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di Rosa Ana De Santis
La storia di Stefano Cucchi ha sempre di più i contorni di una vicenda cupa, occultata nell’omertà colpevole delle istituzioni coinvolte. L’indagine per la verità va avanti e dalla vetrina del TG1 è finalmente riapparsa la lettera che era stata sottratta, lettera che Stefano ha scritto la sera prima di morire. A leggerla è Ilaria, la sorella, che con parole misurate e toni pacati lancia argomenti e riflessioni che pesano come pietre. In quelle poche righe, scritte con uno stampatello incerto, c’è una richiesta di aiuto, indirizzata a uno degli operatori della comunità CEIS presso cui era in cura, Stefano racconta lo sconforto e lo smarrimento, fino all’ultima preghiera: “Rispondimi”. Quella lettera non è mai arrivata ed è stata sottratta dalla scatola degli effetti personali consegnata alla famiglia.
Le discordanze tra il primo verbale redatto dalla polizia giudiziaria e la lista apposta sulla scatola ritirata da Regina Coeli, tra mille difficoltà ha portato al riscontro dell’ennesima anomalia. La lettera di Stefano appare e scompare. Perché - questa la paura - con quelle parole diventa impossibile difendere la tesi del paziente silenzioso, del detenuto ribelle, del figlio e del fratello che non vuole e non ha bisogno del conforto e della vicinanza dei propri affetti familiari. E’ stata la testimonianza di una vice sovrintendente della Polizia Penitenziaria ad aver permesso di scoprire che la lettera misteriosa esisteva, che non era mai stata recapitata alla Comunità e che la famiglia - questo dicono i tentativi di farla sparire - non doveva leggerla.
Diventa sempre più grave la posizione dei sanitari dell’Ospedale Pertini. Oltre all’ipotesi accusatoria sulla manomissione delle cartelle cliniche del paziente scomodo, si aggiunge la conferma di un altro tassello finora solo ipotizzato. E’ stato impedito a Stefano Cucchi di avere qualsiasi contatto con l’esterno, di chiedere aiuto e, probabilmente, questo il vero timore del braccio della giustizia che ha dato disposizioni ai medici coinvolti, di poter raccontare chi l’avesse ridotto quasi immobile su un lettino. Così quella famiglia lasciata davanti ad un portone ad attendere autorizzazioni fantasiose non sembra più un’assurdità o un errore di burocrazia e disorganizzazione di poteri e competenze, come volevano farci credere. Il piano è stato perfetto, il meccanismo degli effetti - raccontati come collaterali - ben congegnato. Stefano doveva morire. Nulla bisognava tentare per salvarlo.
Presto la commissione presieduta da Ignazio Marino depositerà la propria relazione al Presidente del Senato. Nel frattempo le indagini sugli agenti della polizia penitenziaria vanno avanti e il legale della famiglia si augura che l’accusa di omicidio preterintenzionale tenga. Il ricovero di Stefano è avvenuto per le conseguenze di un pestaggio e i rilievi autoptici dicono che di antecedente al fermo e all’arresto ci sono solo delle ernie. Che le fratture riscontrate sul corpo Stefano fossero mortali oppure no, diventa comunque irrilevante rispetto al fatto che quelle lesioni dolose sono diventate una condanna a morte, grazie al concorso del comportamento negligente avuto dai medici.
L’evidente frammentazione delle responsabilità non dovrebbe tradursi in uno sconto di pena per nessuno dei protagonisti, o ancora peggio in un’assoluzione di fatto. Perché il rischio insidioso è proprio questo. Che le colpe di tanti portino ad una paralisi delle indagini e delle condanne e che alla fine, dopo le violenze subite da Cucchi e il lettino della vergogna dell’ospedale in cui è stato abbandonato, si arrivi alla solita palude giudiziaria.
