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di mazzetta
Al Festival di Sanremo arriva un’ospite particolare: la regina Rania di Giordania. Una scelta curiosa per un festival della canzone che cerca di attirare l'attenzione di un pubblico più vasto possibile, attingendo al capace cesto nazionale e internazionale dei personaggi in cerca d'autore che nulla hanno a che vedere con la musica. La presenza della regina di Giordania è però più interessante di quella del principino cantante in gara o di quella di altri ospiti, perché la sua figura è il paradigma vivente della distorsione della realtà da parte della società spettacolare.
Era già accaduto con Diana Spencer e con la saga della famiglia Grimaldi, che la rappresentazione di gesta o fatti personali sovrastasse quella dei rispettivi paesi; ci sono stati anni nei quali la cronaca estera italiana è stata dedicata per più della metà alle loro vicende, senza che la cosa suscitasse particolare scandalo Anche l'immagine di un grande e vicino paese come la Gran Bretagna si è sfumata alle spalle del protagonismo mediatico di Lady Diana.
In tutto il mondo le notizie dall'estero hanno un'audience molto più modesta di quelle sul gossip e sulle avventure dei vip e i media inseguono da anni la tendenza auto-alimentandola al ribasso; un fenomeno noto e molto più vasto, che negli anni ha devastato l'informazione trasformandola in infotainment. Il nostro paese è uno dei meno attenti alla politica estera, a chi se ne occupa si chiedono esercizi di colore e, occasionalmente, di allinearsi quando un evento in un paese lontano può essere strumentalizzato in chiave di politica interna. Evento fortunatamente raro, la nostra classe politica ha così poco interesse e conoscenza su quello che accade oltre frontiera, da non interessarsene mai, il noto deputato colto a confondere il Fast Food con il Darfur rappresenta davvero la triste media italiana.
Così Rania è diventata sua volta l'immagine della Giordania. Fa sensazione che la regina di un paese “islamico” si muova nel jet-set come un'occidentale, che usi Facebook e YouTube, che promuova cause nobili in autonomia dal marito, che non appare quasi mai accanto a lei in queste sue proiezioni mediatiche. Fa sensazione soprattutto in coloro che negli ultimi anni hanno maturato un'idea monolitica dei paesi islamici, anche a seguito della martellante propaganda che ha voluto identificare nell'islamico il nuovo nemico d'elezione per raccogliere il consenso necessario alla War o Terror e a strumentalizzazioni razziste non meno bieche. Una riservatezza giustificata quella di Abdllah, vedendolo qualcuno potrebbe chiedersi che faccia, come governi, che tipo di re sia il consorte di una signora tanto progressista e glamour.
Abdallah figlio di Hussein di Giordania ha ereditato un paese che è un vaso di coccio tra vasi di ferro, essendo un paese povero di risorse, in condizione d'inferiorità militare nei confronti di tutti i vicini, con una maggioranza interna palestinese e un buon numero di profughi iracheni. Un discreto rompicapo che il vecchio re teneva insieme d'autorità e che il figlio non ha ancora trovato il modo di gestire diversamente. Non che non ci abbiano, padre e figlio, provato sul serio: il Parlamento giordano è vagamente rappresentativo e dotato di poteri deboli al confronto di quelli del re e del governo; la sua composizione è stata una gentile concessione alle pressioni esterne più che una genuina cessione e condivisione di poteri.
Il Parlamento deve comunque votare le leggi e, visto che non voleva votare le leggi fortemente volute da Abdallah, è stato sciolto a novembre scorso, decidendo che le prossime elezioni si terranno dopo che il re avrà varato le riforme desiderate. La democrazia formale giordana è poca cosa e se Abdallah, attento all'immagine come la moglie, ha addirittura ammesso al voto il partito islamico che s'ispira ai temutissimi Fratelli Musulmani, qualcuno nel 2007 si è incaricato di deprimere il loro risultato elettorale dopo che alla prima uscita avevano riscosso troppo successo, pur rimanendo una minoranza modesta.
