di Mariavittoria Orsolato

Nella seduta del 25 giugno 2010, il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) ha approvato il parere dal titolo “Il suicidio in carcere: Orientamenti bioetici”, nato da un gruppo di lavoro coordinato dalla professoressa Grazia Zuffa. Nel documento é possibile leggere come il CNB ritenga che l’alto tasso di suicidi tra la popolazione carceraria, oltre ad essere di gran lunga maggiore rispetto a quello della popolazione ordinaria, sia una questione etica e sociale dai contorni marcati e dagli esiti stringenti.

Solo nei primi sei mesi del 2010, i carcerati che si sono deliberatamente tolti la vita sono stati 33, di cui 29 per impiccagione; e sono 44 quelli che c’hanno provato ma che, per la tempestività dei compagni di cella o degli agenti, non sono andati oltre. Se invece iniziamo a conteggiare dall’anno 2000, scopriremo che i casi di suicidio che hanno interessato le carceri italiane sono addirittura 590.

I dati che emergono dalla relazione stilata dal Cnb sono preoccupanti e lo sono ancor di più alla luce dell’inguaribile fenomeno del sovraffollamento, caratteristica che accomuna praticamente tutti i penitenziari d’Italia: secondo la professoressa Zuffa infatti “anche se l’atto di togliersi la vita contiene una irriducibile componente di responsabilità individuale, la responsabilità collettiva è chiamata in causa per rimuovere tutte quelle situazioni legate alla detenzione che, al di là del disagio insopprimibile della perdita della libertà, possano favorire o far precipitare la decisione di togliersi la vita”.

Il CNB si è chiesto perciò se il carcere, così come ci si presenta oggi, rispetti il principio secondo cui la detenzione possa sospendere unicamente il diritto alla liberà, senza annullare gli altri diritti fondamentali come quello alla salute, alla ri-socializzazione e a scontare una pena che non mortifichi la dignità umana. I risultati dell’indagine hanno così rilevato che purtroppo, nella maggioranza dei casi, queste aspettative sono disattese e che esiste una palese contraddizione fra l'esercizio di questi diritti e una prassi detentiva che costringe le persone alla regressione, all’apatia più totale, in certi casi perfino a subire violenza o a morire, com’è successo a Stefano Cucchi.

Il comitato presieduto dalla professoressa Zuffa raccomanda quindi alle autorità competenti di predisporre alla svelta un piano nazionale per prevenire il fenomeno dei suicidi dietro le sbarre, possibilmente seguendo le linee guida emanate dell’Unione Europea. Il piano dovrebbe vertere sostanzialmente su tre punti, il primo dei quali mira a combattere il sovraffollamento per sviluppare un sistema della pena più aderente ai principi costituzionali: secondo il testo emanato dal CNB sono necessarie “nuove normative per l'introduzione di pene principali non detentive e l’applicazione piena delle norme già esistenti che permettono alternative al carcere, come quelle per i tossicodipendenti”.

Il secondo punto è mirato ad una prevenzione specifica incentrata non tanto sull’individuazione dei soggetti “a rischio”, ma sulla tempestività degli interventi: quello che purtroppo manca è infatti un monitoraggio esaustivo delle situazioni che possono rivelarsi deleterie per i detenuti, andando ad incidere negativamente sulla capacità di resistenza psicofisica dell’arrestato.

Questi momenti sono rappresentati dall’impatto emotivo dell’arresto, dal trauma dell’ingresso effettivo in carcere, dalle difficoltà di coabitazione con gli altri detenuti e sono da considerare tutti potenzialmente lesivi rispetto all’autocontrollo e alla stabilità psichica del carcerato.

Infine il testo del CNB sottolinea l’urgenza di predisporre un’istituzione che faccia ricerca sul fenomeno e che sia in grado di formare adeguatamente gli operatori carcerari che dovranno gestire in loco le situazioni di emergenza. Purtroppo, però, dal 2003, anno in cui è stata prodotta la prima dichiarazione del Comitato sulle problematiche penitenziarie “non solo - scrivono i tecnici - non si sono registrati miglioramenti, ma il quadro denunciato si è perfino aggravato”.

Nelle carceri montano intanto le proteste dei detenuti e dal prossimo martedì anche la polizia penitenziaria - storicamente estranea ad ogni sorta di sciopero - si schiererà dalla parte dei galeotti con l’astensione dai pranzi nelle mense di servizio, per ribadire l’impossibilità di lavorare in condizioni di sovraffollamento.

 

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