Sarà più facile credere che Stefano sia morto quasi da sé. Per vulnerabilità personale o meglio ancora per la droga, come aveva già teorizzato il Sottosegretario Giovanardi. Per Gabriele Sandri si parlò del mondo dei tifosi e del calcio, per le violenze di Genova durante il G8 si parlò di black block, per Aldovrandi e Cucchi si parla di droga. E’ comodo deviare l’attenzione dell’opinione pubblica, mentre ogni giorno si perde un pezzetto di verità e il potere immune fa la conta delle proprie vittime, inferiore a quella delle proprie colpe.
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di Mario Braconi
A novembre dello scorso anno, Andreas Lebert, direttore del periodico di moda tedesco Brigitte, ha deciso un cambiamento di rotta che nel suo genere può essere considerato epocale: la "sua" rivista si sarebbe presto trasformata in una "zona franca dalle modelle". "Per tanti, troppi anni ci siamo dovuti servire di Photoshop per rendere le ragazze (delle foto) un po' più rotonde, specie sulle cosce e sul décolleté: una cosa perversa e insana, che per di più ci allontanava dalla nostra lettrice-tipo." Nel corso della conferenza stampa che annunciava la singolare decisione, Lebert fece una lucida quanto amara considerazione basata su dati statistici: se è vero che le donne "vere" pesano mediamente quasi un quarto di più delle modelle sulle pagine delle riviste che sfogliano, non resta che concludere che "l'intera industria della moda è anoressica". Alle parole sarebbero seguiti rapidamente i fatti: dal gennaio del 2010, Brigitte avrebbe mostrato foto di "persone vere", meglio ancora di lettrici del suo giornale, cui veniva anzi chiesto di proporsi inviando una foto accompagnata da una breve nota biografica.
A dispetto dell'ironia che Stephanie Marsh del Times di Londra riserva al modo enfatico con cui i media hanno riportato le decisioni editoriali di Lebert, definendole "coraggiose", la scelta del direttore di Brigitte è felice, sana, politicamente ed esteticamente condivisibile. Si tratta, in fondo, di una battaglia culturale di nicchia, ma non irrilevante, di cui sarebbe ingeneroso disconoscere il valore. Tutti coloro che provano un brivido spiacevole di fronte alla bellezza estrema, fredda e vagamente superomistica dei modelli in intimo Armani sui cartelloni che campeggiano sui palazzi o sugli autobus in città non potranno che plaudire ad iniziative come quella di Lebert. D'accordo: il coraggio - quello vero - è altra cosa, ma è giusto riconoscere il merito di chi combatte anche una piccola battaglia contro l'immagine femminile stucchevole, stereotipata, frustrante ed assurda, tanto insistentemente imposta dai media; la bambola perfetta, seni rotondi, labbra carnose, sorriso ebete o broncio da cane da compagnia - nell'un caso e nell'altro, pura appendice maschile, oggettivazione brutale del suo desiderio sessuale o della sua volontà di potenza.
Certo, la battaglia di Lebert difficilmente riuscirà a superare i confini della Germania, Paese piuttosto impermeabile ai richiami suadenti delle sirene della moda: secondo Sue Evans, redattrice di lungo corso delle passerelle per il sito specializzato Worth Global Style Network, citata dal Times, "non esiste un marchio di abbigliamento tedesco veramente originale. Per lo più si tratta di roba scialba 'da mamma', di capi prodotti per signore di mezza età" - giudizio ingeneroso, su cui indubitabilmente pesa il consolidato pregiudizio che vuole i tedeschi rigorosi, rigidi ed ineleganti. Né si può dire che la voce di Brigitte, un periodico la cui lettrice media ha un'età vicina ai cinquanta, sia una testata femminile presa molto sul serio fuori dai confini del paese in cui viene pubblicata.