Ma lo scioglimento del parlamento ha poco che fare con gli islamici cattivi e molto con l'economia che zoppica, per risollevare la quale Abdallah ha in mente una bella cura liberista e l'apertura delle miniere d'uranio del paese agli investimenti internazionali. L'interesse dell'informazione per la situazione giordana nel nostro paese è prossimo allo zero, in particolare oggi che Abdallah è un sicuro amico dell'Occidente. Nonostante la Giordania sia sicuramente un importante tassello del puzzle mediorientale, quasi tutti i media hanno sorvolato.
Abdallah vive tempi relativamente tranquilli a livello internazionale, perché la frattura tra i palestinesi e l'abbandonarsi di Fatah alle iniziative del Dipartimento di Stato Usa, gli hanno permesso di sdraiarsi sulla politica statunitense senza temere particolari critiche da parte palestinese o dalla grande famiglia delle autocrazie mediorientali, tutte velocemente allineate a Washington dopo il 2001, ottenendo in cambio il totale disinteresse statunitense ai loro affari interni e l'esclusione dalla lista dei paesi “poco democratici”. Disinteresse che hanno tutte messo a frutto consolidando il proprio potere con la repressione.
Paesi ai quali per anni l'amministrazione Clinton e il FMI avevano vanamente chiesto riforme e passi avanti verso una maggiore democrazia. Dall'Egitto alla Siria, dalla Giordania all'Arabia Saudita, fino alla Libia, alla Tunisia e al Marocco, dopo il 2001 le “famiglie regnanti” di questi paesi si sono ulteriormente rafforzate e gli spazi democratici interni si sono compressi.
Ma tutto questo Sanremo non lo sa e non lo dice: la rassegna canora ospita la regina scintillante del reuccio mediorientale, che viene a promuovere l'immagine spettacolare di un paese che da noi già vende benissimo, visto che gli italiani sono al quarto posto tra i turisti che visitano la Giordania. Racconterà dal palco come si fa a catturare e sedurre un principe, evitando accuratamente di riferire come se la cava il principe una volta diventato re o sulle condizioni di vita dei suoi sudditi, così come eviterà qualsiasi riferimento al conflitto mediorientale o al dramma dei palestinesi.
Non sta bene, non sono argomenti da Sanremo, che si trova a disagio nel confrontarsi con le realtà sgradevoli: lo si è visto in passato, quando Bonolis sollecitò la colletta per i bambini del Darfur tra cantanti e produttori presenti al festival. Tra tutti, solo il povero Povia aprì il borsellino. Lo spettacolo ha le sue leggi e solo in questa veste Rania e la Giordania possono conquistare qualche minuto sul palcoscenico di Sanremo e qualche servizievole servizio sui media.
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di Giovanni Cecini
Nel giorno in cui cade il 18° anniversario del primo arresto di Mani Pulite, sembra che l’Italia possa rivivere giorni come quelli, nei quali una classe politica collassava per effetto della montagna di illeciti commessi in ogni comparto della scena pubblica del Paese. Gli scandali sessuali condiscono con un po’ di pepe l’appetito dei gossippari, ma la realtà è ben diversa per chi sa osservare il fenomeno tale e quale è: il persistere di attività illecite nel comparto della pubblica amministrazione, dove concussione, corruzione, abuso d’ufficio e favoritismi di ogni specie sono solo i più lampanti tra i reati mai spariti tra i capi d’imputazione degli amministratori e dei politici italici.
Si sperava che Tangentopoli avesse insegnato qualcosa o quanto meno avesse permesso agli italiani di comprendere a fondo quanto di rivoltante ci sia nell’approfittarsi della cosa pubblica. Per fortuna - e forse anche cosa palese - gli onesti sono sempre maggioranza, anche perché altrimenti i disonesti non saprebbero a chi rubare. Tuttavia, attanagliata in ciascuno di noi c’è sempre l’ombra di una possibile attività illegale. A urlarne la presenza sono due fonti abbastanza autorevoli e differenti tra loro, tanto da dover far suonare più di un campanello d’allarme per coloro che si ostinano a credere che in fondo in fondo quella telefonata al potente di turno è fatta a fin di bene, senza nuocere a nessuno.
