Lo schiaffo rimediato da un attivista di estrema destra da Emmanuel Macron in campagna elettorale è sembrato essere poca cosa rispetto alla batosta incassata dal suo partito LREM (“La République En Marche”) nel primo turno delle elezioni amministrative francesi. I risultati sono stati condizionati in parte da livelli stratosferici di astensionismo, che la dicono lunga sulla predisposizione degli elettori nei confronti della politica d’oltralpe, ma la pessima performance dell’inquilino dell’Eliseo, assieme a quella non molto più esaltante dei neo-fascisti di Marine Le Pen, potrebbe aprire scenari inaspettati nelle presidenziali del prossimo anno.

Da quando i sandinisti hanno vinto le elezioni del 2006, le loro politiche anti-povertà hanno avuto un enorme successo. Il Nicaragua è autosufficiente al 90% per quanto riguarda il cibo. Il novantanove per cento della popolazione ha l'elettricità nelle sue case, generata per il 70 per cento con energia verde. Le istituzioni finanziarie internazionali, come la Banca Mondiale, la Banca Internazionale di Sviluppo e la Banca Centroamericana di Integrazione Economica, lodano il Nicaragua per la sua eccellente ed efficiente realizzazione di progetti.

L’elezione di Ebrahim Raisi alla carica di presidente dell’Iran è stata accolta in Occidente con l’avvertimento di un imminente peggioramento dei rapporti con la Repubblica Islamica. Raisi viene infatti ricondotto alla fazione dei “conservatori” che prediligono la linea dura nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente in genere, ma, se è vero che con ogni probabilità non ci saranno sorprese clamorose sul fronte diplomatico, una lettura forse più corretta dell’esito del voto di venerdì scorso lascia piuttosto intravedere un riaggiustamento delle decisioni di politica estera, con l’accordo sul nucleare (JCPOA) non più al centro delle priorità iraniane.

“Non si tratta di fiducia. Ma dei nostri interessi e della verifica di questi stessi interessi”. In questa frase pronunciata da Joe Biden dopo il faccia a faccia con Vladimir Putin è riassunto in sintesi il senso del vertice di mercoledì a Ginevra. A spiegare l’incontro, voluto dalla Casa Bianca, è in altre parole l’ipotesi di una svolta tattica da parte americana per congelare o, quanto meno, attenuare lo scontro con Mosca, liberando risorse ed energie da dedicare a più gravi minacce “sistemiche”. In questa prospettiva, per comprendere le implicazioni del summit, è fondamentale collegarlo ai precedenti appuntamenti in Europa del presidente democratico, impegnato in sede di G7 e NATO a compattare il fronte degli alleati in funzione anti-cinese.

Quello che è nato domenica in Israele è probabilmente il governo sulla carta più debole dell’intera storia dello stato ebraico. Oltre a poter contare su una maggioranza minima, sul fronte interno saranno numerose le questioni spinose con cui l’esecutivo si troverà a dover fare i conti nell’immediato, mentre su quello regionale e internazionale il fattore più delicato da considerare sarà il rapporto che il neo-premier, Naftali Bennett, e il ministro degli Esteri, Yair Lapid, saranno in grado di stabilire con il presidente americano Biden.


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