Come se non bastasse, l'iniziativa di Brigitte è stata ridicolizzata da Karl Lagerfeld, il “mitico” direttore artistico delle maison Chanel e Fendi: in modo non sorprendente, il settantaseienne stilista e fotografo tedesco, nonché convinto partigiano dello sterminio degli animali "da pelliccia", ha commentato l'iniziativa con una dichiarazione sgradevole quanto qualunquistica: "Brigitte è diventato ostaggio delle sue lettrici - madri grasse sedute davanti alla TV con un pacchetto di patatine fritte che blaterano su quanto siano brutte le modelle". E' quanto meno ironico sentire discettare di bellezza uno come Lagerfeld, una mummia grottesca - oltretutto vestita in modo ridicolo - uno che è stato capace di perdere oltre 40 chili di peso corporeo in poco più di un anno non per motivi di salute, ma per soddisfare la sua irresistibile voglia di "vestire abiti disegnati da Hedi Slimane".
Eppure, a dispetto dello scetticismo se non dell'aperta ostilità del mondo della moda, la scommessa di Lebert sta pagando: il primo numero del "nuovo corso" di Brigitte ha venduto quasi ottocentomila copie (+6,4%); oltre 10.000 lettori si sono fatti vivi con la redazione inviando lettere o email entusiaste. Resta un neo: nonostante i proclami iniziali, anche se le donne di bellezza normale sono finalmente uscite qualche ora da uffici locali ospedali e case per vestire i panni delle fotomodelle, finora sulle pagine di Brigitte non sono state avvistate bellezze “rotonde”. Un esito deludente, che taglia un po' le unghie al claim militante della "vera bellezza": le statistiche, infatti, dicono che la donna media tedesca (come del resto quella inglese) negli ultimi anni ha messo su qualche chiletto.
Da questo punto di vista, la marca di cosmetici Dove del gruppo Unilever (non a caso inserzionista di peso di Brigitte) dimostrò una certa audacia commerciale con una campagna lanciata ormai 5 anni fa, chiamata "per la bellezza autentica". In essa figuravano sei donne normali, alcune gradevolmente soprappeso, in abbigliamento intimo ordinario: un messaggio pubblicitario ironico, intelligente e gradevole, con l'ulteriore vantaggio di contenere i germi di una campagna sociale, il cui fiore all'occhiello è un "Fondo Dove per l'autostima" con l'ambizioso obiettivo di contribuire "a liberare la generazione futura dagli stereotipi di bellezza autolimitanti."
Quando il messaggio commerciale e quello sociale sono così intimamente intrecciati è molto difficile confidare nella buona fede degli estensori. E’ lecito (e doveroso) domandarsi - come fa la Evans - se Brigitte non stia in realtà sostituendo uno stereotipo con un altro, o se la Unilever non stia semplicemente cercando di vendere qualche saponetta in più. Ma è sempre un fatto positivo quando il potere dei media viene usato (anche) per contrastare le perversioni più crasse e mortificanti della società dei consumi.
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di Alessandro Iacuelli
C'era una volta un'azienda cinese di elettronica, la Shenzhen Great Loong Brother Industrial, che era però un'azienda un po' diversa dalle centinaia di migliaia di fabbriche cinesi che oramai abbiamo imparato a conoscere. Infatti, mentre queste ultime si dedicano al copiare i prodotti occidentali, da quelli tessili a quelli ad alta tecnologia, e a riprodurli su grande scala a prezzi ridottissimi, la Shenzhen è una delle poche che pensa a prodotti nuovi, realmente innovativi, con i quali tenta d’invadere il mercato mondiale. Certo, sempre d’invasione si tratta, e la politica economica cinese è tutta qui, ma alla Shenzhen non hanno mai voluto copiare i prodotti occidentali e, con il fior fiore d’ingegneri che hanno a disposizione, non molto tempo fa pensarono a qualcosa di assolutamente innovativo. Costruirono un apparecchio, un gioiellino tecnologico, che chiamarono P88. Di certo un nome che è solo una sigla e non uno di quei nomi destinati a rimanere nella memoria degli acquirenti di consumer electronic, affamati di tecnologia.
