Il caso di Julian Assange potrebbe essere arrivato a una svolta dopo le dichiarazioni rilasciate da uno dei testimoni chiave utilizzati dal governo americano per costruire il castello di accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Visto il carattere persecutorio e illegale del procedimento di incriminazione ai danni del giornalista australiano, è più che probabile che la sorte di quest’ultimo rimarrà precaria, ma gli ultimi sviluppi confermano clamorosamente come il dipartimento di Giustizia di Washington abbia basato il proprio impianto accusatorio sulle menzogne di un testimone ultra-screditato in cambio dell’immunità garantitagli dallo stesso governo USA.

Al centro della conferenza di questa settimana sulla Libia c’erano sostanzialmente due argomenti: l’evacuazione di militari e mercenari stranieri e la preparazione delle elezioni presidenziali e parlamentari teoricamente in programma il 24 dicembre prossimo. Gli impegni presi dai paesi riunitisi a Berlino sembrano in apparenza prospettare qualche progresso significativo su entrambe le questioni, ma l’ottimismo ostentato e le promesse finite nel comunicato finale del summit si scontrano con la quasi totale assenza di misure concrete per far seguire i fatti alle parole.

Il passo spedito del ritiro delle residue forze di occupazione americane in Afghanistan sta lasciando spazio da qualche settimana a una prepotente offensiva dei Talebani in svariate aree del paese centro-asiatico. Il ritorno al potere degli “studenti del Corano” era stato ritenuto in effetti molto probabile da molti già al momento della decisione di Joe Biden di chiudere l’impegno USA in Afghanistan. La rapidità con cui procedono i Talebani di fronte alla scarsa resistenza delle forze di sicurezza di Kabul sta tuttavia preoccupando Washington e, soprattutto, i paesi confinanti con l’Afghanistan, che temono la possibile esplosione di una guerra civile una volta che tutto il contingente militare straniero avrà lasciato il paese.

Un anno fa, i primi medici cubani venuti a prestare soccorso, lasciavano il Nord Italia. La missione era stata svolta con efficacia, restava solo una parte di quei 53 fratelli in camice bianco. Sembra passato un secolo, ormai ci si sente rientrati nella normalità, ma proprio per questo ha ancor più valore ricordare cosa successe.

Siamo oggi quasi tutti in zona bianca, ma un anno fa, di questi tempi, il mutare dei colori non era in scena. Non c’erano il bianco, il giallo, l’arancione e il rosso a decifrare l’espandersi del contagio. Il colore era la paura: la speranza di un evento che invertisse un destino amaro risultava fuori luogo, appariva come un eccesso di ottimismo. Tutta Italia era in nero, coperta da lutti sui quali un giorno, forse, sapremo di più di quel che sappiamo ora. E in mezzo a tanto dolore e a tanta incertezza, venne allo scoperto il significato dell’aggettivo “alleati”, con scene di furti di mascherine a noi destinate da parte dei nostri partners europei.

Il ben noto ideologo del neoliberismo Friedrich Hayek affermò, durante una sua visita in Cile a sostegno di Pinochet nel 1981, che era totalmente contrario alle dittature come istituzioni a lungo termine, ma che una dittatura poteva risultare necessaria durante un periodo di transizione e che, in ultima analisi, era preferibile un dittatore liberale a un governo democratico illiberale.

Raramente fu espressa con tanta chiarezza e spudoratezza la contraddizione tra neoliberismo economico e democrazia politica. Quest’ultima, per quanto sbandierata molte volte a sproposito, come caratteristica identitaria di fondo delle sedicenti democrazie occidentali, viene rapidamente abbandonata al suo destino se viene in qualche modo messo in discussione il regime economico dominante.


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