di Rosa Ana De Santis

Diciannove anni e incensurato, Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo 2009. Suicidio, dissero le fonti ufficiali. Si sarebbe appeso al letto a castello della cella, per poi impiccarsi con il lenzuolo. Un ragazzo alto 175 cm dondolante su un letto alto 170. Il corpo scoperto alle 12.35. Il verbale del pronto soccorso che registra invece l’arrivo del cadavere alle 12.30. Sono solo alcune delle incongruenze che hanno spinto le associazioni Antigone e A buon diritto a presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Catania per accertare la verità dei fatti.

Molte le lacune e troppa la fretta di chiudere le indagini, lasciando i familiari di Carmelo senza risposte. Sono proprio loro a vedere Carmelo all’uscita della Caserma di Paternò, subito dopo l’arresto, per aver fatto il palo in una rapina in tabaccheria di Biancavilla. E qualcosa già non va. Il suo volto è gonfio, evidenti sono i segni pesanti delle botte. Le labbra ferite, gli occhi gonfi, le orecchie strappate. Anche le foto scattate all’ingresso in carcere non lasciano dubbi. Di questi fatti non c’è traccia nelle indagini e una nuova perizia servirà a verificare cosa ha subito Carmelo nei quattro misteriosi giorni, dall’arresto alla morte.

Ai familiari viene negato ogni diritto di visita nel carcere di Piazza Lanza di Catania perché - viene loro riferito dalla polizia penitenziaria - Carmelo è in isolamento. Come il peggiore dei criminali e senza che ce ne sia traccia sulle carte della pratica giudiziaria che lo riguarda. Quel poco che è scritto su di lui lo descrive come un giovanotto finito in un giro sbagliato. Non avrebbe dato segni di azioni “anticonservative” e si definiva quasi “costretto” a delinquere da una banda di criminali in cui si era infilato.

Ad oggi ci sono state tre interrogazioni parlamentari, cadute nel vuoto. Ma la famiglia di Carmelo non si rassegna, la madre Graziella in prima linea. Le lacune delle indagini (non è stata nemmeno sequestrata la cella), gli abusi (come il diritto di visita negato) e le violenze subite documentate sono gli strumenti principali e fortissimi di questa indagine per la verità, che purtroppo subirà tutta l’omertà e le coperture cui ci hanno abituato queste vicende.

Tutto lascia pensare che la morte di Carmelo non sia stata raccontata tutta. Rimangono troppi dubbi. La famiglia non ritiene possibile che abbia fatto tutto da solo. E poi un suicida morto per asfissia che non ha sangue negli arti inferiori, che prima di uccidersi consuma un pasto abbondante (nemmeno digerito, ponendo più di una domanda sull’orario della morte e quello in cui si distribuisce il vitto) e che, moribond, viene caricato su un auto di servizio, è troppo strano. Il tutto con l’aggravante di botte e violenza che sembrano esser diventata prassi ordinaria al momento dell’arresto.

Roba normale, che non fa notizia e che non trova, nei casi di Carmelo come in quello di Cucchi, nemmeno la motivazione del criminale efferato e resistente. Tutt’altro. Carmelo è anzi un giovane intimorito, che vive nell’angoscia di non potersi liberare da questo circolo di malavitosi che l’ha quasi cooptato con le minacce e l’aggressione fisica. Ha paura di raccontare. E questo è evidentemente diventato un comodo argomento per avallare in fretta il teorema del suicidio. Un po’ troppo comodo e un po’ troppo veloce per poterci convincere che labbra ferite e vestiti sporchi di sangue, l’isolamento patito in carcere, l’impiccagione anomala, siano tutto quello che dobbiamo credere sulla morte di un giovanotto preso per una “ragazzata”, come l’avevano definita alla madre le forze dell’ordine al momento dell’arresto.

Ora si combatte per impedire l’archiviazione del caso, per sfidare il silenzio di un altro carcere che ha restituito un figlio in una bara. Un errore di ragazzo che poteva essere recuperato. Ma non c’è stato tempo, né modo di rieducare una vita che aveva preso una direzione sbagliata. Perché Carmelo è morto in fretta. Appeso ad un lenzuolo, come recitano le indagini. Un lenzuolo che non si è trovato più.

 

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