Così, nel 2009, il capitano dell'azienda, l'ingegnere Huang Xiaofang, presentò il prodotto all'Internationale Funkausstellung, fiera internazionale dell'elettronica di Berlino. Il prodotto piacque a molti e qualcuno si mostrò interessato ad importarlo in Europa, anche perché era la prima volta che i cinesi non proponevano la scopiazzatura di un prodotto occidentale. Nel frattempo, oramai da sei mesi, il P88 è in vendita in tutta la Cina. Con buoni risultati. Ma cosa fa il P88? Cos’é?
Non è un telefono, non è un computer portatile, ma ci si avvicina molto. E' più grande di un palmare, ha all'incirca le dimensioni di un lettore di e-books, ma ha di più: è touch screen, con tanto di tastiera che appare sullo schermo, si connette a internet, permette la navigazione, la visione di filmati, l'ascolto di musica e la lettura di documenti. Insomma, non ha le capacità di calcolo di un computer, non ha le caratteristiche di un I-Phone, poiché non è stato pensato per essere un telefono, ma si tiene in mano, ha uno schermo a colori leggibile e permette di navigare in rete. Mica poco.
Un lettore un po' superficiale potrebbe a questo punto esclamare che questa descrizione assomiglia molto a quella dell'iPad, il tablet presentato a San Francisco da Steve Jobs, come prodotto rivoluzionario di casa Apple. In realtà le differenze ci sono, nel bene e nel male. Anche l'iPad si tiene in mano, ma pesa decisamente meno di un P-88 marchiato Shenzhen, e per un dispositivo portatile il peso è molto importante. La batteria dell'iPad durerebbe, secondo le dichiarazioni di Apple, (forse un po' esagerate perché si tratterebbe di un vero record) 10 ore, contro l'ora e mezza del P88, ed anche questo è una caratteristica cruciale per un prodotto portatile. Di contro, il P88 ha uno schermo più grande, il che è una delle cause del maggiore peso, ha molta più memoria dell'iPad ed è dotato di porte USB, che invece il tablet californiano non ha. Infine c'è il design e, com’è noto, Apple è l'unica azienda elettronica che mette il design tra i suoi principali obiettivi.
Per tutto il resto, software, caratteristiche, e soprattutto per cosa fa il tablet, l'iPad è la copia, migliorata negli aspetti visti sopra, del cinesino P88. La palese copia è stata sottolineata, con spunti umoristici notevoli, dal blog cinese Shanzai.com, dedicato alle copie tecnologiche, che ha ironizzato sulla neo acquisita capacità della Apple: clonare nuovi prodotti già fatti dai cinesi.
In realtà, mettendo da parte le facili ironie, l'iPad della Apple rappresenta una doppia svolta epocale, e sarà ricordato come un momento topico della storia dell'elettronica di consumo. Doppia svolta, perché i cambiamenti di direzione sono due. Il primo nasce dall'ormai decennale confronto nel mondo dell'informatica di consumo. Una vecchia barzelletta metteva a confronto, a bordo di un treno, un gruppo d’ingegneri della Apple con un gruppo di ingegneri di Microsoft. Nella barzelletta, originata da ragionamenti sul come risparmiare sul prezzo del biglietto ferroviario, si va a finire alla morale della favola; cioè che Apple aveva le idee innovative, i veri lampi di genio, e Microsoft si limitava a copiarne le idee e tentare di migliorarle. La storia dell'informatica di consumo è davvero racchiusa in questa barzelletta, con la differenza che nella realtà non sempre Microsoft è davvero riuscita a migliorare le idee di Apple, e i malfunzionamenti di Windows ne sono la prova sotto gli occhi di tutti.