Sulle colonne del Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia invita a meditare sull’attitudine disonesta dei connazionale, imbevuti di un familismo amorale che si accresce di generazione in generazione, senza scampo a possibili ripensamenti o pentimenti. Da un pulpito diverso, questa volta da un ente censore per antonomasia, come quello della Corte dei Conti, proprio in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario il grido di allarme tocca le stesse corde. Anche qui lo scenario è tutt’altro che rassicurante, se viene indicata come manchevole la stessa Pubblica Amministrazione perché impreparata a combattere le tante piaghe insite nel suo tessuto connettivo.
Forse anche per effetto della gigantesca burocrazia interna ed esterna il cittadino onesto perisce nel mare magno di bolli e scartoffie, mentre il disonesto alla fine non ha troppi problemi a raggiungere il suo basso scopo, perché sa oliare le ruote giuste del farraginoso congegno statale o parastatale. Al cospetto del furfante lo Stato non sa essere inflessibile e drastico, mentre il cittadino perbene, che segue le tortuose regole molto spesso ne è vittima, perché le trova ostiche e illogiche. Va da sé che il cerchio si chiude, proprio perché la morale della favola è che solo seguendo l’illecito si vive e si procede nel proprio cammino, tanto che la raccomandazione, la spintarella e ogni altra possibile diavoleria, per dare corso alla propria attività, diviene cosa quotidiana, normale o addirittura corretta, perché svolta per necessità di sopravvivenza.
Ecco quindi il proliferare di atti o fatti quotidiani dell’italiano qualunque che solo apparentemente non danno adito a irregolarità, ma che sommati tra di loro rendono le casse dello Stato o degli Enti locali più povere e mettono in soffitta il bene pubblico. Chi non ricorre all’amico che lavora in quel determinato ufficio o che intesta la casa al mare alla figlia per un personalissimo e quindi egoistico interesse, è uno sciocco che crede ancora al senso civico e al rispetto per le istituzioni come valori un po’ come i fanciulli con Babbo Natale.
In Italia si vive molto spesso così, non ci si può nascondere dietro un dito; ed è proprio per questo motivo che alcune piaghe congenite nel fare popolare sono immuni da qualsiasi possibile anticorpo, di cui hanno accennato le relazioni alla Corte dei Conti. Quest’ultima ha rivolto l’indice contro tutti quei settori dove si controlla poco e male, fonti prime di guasti all’intero sistema-paese. In risalto è quindi emersa la ricorrente nociva attività dei lavori pubblici e della mala sanità, dove tra sprechi, opere inutili e interventi non necessari, si rosicchia gran parte dei bilanci nazionali, senza un vero perché al di fuori di riempire le tasche dei cacciatori di commesse e di quella fetta di politici spregiudicati, che rappresentano nelle sedi preposte solo il peggio dell’italiano medio.
La risposta a tutto questo non è semplice né immediata, tanto che la rivoluzione dovrebbe partire dal basso, per far tornare nei suoi propri binari la correttezza e la moralità. L’astenersi dal fumare dove non si può, evitare di parcheggiare in doppia fila, fare la raccolta differenziata, non copiare un compito a scuola, sembrano piccoli gesti, ma rappresentano anche il minimo germe che può fare la differenza. Via via offrirebbero senso a quel principio per il quale ci si prepara meglio a un concorso, sperando nelle proprie capacità senza aiuto della grazia ricevuta o nel garantire un progetto impeccabile, utile ed economico sotto ogni punto di vista, rispetto agli scandali colossali di cui siamo pieni.
L’Italia si candida agli Europei del 2016 e Roma alle Olimpiadi del 2020? C’è già chi pregusta le commesse, mentre altri tremano solo all’idea di ripetere gli scempi e le brutture di quel che fu Italia ’90 e i recenti Mondiali di nuoto con le loro colossali mostruosità. La speranza è e rimane sempre che il senso di sdegno venga percepito e possa mutare gli animi, perché altrimenti si continuerà imperterriti nel crogiolarsi di fronte ai vizi altrui, senza dare peso alle tante e pesanti leggerezze di cui siamo, narcotizzati dal sistema, artefici.
