di Mario Braconi

A novembre dello scorso anno, Andreas Lebert, direttore del periodico di moda tedesco Brigitte, ha deciso un cambiamento di rotta che nel suo genere può essere considerato epocale: la "sua" rivista si sarebbe presto trasformata in una "zona franca dalle modelle". "Per tanti, troppi anni ci siamo dovuti servire di Photoshop per rendere le ragazze (delle foto) un po' più rotonde, specie sulle cosce e sul décolleté: una cosa perversa e insana, che per di più ci allontanava dalla nostra lettrice-tipo." Nel corso della conferenza stampa che annunciava la singolare decisione, Lebert fece una lucida quanto amara considerazione basata su dati statistici: se è vero che le donne "vere" pesano mediamente quasi un quarto di più delle modelle sulle pagine delle riviste che sfogliano, non resta che concludere che "l'intera industria della moda è anoressica". Alle parole sarebbero seguiti rapidamente i fatti: dal gennaio del 2010, Brigitte avrebbe mostrato foto di "persone vere", meglio ancora  di lettrici del suo giornale, cui veniva anzi chiesto di proporsi inviando una foto accompagnata da una breve nota biografica.

A dispetto dell'ironia che Stephanie Marsh del Times di Londra riserva al modo enfatico con cui i media hanno riportato le decisioni editoriali di Lebert, definendole "coraggiose", la scelta del direttore di Brigitte è felice, sana, politicamente ed esteticamente condivisibile. Si tratta, in fondo, di una battaglia culturale di nicchia, ma non irrilevante, di cui sarebbe ingeneroso disconoscere il valore. Tutti coloro che provano un brivido spiacevole di fronte alla bellezza estrema, fredda e vagamente superomistica dei modelli in intimo Armani sui cartelloni che campeggiano sui palazzi o sugli autobus in città non potranno che plaudire ad iniziative come quella di Lebert. D'accordo: il coraggio - quello vero - è altra cosa, ma è giusto riconoscere il merito di chi combatte anche una piccola battaglia contro l'immagine femminile stucchevole, stereotipata, frustrante ed assurda, tanto insistentemente imposta dai media; la bambola perfetta, seni rotondi, labbra carnose, sorriso ebete o broncio da cane da compagnia - nell'un caso e nell'altro, pura appendice maschile, oggettivazione brutale del suo desiderio sessuale o della sua volontà di potenza.

Certo, la battaglia di Lebert difficilmente riuscirà a superare i confini della Germania, Paese piuttosto impermeabile ai richiami suadenti delle sirene della moda: secondo Sue Evans, redattrice di lungo corso delle passerelle per il sito specializzato Worth Global Style Network, citata dal Times, "non esiste un marchio di abbigliamento tedesco veramente originale. Per lo più si tratta di roba scialba 'da mamma', di capi prodotti per signore di mezza età" - giudizio ingeneroso, su cui indubitabilmente pesa il consolidato pregiudizio che vuole i tedeschi rigorosi, rigidi ed ineleganti. Né si può dire che la voce di Brigitte, un periodico la cui lettrice media ha un'età vicina ai cinquanta, sia una testata femminile presa molto sul serio fuori dai confini del paese in cui viene pubblicata.

Come se non bastasse, l'iniziativa di Brigitte è stata ridicolizzata da Karl Lagerfeld, il “mitico” direttore artistico delle maison Chanel e Fendi: in modo non sorprendente, il settantaseienne stilista e fotografo tedesco, nonché convinto partigiano dello sterminio degli animali "da pelliccia", ha commentato l'iniziativa con una dichiarazione sgradevole quanto qualunquistica: "Brigitte è diventato ostaggio delle sue lettrici - madri grasse sedute davanti alla TV con un pacchetto di patatine fritte che blaterano su quanto siano brutte le modelle". E' quanto meno ironico sentire discettare di bellezza uno come Lagerfeld, una mummia grottesca - oltretutto vestita in modo ridicolo - uno che è stato capace di perdere oltre 40 chili di peso corporeo in poco più di un anno non per motivi di salute, ma per soddisfare la sua irresistibile voglia di "vestire abiti disegnati da Hedi Slimane".

Eppure, a dispetto dello scetticismo se non dell'aperta ostilità del mondo della moda, la scommessa di Lebert sta pagando: il primo numero del "nuovo corso" di Brigitte ha venduto quasi ottocentomila copie (+6,4%); oltre 10.000 lettori si sono fatti vivi con la redazione inviando lettere o email entusiaste. Resta un neo: nonostante i proclami iniziali, anche se le donne di bellezza normale sono finalmente uscite qualche ora da uffici locali ospedali e case per vestire i panni delle fotomodelle, finora sulle pagine di Brigitte non sono state avvistate bellezze “rotonde”. Un esito deludente, che taglia un po' le unghie al claim militante della "vera bellezza": le statistiche, infatti, dicono che la donna media tedesca (come del resto quella inglese) negli ultimi anni ha messo su qualche chiletto.

Da questo punto di vista, la marca di cosmetici Dove del gruppo Unilever (non a caso inserzionista di peso di Brigitte) dimostrò una certa audacia commerciale con una campagna lanciata ormai 5 anni fa, chiamata "per la bellezza autentica". In essa figuravano sei donne normali, alcune gradevolmente soprappeso, in abbigliamento intimo ordinario: un messaggio pubblicitario ironico, intelligente e gradevole, con l'ulteriore vantaggio di contenere i germi di una campagna sociale, il cui fiore all'occhiello è un "Fondo Dove per l'autostima" con l'ambizioso obiettivo di contribuire "a liberare la generazione futura dagli stereotipi di bellezza autolimitanti."

Quando il messaggio commerciale e quello sociale sono così intimamente intrecciati è molto difficile confidare nella buona fede degli estensori. E’ lecito (e doveroso) domandarsi - come fa la Evans - se Brigitte non stia in realtà sostituendo uno stereotipo con un altro, o se la Unilever non stia semplicemente cercando di vendere qualche saponetta in più. Ma è sempre un fatto positivo quando il potere dei media viene usato (anche) per contrastare le perversioni più crasse e mortificanti della società dei consumi.

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