Il cambio epocale è che adesso, per la prima volta, Apple si è allineata con Microsoft: una volta visto il P88 Shenzhen alla fiera internazionale di Berlino, gli ingegneri di Steve Jobs a Cupertino hanno accantonato l'idea di fare un prodotto innovativo: hanno preferito copiare il P88 e migliorarlo nel peso, nelle dimensioni, nel design, e soprattutto contando sul marchio Apple e sul grande numero di suoi estimatori, pronti ad acquistarlo anche per la sola soddisfazione di possedere un nuovo gioiellino tecnlogico. Marchiato Apple naturalmente, perché nell'immaginario dell'acquirente medio non è la stessa cosa se è marchiato Shenzhen.
La seconda svolta epocale è di tipo industriale e potrebbe avere risvolti economici imprevedibili: per la prima volta è l'America che copia un prodotto cinese e, sfruttando la presenza sul mercato, impone il prodotto surclassando la concorrenza, anche se la concorrenza è rappresentata dall'inventore in persona. Scenario già visto, ma di solito sempre al contrario: europei, americani e giapponesi che presentavano nuovi prodotti e, sei mesi dopo, arrivava sul mercato la copia cinese a costo dimezzato. Un'inversione di tendenza mai vista, questa dell'iPad. Una svolta effettivamente epocale, visto che ora sono i cinesi ad essere copiati.
Per il resto, il tablet è per l'appunto un gadget tecnologico. Per cui più che utile è dilettevole. Non è un telefono, non è stato pensato per esserlo, e d'altronde in un'epoca in cui la telefonia è sempre più miniaturizzata non avrebbe senso usare come telefono un tablet così grande. Leggero (appena 680 grammi), con un prezzo a partire da 499 dollari. E' pensato per la multimedialità, per cui è più simile ad un iPod touch che a un telefono. I modelli più costosi dell'iPad dispongono di un dispositivo Umts/Hsdpa: serve solo per navigare sul Web poiché non è previsto alcun supporto per la voce.
Non è un computer. Tanto per capirci, non ha il multitasking, per cui si può fare una sola cosa alla volta, si può aprire una sola applicazione e, per aprirne una seconda, si deve chiudere la prima. Mentre sull'iPhone il multitasking è disabilitato per ragioni di carico di lavoro sul processore e di consumo energetico, l'iPad ha un hardware più potente che permetterebbe il multitasking. Alla presentazione del prodotto, Steve Jobs non ha fornito alcuna spiegazione per questa grave lacuna. Peccato, visto che il P88 cinese permette il multitasking. Anche in questo, si vede la svolta epocale: il prodotto di Apple è migliorabile, ma in perfetto stile Microsoft (o in perfetto stile da copia cinese) è già stato presentato e nell'arco di pochi mesi sarà messo sul mercato.
Sull'utilità, c'è ben poco da dire: l'iPad è bello da vedere, sarà sicuramente divertente da utilizzare come novità, per gli appassionati sarà appagante possederlo, ma è un surrogato semplificato del computer, pertanto sarà davvero utile per chi vuole usare internet ma non vuole un computer.
Già. Usare internet senza computer. Stava in questo l'idea davvero geniale e innovativa di Huang Xiaofang, da Shenzhen. Purtroppo per lui, passerà alla storia come l'ennesima idea geniale e innovativa di Steve Jobs. Uno "scippo" che ci saremmo aspettati più da Bill Gates, a dire il vero. Qualche analista economico d'oltreoceano già dice che è la giusta rivalsa per tutte le volte che i cinesi ci hanno copiati.
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di Rosa Ana De Santis
Lo sfogo estremo di Salvatore Crisafulli e della sua famiglia ha portato nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica la relazione controversa e densa di dubbi tra la sofferenza estrema e la morte. Forse però nel modo sbagliato; anzi, nel peggiore dei modi. Nei giorni del caso Englaro, la famiglia Crisafulli si era spesa nel rivendicare la piena dignità di esistenze tormentate e difficili come quelle del giovane Salvatore, rimasto inerme e bisognoso di continua assistenza in un risveglio forse troppo “usato” e abusato dai suo familiari. Speso come "anti-Welby" e come icona alternativa alla scelta di Eluana; oggi, attraverso la voce dei propri congiunti, per la mancanza di un’adeguata assistenza sanitaria, annuncia, così pare, di voler morire.
