di Rosa Ana De Santis

La mimosa dell’8 marzo è tornata puntuale ai semafori urbani. Gli stranieri, al posto degli ombrelli o dei fazzoletti, tenevano per mano l’unico pallido simbolo della ricorrenza. La festa delle donne è stata come sempre spaccata in due. Le goliardate notturne simil-maschi, con pupazzi di maschi palestrati o gli intensi convegni di riflessione autoreferenziale sui diritti delle nostre mamme lavoratrici, delle nostre giovani nel luogo di lavoro, delle straniere e delle loro preziose differenze.

Il bilancio dell’emancipazione è ancora pieno di crepe. La famiglia italiana ha rincorso un parametro di uguaglianza zoppicando sui numeri dell’Europa. A guardare la vita delle nostre donne si scopre che la loro emancipazione e autonomia di guadagno è costruita, purtroppo, non tanto sull’eguaglianza negli oneri e nel lavoro di cura con i propri compagni, quanto sulla non emancipazione di altre. Le più povere o le immigrate.

Il rapporto è quasi di diretta proporzionalità e ci obbliga a riportare la questione femminile all’interno di domande più ampie, spesso incautamente trascurate. E’ tanto romantica quanto sbagliata l’idea di pensare la questione femminile come scissa dalle categorie del tempo e dello spazio. Le donne non sono donne e basta. Stanno dentro alle grandi questioni politiche del nostro tempo e nessuna categoria del loro pensiero rappresenta una scommessa valida per il futuro se si prescinde da questo nesso. Il naufragio di tanto femminismo nasce proprio da questo peccato originale: averle portate fuori dal mondo.

Cent’anni di 8 marzo obbligano a registrare i progressi. Dal 1910 ad oggi, dicono filosofe come Irigaray e Marzano, la posizione delle donne nello spazio pubblico ha vissuto forti miglioramenti, ma entrambe devono riconoscere il ritorno di vecchi clichè. La colpa? Forse proprio delle donne, basta prendersela con gli uomini. Quelle che non hanno assunto alcuni parametri di novità o che li hanno assorbiti soltanto nella versione deteriore: quella del potere, della supremazia, dell’assuefazione ai parametri maschili dell’essere vincenti, della quantità, del poter fare tutte le cose che fanno i propri padri o i mariti. Misurando i talenti secondo le stesse unità di misura.

La cronaca politica e quella del gossip in Italia, proprio il paese che protegge a tutti i costi il dogma della famiglia perbene, ha visto il trionfo e la benedizione di quelle donne disponibili alla mercificazione plateale del corpo per un vantaggio economico o di collocazione sociale. Il fenomeno non è “di poco conto”, né circoscrivibile al mondo del sesso, alla prostituzione tradizionale, al sottobosco dello spettacolo. A quello che c’è sempre stato, insomma. Il costume della prostituzione è stato nobilitato, normalizzato, spalmato nell’immaginario collettivo su tutte le donne e assunto a valore di scambio potenziale per il genere femminile tout court. Venduto come rottura dell’ipocrisia, è diventato solo un abbassamento del profilo di genere. Un imbarbarimento, un rigurgito di passato remoto. Un asservimento al mondo degli uomini che non risparmia donne colte, consapevoli e autodeterminate. Sarà anche per questo abbandono delle tradizionali differenze che nelle fantasie degli uomini eterosessuali è diventata sempre più forte la seduzione del corpo e del pensiero trans. Sono più donne delle donne?

L’8 marzo italiano una novità di costume l’ha portata. Indubitabile. E’ saltata quell’odiosa distinzione tra donne per bene e prostitute, e l’icona del femminino ha preso le sembianze di una creatura mista. Una mitologia interrotta. Corpo di donna e testa di maschio. Sono così le donne che incontriamo? Quelle del post femminismo? E’ questo l’incrocio dell’eguaglianza imperfetta e della differenza degenerata? L’esasperazione della battaglia per il nemico esterno ha spinto il nemico sempre più dentro.

Eduardo Galeano, scrittore uruguayano, nei colori vividi e penetranti dei suoi versi ha detto che la donna è il Sud del Mondo. E conoscendo il simbolismo pindarico delle sue parole, vuole senz’altro raccontarci qualcosa di più dei numeri e delle statistiche della differenza e del disavanzo con gli uomini. Vuole portarci proprio dentro quel vortice al sud della terra, dove l’ingiustizia della storia si è mescolata a una strana liturgia della maledizione che impedisce ogni riscatto, ogni atto persino. Così nelle donne rimane lo stesso arresto. Un sacro limite che la velocità delle conquiste esterne ha abolito solo nei riti e nella forma lasciandolo intatto al suo posto. E se c’è ancora bisogno di rivoluzione, forse, danno e beffa dell’ultima nostra storia, sarà per tornare a come eravamo.

 

 

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