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di Mariavittoria Orsolato
Che l’Italia sia uno dei campioni del cattolicesimo lo dicono i numeri e lo testimonia al meglio quella Città del Vaticano che da due millenni ci portiamo in seno alla capitale. Che però l’affezione alla chiesa non sia più quella dei tempi d’oro, lo si vede dai banchi vuoti che ogni domenica spogliano le navate di quella che è l’esperienza topica del cristiano, ovvero la messa. Le ragioni di questo fenomeno sono legate all’inevitabile evoluzione della società e dei costumi, alla discordanza di pensiero riguardo a temi civili ed etici o al semplice disinteresse: essere laici, atei o agnostici è sempre stata più che altro una scelta personale, che all’atto pratico non implica conversioni formali come nei casi di affiliazione ad un’altra religione.
Per tutte queste persone i sacramenti impartiti durante l’infanzia sono più che altro ricordi di enormi abbuffate, parenti e regali e non rivestono più il significato originario di missione apostolica e comunione con Dio. Nonostante ciò, tutti coloro che pur non praticando sono stati battezzati, risultano nei registri vescovili, vengono perciò computati in quel 96% di popolazione cattolica e, secondo il Catechismo Ufficiale della Chiesa “non appartengono più a se stessi […] perciò sono chiamati […] a essere obbedienti e sottomessi ai capi della Chiesa”.
Vista da quest’ultima prospettiva, l’appartenenza alla confessione cattolica è un legame inscindibile con un’autorità che per quanto sia di matrice morale ha un’innegabile margine di azione temporale.
Per questo da circa vent’anni l’UAAR (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti, di cui è presidente onorario l’astrofisica Margherita Hack) sta promuovendo iniziative volte a promuovere la non aconfessionalità dello Stato e delle sue istituzioni, arrivando ad ingaggiare una battaglia legale con il Vaticano per il riconoscimento formale della volontà di uscire dalla Chiesa cattolica.
Nel 1995, dopo aver ottenuto solo risposte evasive dalle autorità ecclesiastiche, gli azionisti dell’UAAR lanciavano un appello a Stefano Rodotà, allora garante per la tutela della privacy, in cui chiedevano espressamente di intervenire nei confronti delle parrocchie refrattarie alla cancellazione del battesimo. Dopo 4 anni, nel 1999 arriva la risposta del garante che, pur riconoscendo il fatto che il battesimo è incancellabile in quanto fonte di un fatto storicamente avvenuto, decreta la possibilità di far annotare la personale volontà di apostasia e di non essere quindi più formalmente “figli della chiesa”. Da quel momento in poi, l’UAAR ha mobilitato una campagna permanente per informare sulla pratica dello sbattezzo e combattere quel nicodemismo così diffuso entro i nostri confini geografici.
Il meccanismo codificato dalla giurisprudenza canonica e statale è di una semplicità estrema: è necessario conoscere la parrocchia nella quale si è ricevuto il battesimo ed inoltrarle una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui si esplicita la propria volontà di uscire formalmente dalla Chiesa cattolica - è inoltre possibile scaricare i moduli dal sito http://www.uaar.it/laicita/sbattezzo. Entro 15 giorni il parroco è tenuto per legge a rispondere con una lettera in cui conferma di aver annotato sull'atto di battesimo e/o sul registro dei battezzati quanto richiesto dallo “sbattezzando”. Una volta avvenuto l’atto formale, questo comporta per il richiedente l’esclusione da tutti i sacramenti, l’impossibilità di fungere da padrino o madrina e la privazione delle esequie ecclesiastiche qualora non ci sia stato un pentimento previo alla morte.