Il governo si è subito mosso per verificare se a parlare fosse davvero la volontà del paziente o, piuttosto, l’esasperazione di una famiglia in lotta da anni per il suo completo risveglio. Il presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Sistema Sanitario nazionale, Ignazio Marino, ha avviato un’istruttoria sul caso. La Regione Sicilia e il Comune di Catania, nel frattempo, rivendicano l’adeguatezza dell’assistenza sanitaria riservata a Salvatore Crisafulli, ma la famiglia chiede finanziamenti per un piano assistenziale domiciliare e non presso strutture esterne. Convinti dal vescovo di Catania, hanno rimandato per ora il viaggio a dopo i festeggiamenti della patrona della città. Per non turbare l’atmosfera della ricorrenza.
Il viaggio della morte in Belgio rimane comunque in agenda, senza date confermate. Pronto ad essere cancellato se la famiglia otterrà le risposte che attende. Un progetto di assistenza 24h su 24, coordinato e mirato; un’assistenza che non sia di base, ma finalizzata al miglioramento delle condizioni generali di un paziente così giovane. Resta da chiarire, rispetto alle attese dei familiari, quali siano i reali margini di miglioramento di un paziente con una grave cerebrolesione acquisita e, soprattutto, pur accogliendo tutta la rabbia di una famiglia così travolta dal dolore, quanto sia disonesto e pericoloso usare in questi termini la minaccia dell’eutanasia. Disonesto per tutti coloro che una vita come quella di Salvatore non la vogliono, nonostante la migliore assistenza sanitaria, tutti coloro che il governo prenderà in carico di salvare ad ogni costo, come minaccia di fare con la legge ancora in aula.
La scelta della famiglia Crisafulli rappresenta il modo peggiore di parlare dell’eutanasia, soprattutto ad una popolazione così imbavagliata dal senso di colpa e dal bigottismo di costume come quella italiana. Non c’è traccia di quella dignità, di quel fiero atto di libertà e di proprietà indiscutibile sulla propria vita, che ha alimentato per anni la battaglia della giovanissima Eluana. Qui l’invocazione della morte non ha la dignità di una scelta, ma le sembianze di un abbandono, di una resa, di una cieca disperazione. Nulla che possa aiutarci ad avvicinarci con pudore e rispetto alla scelta di chi non vede senso in certe forme di sopravvivenza, attraversate dal dolore come condizione cronica e dall’irreversibilità come orizzonte di senso.
L’auspicio è che questa storia e questo atto di rivolta non veicoli, come sempre è accaduto, un modo sbagliato e mediocre di accostarsi a scelte come quelle di Eluana. E’ lo stesso tipo di approccio che fa credere agli obiettori dell’aborto, ai credenti e a quanti faticano a mettere al centro l’individuo, che offrire alle donne aiuti sociali e psicologici sia l’antidoto per evitare l’aborto. Come se la scelta non avesse a che fare con la libertà individuale e con la proiezione del desiderio personale, ma fosse interamente riassorbibile nelle ragioni della collettività e del sociale. Perché sia, invece che una scelta libera e consapevole, un atto imposto dalla morale ufficiale, che usa i pulpiti e le scomuniche, non sapendo più ascoltare e capire.
Lo sfogo della famiglia Crisafulli rischia di alterare il messaggio di rottura e di coraggio che la famiglia Englaro, assecondando il desiderio della giovane figlia, si è fatta carico di portare allo Stato Italiano e ai legislatori. L’idea che l’eutanasia sia la ratio della disperazione alla mancanza o alla lentezza di risposte pubbliche e istituzionali significa non soltanto azzerare il valore della volontà individuale, ma svilire il significato della morte e restituire tutto il valore del singolo allo Stato.
