, come si usa dire spesso in nord Italia, ma da trafficanti piacentini "dediti al rifornimento di ingenti partite di cocaina attraverso il contatto con elementi appartenenti a dirette articolazioni di 'ndrine calabresi attive sul territorio lombardo".

Sequestrata anche una casa ad Alemanno San Bartolomeo, in provincia di Bergamo: secondo gli inquirenti, ospitava il laboratorio clandestino per la raffinazione della droga, poi smerciata nelle province di Milano, Bergamo, Brescia, Varese, Lecco, Lodi, Parma, Piacenza e La Spezia. Naturale l'imbarazzo manifestato da persone vicine alla FAO: si tratta di uno “smacco” che andava evitato assolutamente.

Tra gli arrestati ci sono anche alcuni rispettabilissimi imprenditori piacentini, primo tra tutti il titolare di una ditta di autotrasporti di Alseno, e altri suoi colleghi della Valdarda che erano riusciti, secondo i carabinieri, ad avere il contatto, tramite un intermediario anche lui arrestato, con le cosche calabresi che gestiscono il traffico di droga in Lombardia. In particolare sono emerse collaborazioni con la famiglia dei Vottari, il cui nome ricorre anche nella strage di Duisburg di due anni fa.

Sembra un'instancabile corsa, quella tra Stato e narcotrafficanti: corsa ai metodi più forti per contrastare i traffici da un lato, e per eludere i controlli dall'altro. E’ con l'inasprirsi di questi ultimi, che la corsa si sposta su piani sempre più fantasioni. Stavolta si è pensato, come copertura, ad un giro di pellegrinaggi, di viaggi di preghiera, di breviari e crocifissi, ad un convento; e si è pensato a estorcere soldi alla FAO, travestendosi da pii aiutanti dei bambini affamati africani. Tanto ingegnoso quanto insospettabile. E la prossima volta? Quale sarà la prossima invenzione?

di Rosa Ana de Santis

E' stata disposta una "rigorosa attività ispettiva" sul comportamento dei poliziotti la sera del 5 maggio scorso a Roma. L'indagine é stata disposta dal Capo della Polizia Manganelli, dopo la visione di quanto appare su Youtube. Perché stavolta, diversamente da altre, il video c’è. Ci sono molti testimoni dell’accaduto e i genitori hanno potuto far visita nel carcere di Regina Coeli al figlio che è agli arresti dal 5 maggio scorso, dopo la partita Roma-Inter. Tante analogie e importanti differenze con la storia dello sfortunato Cucchi. La storia di Stefano Gugliotta, 25 anni, forse nasce da un banale sbaglio di persona. Viene preso a manganellate mentre è ancora sul motorino e non sa, né i suoi familiari sanno, perché sia finito in carcere. Lui allo stadio nemmeno c’era.

Marco Letizia, segretario nazionale dell'Anfpi (Associazione nazionale dei funzionari di polizia), dichiara subito, appena scoppiato il clamore per il video-denuncia, che bisogna fare chiarezza sulle motivazioni del fermo e sul comportamento dei due prima di fare ipotesi e accostamenti con altre vicende di cronaca. Certo è che Gugliotta è incensurato ed è in carcere senza un motivo, senza che alcuno gli abbia comunicato le ragioni dell’accaduto, ma intanto le botte le ha già prese. Non è grave come è successo ad altri, ha ferite e segni di tumefazioni e percosse sul corpo, sei punti di sutura in testa, un dente rotto. Il suo legale, Cesare Piratino, non dice se abbia denunciato o meno la Polizia, ma ne chiedono l’immediata scarcerazione. E’ provato e spaventato, appare così a suo padre.

Anche il Parlamento, anzi una parte di esso,  è entrato nella vicenda con la percezione chiara che un eccesso di potere e di strumenti coercitivi stia caratterizzando sempre di più l’operato della polizia. Una deriva pericolosa, ormai sistematica, che sembra non essersi sedata neppure sotto l’attenzione dei media a seguito dei casi più scabrosi della cronaca. I radicali chiedono un‘indagine sul comportamento della polizia, così sproporzionato rispetto a qualsiasi azione compiuta dai fermati, peraltro incensurati. Soprattutto evidenziano la necessità di rivedere in toto la gestione dell’ordine pubblico affidata a strumenti e modalità assolutamente superati, non da ultimo alla impossibilità di identificare gli agenti - ad esempio con un codice bene in vista sul casco - quando sono in azione. L’anonimato garantisce immunità.

Anche il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, senza entrare nel merito della vicenda e delle responsabilità, si dice perplesso di fronte alla dinamica di tutta la vicenda, al silenzio terribile in cui è stato lasciato un incensurato in carcere e alla modalità con cui è stato fermato. Una normalizzazione della violenza che apre scenari preoccupanti per i cittadini e alcuna rassicurazione di tutela. E’ rimasto soltanto il sindaco di Roma Alemanno a ricordare, e forse ce n’è bisogno, che i poliziotti ci difendono. Paola Frassinetti, vicepresidente della commissione Cultura e Sport della Camera, presenterà un'interrogazione al ministro degli Interni per fare chiarezza. Tutti la vogliono. Il consigliere comunale Athos De Luca chiede al Comune di costituirsi parte civile "qualora si riscontrassero responsabilità e abusi, non accettabili comunque, neanche se il ragazzo avesse partecipato ad eventuali incidenti post-partita".

Stefano Gugliotta non è diffidato, è incensurato e al massimo ha preso qualche multa in motorino.  Quale che sia il reato che gli viene contestato, gli abusi ci sono già stati e sono ben evidenti sul video mandato A chi l’ha visto. Mentre lui viene portato in carcere con tanta veemenza, numerosi teppisti da stadio rimangono in libertà per la prossima partita e per popolare la prossima curva. La solerzia delle divise con loro sembra sparire.

Stefano Gugliotta e’ stato obbligato a firmare un foglio in cui rinunciava a cure supplementari, (solo dopo sostituito con uno corretto); nessuna lastra gli è stata fatta per verificare lo stato delle lesioni alla schiena e nessuno sa cosa abbia fatto quella notte. Mentre la Questura promette di fare chiarezza, Stefano va portato fuori da Regina Coeli. Perché possa testimoniare eventuali abusi. Perché se un ragazzo come Cucchi, che aveva commesso un piccolo reato, è morto in quel modo e se l’impunità dei poliziotti in Italia è un confermato dogma di fede, si deve avere paura. La famiglia di Gugliotta ha paura. E quale genitore, o fratello, o sorella, non l’avrebbe guardando quel video? 


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