Ad oggi non sono ancora disponibili le cifre esatte sulla diffusione del fenomeno e in molti hanno già bollato questa rivendicazione come una goliardata anticlericale-anarchico-comunista ma la pratica dell’apostasia significa soprattutto rivendicare la propria identità. Pensiamo infatti a tutti quei gruppi di persone che vengono ben poco velatamente osteggiati dalle istituzioni vaticane, come gli omosessuali, le donne e il loro corpo, i conviventi, i divorziati: per questi soggetti il battesimo è un’incongruenza riscontrabile in ogni pronunciamento dottrinale e in tutte quelle chiusure dogmatiche che impediscono ogni tipo di partecipazione attiva alla comunità cristiana.
Sbattezzarsi è anche una presa di posizione politica di fronte agli atteggiamenti d’ingerenza cui il papa ed i vescovi ci hanno abituato: dalla condanna del profilattico espressa un anno da fa da Benedetto XVI, alle vere e proprie dichiarazioni di guerra che hanno interessato il referendum sulla legge 40 sono molti gli esempi in cui buona parte della popolazione italiana, pur essendo battezzata, ha intimamente o attivamente dissentito dai dettami di San Pietro.
Qui non si vuol certo fare l’apologia dello sbattezzo, ognuno ha il diritto di credere in ciò che gli è più congeniale e di comportarsi di conseguenza. Certo è, però, che secondo la sentenza della Corte Costituzionale n. 239/84, l’adesione a una qualsiasi comunità religiosa deve essere basata sulla volontà della persona ed è molto difficile che questa possa essere riscontrata nei bambini dai 3 ai 5 mesi; se a questo si aggiunge che per la legge 196/2003, l’appartenenza religiosa è considerata un dato personale sensibile - esattamente come l’appartenenza sindacale e politica, la vita sessuale e l’anamnesi medica - ben si capirà come mai oggi l’apostasia formale sia un esigenza sempre più sentita.
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di Rosa Ana De Santis
La storia di Stefano Cucchi ha sempre di più i contorni di una vicenda cupa, occultata nell’omertà colpevole delle istituzioni coinvolte. L’indagine per la verità va avanti e dalla vetrina del TG1 è finalmente riapparsa la lettera che era stata sottratta, lettera che Stefano ha scritto la sera prima di morire. A leggerla è Ilaria, la sorella, che con parole misurate e toni pacati lancia argomenti e riflessioni che pesano come pietre. In quelle poche righe, scritte con uno stampatello incerto, c’è una richiesta di aiuto, indirizzata a uno degli operatori della comunità CEIS presso cui era in cura, Stefano racconta lo sconforto e lo smarrimento, fino all’ultima preghiera: “Rispondimi”. Quella lettera non è mai arrivata ed è stata sottratta dalla scatola degli effetti personali consegnata alla famiglia.
Le discordanze tra il primo verbale redatto dalla polizia giudiziaria e la lista apposta sulla scatola ritirata da Regina Coeli, tra mille difficoltà ha portato al riscontro dell’ennesima anomalia. La lettera di Stefano appare e scompare. Perché - questa la paura - con quelle parole diventa impossibile difendere la tesi del paziente silenzioso, del detenuto ribelle, del figlio e del fratello che non vuole e non ha bisogno del conforto e della vicinanza dei propri affetti familiari. E’ stata la testimonianza di una vice sovrintendente della Polizia Penitenziaria ad aver permesso di scoprire che la lettera misteriosa esisteva, che non era mai stata recapitata alla Comunità e che la famiglia - questo dicono i tentativi di farla sparire - non doveva leggerla.
Diventa sempre più grave la posizione dei sanitari dell’Ospedale Pertini. Oltre all’ipotesi accusatoria sulla manomissione delle cartelle cliniche del paziente scomodo, si aggiunge la conferma di un altro tassello finora solo ipotizzato. E’ stato impedito a Stefano Cucchi di avere qualsiasi contatto con l’esterno, di chiedere aiuto e, probabilmente, questo il vero timore del braccio della giustizia che ha dato disposizioni ai medici coinvolti, di poter raccontare chi l’avesse ridotto quasi immobile su un lettino. Così quella famiglia lasciata davanti ad un portone ad attendere autorizzazioni fantasiose non sembra più un’assurdità o un errore di burocrazia e disorganizzazione di poteri e competenze, come volevano farci credere. Il piano è stato perfetto, il meccanismo degli effetti - raccontati come collaterali - ben congegnato. Stefano doveva morire. Nulla bisognava tentare per salvarlo.
