Dopo sole 3 settimane dall'insediamento del presidente socialista peruviano Pedro Castillo, si cominciano a vedere i primi segnali di cambiamento nelle politiche economiche del Perù. Il presidente Pedro Castillo, che nel suo discorso di insediamento aveva insistito sulla nazionalizzazione delle risorse naturali, sull'aumento delle tasse per i profitti delle grandi compagnie estrattive minerarie e sulla rinegoziazione dei contratti tuttora favorevoli alle multinazionali, sembra orientato a confermare nei fatti quanto annunciato.

L’uscita disordinata quanto rocambolesca delle truppe USA da Kabul, ha prodotto commenti sostanzialmente univoci circa l’ennesima disfatta statunitense. E' proprio così? Certo, la disfatta è politica e militare, ma il quadro d’insieme é  più complesso e di articolata lettura. Gli USA, infatti, hanno tentato - non riuscendoci - di vincere, ma in qualche modo erano interessati alla presenza in Afghanistan ancor più di quanto lo fossero ad una vittoria militare.

Vediamo dunque i due aspetti separatamente. Dal punto di vista politico e militare non vi possono esser dubbi: trattasi di disfatta. Venti anni di occupazione non hanno raggiunto l’obiettivo dichiarato (la sconfitta dei Talebani e la restituzione del Paese alla comunità internazionale) e la sostanziale coincidenza tra l’uscita degli statunitensi e l’entrata dei guerriglieri islamici nella capitale racconta bene l’esito della missione.

A leggere i giornali o i servizi televisivi sul caos che si sta scatenando in queste ore in Afghanistan, ritroviamo solo sorpresa e sgomento per quella che sembra essere una inspiegabile giravolta - alcuni lo chiamano addirittura tradimento - degli USA nei confronti del destino del povero popolo afgano.

I commentatori, sembrano essersi completamente dimenticati degli accordi di Doha: un accordo – ma con la sostanza di un vero e proprio trattato internazionale - tra gli USA e i Talebani la cui denominazione ufficiale è “Accordi per portare la pace in Afghanistan tra l’Emirato Islamico dell’Afghanistan che non è riconosciuto come Stato dagli USA - anche conosciuti come Talebani - e gli USA”  firmato a Doha il 29 Febbraio 2020.

A sentire i media tradizionali, sembra che i talebani abbiano recuperato buona parte dell’Afghanistan - compresa Kabul - con l’uso della forza. Leggiamo e ascoltiamo termini come “riconquista”, “città caduta”, “avanzata”, ma sono fuorvianti. E anche i paragoni con il Vietnam convincono poco, perché se la ritirata Usa da Saigon fu una tragedia, quella dall’Afghanistan è molto più simile a una farsa. In realtà, la guerra di cui parliamo da giorni non esiste: i talebani si sono ripresi una sfilza di città in una manciata giorni senza combattere, semplicemente perché di fronte a loro non hanno incontrato alcuna resistenza.

Un timidissimo spiraglio è sembrato essersi aperto nei giorni scorsi per una possibile ripresa del processo diplomatico nella penisola di Corea. Dopo mesi di gelo, Seoul e Pyongyang hanno concordato la riattivazione di una linea di comunicazione diretta che era stata soppressa enfaticamente lo scorso anno dal regime di Kim Jong-un. Qualche segnale di un ritorno al dialogo era in realtà emerso già nelle settimane precedenti, ma l’iniziativa congiunta di martedì rappresenta il primo passo concreto in questa direzione e offre la possibilità all’amministrazione Biden di riprendere le fila del negoziato dopo il crollo delle speranze alimentate dagli storici incontri tra Kim e Donald Trump.


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