La gravissima crisi economica in cui è precipitato da un paio d’anni il Libano è in parte responsabilità delle potenze occidentali e regionali, interessate più a combattere i propri rivali strategici sul territorio del “paese dei cedri” che a provvedere ai bisogni di una popolazione allo stremo. A questo proposito, una singolare competizione si sta disputando nelle ultime settimane attorno a possibili aiuti, sotto forma di petrolio o gas naturale, da recapitare in Libano. La vicenda mette di fronte gli Stati Uniti e i loro alleati in Medio Oriente all’Iran e all’asse della “Resistenza” sciita, con Washington che rischia seriamente di veder crollare sotto il peso di politiche contraddittorie e insostenibili la propria residua influenza su Beirut.

Un nuovo colpo di stato militare è andato in scena nei giorni scorsi in un altro paese africano. Dopo gli eventi dello scorso maggio in Mali, questa volta è toccato alla Guinea, situata sulla costa occidentale del continente e oggetto di forti interessi internazionali per via delle ingenti riserve minerarie di cui dispone. Il presidente appena rovesciato, Alpha Condé, era al centro di critiche e proteste popolari per le tendenze autoritarie che gli vengono attribuite almeno da un paio d’anni a questa parte. Come spesso accade, le motivazioni del golpe potrebbero essere tuttavia un po’ meno nobili e intrecciarsi con la competizione attorno all’industria estrattiva guineana e con le mire strategiche di potenze come Francia e Russia.

La pessima gestione dell’emergenza Coronavirus è costata politicamente carissimo al primo ministro giapponese, Yoshihide Suga, costretto di fatto ad abbandonare il proprio incarico, assieme a quello di numero uno del Partito Liberal Democratico (LDP), dopo il crollo dei consensi registrato negli ultimi mesi. La decisione di Suga è arrivata relativamente a sorpresa e apre una corsa alla successione all’interno del partito di governo che si annuncia ferocissima. Tanto più se si considera che il prossimo leader dopo poche settimane dovrà guidare il LDP in un’elezione che potrebbe diventare la più incerta dell’ultimo decennio.

In mezzo alle polemiche e ai tragici eventi legati all’Afghanistan, il primo faccia a faccia tra il presidente americano, Joe Biden, e il premier israeliano, Naftali Bennett, si è consumato qualche giorno fa alla Casa Bianca senza suscitare particolare interesse tra l’opinione pubblica internazionale. I due leader, in effetti, non hanno apparentemente fatto molto di più che ribadire l’alleanza indissolubile tra i loro paesi, ma il cambiamento di tono rispetto all’era Netanyahu e, soprattutto, gli obiettivi del primo ministro israeliano riguardo la questione iraniana meritano uno sguardo oltre la superficie sui rapporti tra le due amministrazioni installatesi nei mesi scorsi.

La strage di civili compiuta da un drone americano in risposta all’attentato del 26 agosto all’aeroporto di Kabul ha suggellato in modo drammaticamente appropriato la fine dell’occupazione ventennale dell’Afghanistan. In perfetta coincidenza con l’impegno a evacuare tutti i soldati entro il 31 agosto, l’ultimo aereo militare degli Stati Uniti è decollato un minuto prima della mezzanotte di lunedì, lasciando indietro un paese con un futuro incerto e sul quale potrebbero continuare minacciosamente a pesare le manovre di Washington.


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