Così se le parole della famiglia di Crisafulli sono strumentali, come ci auguriamo, al raggiungimento di condizioni migliori per la vita di Salvatore, l’auspicio è che quel viaggio rimandato non sia più invocato di fronte alla stampa e all’opinione pubblica come argomento del terrore. Un modo per contaminare di significati sbagliati la storia di Welby o di Eluana verso cui la famiglia Crisafulli ha sempre rivendicato con forza le ragioni della vita e la speranza del risveglio. Un prestigio di parole e di significati che a tutti toglierà un po’ di libertà.
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di Rosa Ana De Santis
Senza un nome e senza una storia, più intimoriti di prima e ancora più schiavi, alcuni di quegli africani cacciati e allocati nei centri di espulsione, stanno tornando a Rosarno. A lavorare sui nostri campi. Manodopera preziosa e quasi gratuita per i caporali italiani. A raccontarlo al Redattore Sociale è un giovane ragazzo ghanese, in Italia da due anni, anche lui, come tanti, sbarcato a Lampedusa dopo una fuga dal proprio paese per motivi umanitari.
La notizia di Rosarno è sparita, scivolata via in nevrotica fretta dalla tv e dalla stampa. Il Ministro dell’Interno ha suggellato i nobili sentimenti di casa nostra regalando l’asilo politico come gentile concessione del potere ai feriti degli scontri e tutto sembra tornato al proprio posto. Lo ha fatto in prima serata, per riparare in modo efficace le colpe e le responsabilità che gravavano sull’Italia dopo le cronache apparse sulla stampa straniera sui fatti di Rosarno. Ma, dietro la parata del perdono, lo scenario è lo stesso. I braccianti neri sono in viaggio verso la piana delle clementine. Molti di loro vengono da Castel Volturno, dove si sono rifugiati nella diaspora che li ha cancellati e dispersi dalla terra in cui lavoravano anche da dieci anni.
L’indigenza delle condizioni di vita li costringe ad accettare uno sfruttamento e una violenza ancora peggiore di quella che ha scatenato la rivolta. La cronaca ha omesso troppo spesso che molti di loro sono in possesso di regolare permesso di soggiorno. Anche i regolari che tanto piacciono a questo governo non riescono a trovare un alloggio dignitoso, né un’occupazione. Anche quelli che non sono clandestini cadono vittime della malavita. Le ‘ndrine li chiamano, li reclutano a sfregio dei documenti, sanno dove trovarli. E il governo invece? Non vede. Non vede i clandestini quando sono sfruttati, né i regolari, non li protegge, non vede nemmeno gli enormi capannoni che solo ora si accinge a smantellare.
Il testimone ghanese che ha raccontato l’invisibile ritorno degli africani a Rosarno ha chiesto aiuto ai centri di assistenza, alle associazioni, ai centri di raccolta. E’ finito a dormire alla stazione Termini di Roma, nella folla scomposta di disperati e clochard che disturbano la visuale degli italiani. La sorte non sarà molto diversa per i duemila braccianti agricoli stagionali, vitali per l’economia del sud Italia. Fantasmi nei centri di raccolta o per strada, oppure schiavi dei padroni italiani. Ma non era la clandestinità l’unica causa di questi abusi e di episodi fuori controllo come quello della rivolta?
Magari non ci fosse il ritorno a Rosarno. Magari le braccia degli schiavi si fermassero all’improvviso. Magari nessuna rivolta fornisse più argomenti alla parabola dell’irriconoscenza. Sarebbe difficile, allora trovare altri capri espiatori per la terra sterile affidata alle mafie, per gli italiani indisponibili a lavorare come gli stranieri sui nostri campi o nelle case dei nostri anziani. E chissà quanti permessi di soggiorno regalerebbe Berlusconi per il prossimo Natale. Magari insieme alle clementine.