Presto la commissione presieduta da Ignazio Marino depositerà la propria relazione al Presidente del Senato. Nel frattempo le indagini sugli agenti della polizia penitenziaria vanno avanti e il legale della famiglia si augura che l’accusa di omicidio preterintenzionale tenga. Il ricovero di Stefano è avvenuto per le conseguenze di un pestaggio e i rilievi autoptici dicono che di antecedente al fermo e all’arresto ci sono solo delle ernie. Che le fratture riscontrate sul corpo Stefano fossero mortali oppure no, diventa comunque irrilevante rispetto al fatto che quelle lesioni dolose sono diventate una condanna a morte, grazie al concorso del comportamento negligente avuto dai medici.
L’evidente frammentazione delle responsabilità non dovrebbe tradursi in uno sconto di pena per nessuno dei protagonisti, o ancora peggio in un’assoluzione di fatto. Perché il rischio insidioso è proprio questo. Che le colpe di tanti portino ad una paralisi delle indagini e delle condanne e che alla fine, dopo le violenze subite da Cucchi e il lettino della vergogna dell’ospedale in cui è stato abbandonato, si arrivi alla solita palude giudiziaria.
Sarà più facile credere che Stefano sia morto quasi da sé. Per vulnerabilità personale o meglio ancora per la droga, come aveva già teorizzato il Sottosegretario Giovanardi. Per Gabriele Sandri si parlò del mondo dei tifosi e del calcio, per le violenze di Genova durante il G8 si parlò di black block, per Aldovrandi e Cucchi si parla di droga. E’ comodo deviare l’attenzione dell’opinione pubblica, mentre ogni giorno si perde un pezzetto di verità e il potere immune fa la conta delle proprie vittime, inferiore a quella delle proprie colpe.
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di Mario Braconi
A novembre dello scorso anno, Andreas Lebert, direttore del periodico di moda tedesco Brigitte, ha deciso un cambiamento di rotta che nel suo genere può essere considerato epocale: la "sua" rivista si sarebbe presto trasformata in una "zona franca dalle modelle". "Per tanti, troppi anni ci siamo dovuti servire di Photoshop per rendere le ragazze (delle foto) un po' più rotonde, specie sulle cosce e sul décolleté: una cosa perversa e insana, che per di più ci allontanava dalla nostra lettrice-tipo." Nel corso della conferenza stampa che annunciava la singolare decisione, Lebert fece una lucida quanto amara considerazione basata su dati statistici: se è vero che le donne "vere" pesano mediamente quasi un quarto di più delle modelle sulle pagine delle riviste che sfogliano, non resta che concludere che "l'intera industria della moda è anoressica". Alle parole sarebbero seguiti rapidamente i fatti: dal gennaio del 2010, Brigitte avrebbe mostrato foto di "persone vere", meglio ancora di lettrici del suo giornale, cui veniva anzi chiesto di proporsi inviando una foto accompagnata da una breve nota biografica.
A dispetto dell'ironia che Stephanie Marsh del Times di Londra riserva al modo enfatico con cui i media hanno riportato le decisioni editoriali di Lebert, definendole "coraggiose", la scelta del direttore di Brigitte è felice, sana, politicamente ed esteticamente condivisibile. Si tratta, in fondo, di una battaglia culturale di nicchia, ma non irrilevante, di cui sarebbe ingeneroso disconoscere il valore. Tutti coloro che provano un brivido spiacevole di fronte alla bellezza estrema, fredda e vagamente superomistica dei modelli in intimo Armani sui cartelloni che campeggiano sui palazzi o sugli autobus in città non potranno che plaudire ad iniziative come quella di Lebert. D'accordo: il coraggio - quello vero - è altra cosa, ma è giusto riconoscere il merito di chi combatte anche una piccola battaglia contro l'immagine femminile stucchevole, stereotipata, frustrante ed assurda, tanto insistentemente imposta dai media; la bambola perfetta, seni rotondi, labbra carnose, sorriso ebete o broncio da cane da compagnia - nell'un caso e nell'altro, pura appendice maschile, oggettivazione brutale del suo desiderio sessuale o della sua volontà di potenza.
Certo, la battaglia di Lebert difficilmente riuscirà a superare i confini della Germania, Paese piuttosto impermeabile ai richiami suadenti delle sirene della moda: secondo Sue Evans, redattrice di lungo corso delle passerelle per il sito specializzato Worth Global Style Network, citata dal Times, "non esiste un marchio di abbigliamento tedesco veramente originale. Per lo più si tratta di roba scialba 'da mamma', di capi prodotti per signore di mezza età" - giudizio ingeneroso, su cui indubitabilmente pesa il consolidato pregiudizio che vuole i tedeschi rigorosi, rigidi ed ineleganti. Né si può dire che la voce di Brigitte, un periodico la cui lettrice media ha un'età vicina ai cinquanta, sia una testata femminile presa molto sul serio fuori dai confini del paese in cui viene pubblicata.
Come se non bastasse, l'iniziativa di Brigitte è stata ridicolizzata da Karl Lagerfeld, il “mitico” direttore artistico delle maison Chanel e Fendi: in modo non sorprendente, il settantaseienne stilista e fotografo tedesco, nonché convinto partigiano dello sterminio degli animali "da pelliccia", ha commentato l'iniziativa con una dichiarazione sgradevole quanto qualunquistica: "Brigitte è diventato ostaggio delle sue lettrici - madri grasse sedute davanti alla TV con un pacchetto di patatine fritte che blaterano su quanto siano brutte le modelle". E' quanto meno ironico sentire discettare di bellezza uno come Lagerfeld, una mummia grottesca - oltretutto vestita in modo ridicolo - uno che è stato capace di perdere oltre 40 chili di peso corporeo in poco più di un anno non per motivi di salute, ma per soddisfare la sua irresistibile voglia di "vestire abiti disegnati da Hedi Slimane".
Eppure, a dispetto dello scetticismo se non dell'aperta ostilità del mondo della moda, la scommessa di Lebert sta pagando: il primo numero del "nuovo corso" di Brigitte ha venduto quasi ottocentomila copie (+6,4%); oltre 10.000 lettori si sono fatti vivi con la redazione inviando lettere o email entusiaste. Resta un neo: nonostante i proclami iniziali, anche se le donne di bellezza normale sono finalmente uscite qualche ora da uffici locali ospedali e case per vestire i panni delle fotomodelle, finora sulle pagine di Brigitte non sono state avvistate bellezze “rotonde”. Un esito deludente, che taglia un po' le unghie al claim militante della "vera bellezza": le statistiche, infatti, dicono che la donna media tedesca (come del resto quella inglese) negli ultimi anni ha messo su qualche chiletto.
Da questo punto di vista, la marca di cosmetici Dove del gruppo Unilever (non a caso inserzionista di peso di Brigitte) dimostrò una certa audacia commerciale con una campagna lanciata ormai 5 anni fa, chiamata "per la bellezza autentica". In essa figuravano sei donne normali, alcune gradevolmente soprappeso, in abbigliamento intimo ordinario: un messaggio pubblicitario ironico, intelligente e gradevole, con l'ulteriore vantaggio di contenere i germi di una campagna sociale, il cui fiore all'occhiello è un "Fondo Dove per l'autostima" con l'ambizioso obiettivo di contribuire "a liberare la generazione futura dagli stereotipi di bellezza autolimitanti."
Quando il messaggio commerciale e quello sociale sono così intimamente intrecciati è molto difficile confidare nella buona fede degli estensori. E’ lecito (e doveroso) domandarsi - come fa la Evans - se Brigitte non stia in realtà sostituendo uno stereotipo con un altro, o se la Unilever non stia semplicemente cercando di vendere qualche saponetta in più. Ma è sempre un fatto positivo quando il potere dei media viene usato (anche) per contrastare le perversioni più crasse e mortificanti della società dei consumi.