La scelta di stipulare accordi o alleanze in piena libertà da parte di paesi sovrani viene nominalmente difesa dagli Stati Uniti e dai loro alleati soltanto quando non interferisce con gli interessi di questi ultimi. Secondo questa regola, ad esempio, l’Ucraina avrebbe il diritto di diventare un membro della NATO o dell’UE, ma non, come accadde alla vigilia del golpe neo-nazista del 2014, di entrare in un’organizzazione o area di libero scambio promossa dalla Russia. Gli stessi scrupoli selettivi di Washington si possono osservare in queste settimane anche nelle isole Salomone, situate nell’oceano Pacifico meridionale, dove la possibile imminente stipula di un accordo sulla sicurezza tra il governo dell’arcipelago e la Cina ha scatenato la furiosa reazione di USA, Australia e Nuova Zelanda.

 

Le Salomone hanno un peso rilevante negli equilibri geo-strategici dell’Estremo Oriente, con implicazioni sul controllo delle vie marittime che attraversano l’Oceano Pacifico, come testimoniano tra l’altro le vicende del secondo conflitto mondiale. La loro posizione ne ha fatto perciò un oggetto di contesa tra le potenze regionali e globali che competono in quest’area del pianeta. L’ingresso della Cina nei giochi strategici del Pacifico è stato ovviamente l’elemento scatenate delle tensioni che questo paese sta attraversando da alcuni anni, soprattutto a partire dalla decisione presa nel 2019 dal primo ministro, Manasseh Sogavare, di cambiare il riconoscimento diplomatico da Taipei a Pechino.

L’iniziativa si inseriva evidentemente nel quadro di una partnership fatta in primo luogo di ingenti investimenti cinesi destinati allo sviluppo economico e infrastrutturale delle Salomone. Il 25 marzo scorso c’è stato poi un altro fatto che ha contribuito a infiammare gli animi, cioè appunto una rivelazione circolata sulla stampa dell’esistenza di una bozza d’intesa di cooperazione in ambito militare tra il governo delle Salomone e la Cina. La notizia, in seguito confermata da Sogavare, prospettava una realtà potenzialmente poco confortante per le mire americane, australiane e neozelandesi sul Pacifico. Questo accordo prevede, dietro richiesta, il possibile intervento cinese sul territorio delle Salomone per il “mantenimento dell’ordine sociale, la protezione di vite e proprietà, l’assistenza umanitaria, la risposta a disastri [ambientali] e per altri obiettivi”.

Ancora più delicato risulta un altro punto del memorandum d’intesa, quello che assegna la facoltà alle forze navali di Pechino di accedere ai porti delle isole Salomone. Nel testo si legge che “la Cina può, a seconda delle proprie necessità e con il consenso delle Salomone, effettuare visite [con le proprie imbarcazioni] per scali e rifornimenti logistici”. Inoltre, la flotta di Pechino può intervenire nelle Salomone “per proteggere la sicurezza di cittadini e progetti cinesi di rilievo”. Tanto è bastato, malgrado le smentite, per far circolare il sospetto che il governo di Sogavare fosse sul punto di concedere alla Cina una base militare sull’arcipelago. Qualunque siano le intenzioni delle due parti, l’accordo e le sue implicazioni militari sono percepite dagli USA e dai loro alleati come una serissima minaccia al principio strategico che dal secondo dopoguerra definisce l’approccio a questa regione, vale a dire l’esclusione di qualsiasi potenza rivale dall’area del Pacifico meridionale.

Anche se palesemente in violazione del principio della non interferenza nelle scelte di un paese sovrano, le diplomazie di questi tre paesi hanno intensificato in questi giorni le pressioni sul governo delle Salomone. Il ministro per gli Affari del Pacifico di Canberra, Zed Seselja, si è recato mercoledì in visita nella capitale, Honiara, per manifestare tutte le preoccupazioni del proprio governo. Al premier Sogavare avrebbe chiesto di considerare la possibilità di “non firmare l’accordo” e, con ogni probabilità, alla “richiesta” si sono accompagnati avvertimenti, se non aperte minacce, circa i pericoli a cui il suo governo andrà incontro se dovesse rafforzare la partnership con la Cina. A partire dal 2003, va ricordato, l’Australia aveva guidato una “missione umanitaria” in questo paese, che avrebbe in seguito finito per favorire una campagna di destabilizzazione sempre nei confronti di Sogavare, già alla guida del governo tra il 2006 e il 2007, conclusasi proprio con un voto di sfiducia nei suoi confronti in parlamento.

Prima della visita del ministro australiano, il vice-segretario di Stato USA, Wendy Sherman, aveva avuto a sua volta un colloquio telefonico con il ministro degli Esteri delle Salomone, Jeremiah Manele. Washington avrebbe informato la propria controparte dell’intenzione di aprire un’ambasciata a Honiara, mentre al momento sull’isola gli affari diplomatici sono sbrigati da un consolato. Il portavoce del dipartimento di Stato, in un comunicato ufficiale, ha aggiunto che i rappresentanti dei due paesi hanno discusso degli “sforzi congiunti” per “ampliare e approfondire l’impegno nel mantenere la regione indo-pacifica libera e aperta”.

In termini concreti, questa frase formale significa che Washington intende impedire a tutti i costi che la Cina metta in discussione gli equilibri favorevoli agli interessi americani nell’Oceano Pacifico. L’eventuale presenza di navi da guerra cinesi a circa duemila chilometri dalle coste australiane rappresenta insomma un rischio troppo elevato in funzione di un futuro conflitto armato con Pechino.

Il nervosismo americano, australiano e neozelandese dipende anche dal fatto che la Cina ha fatto progressi notevoli nell’area del Pacifico in questi anni. In tutte le occasioni in cui sono stati sottoscritti accordi economici o progetti infrastrutturali tra la Cina e i paesi della regione, gli alleati di Washington hanno scatenato campagne al limite dell’isteria per denunciare i metodi “aggressivi” di Pechino e i presunti rischi derivanti dall’espansione dell’influenza cinese. Così è stato ad esempio nel 2018 dopo che si era diffusa, peraltro senza fondamento, la notizia della costruzione di una base navale cinese a Vanuatu o, ancora, lo scorso anno a Kiribati, dove invece erano in programma lavori per rimettere in funzione una pista di atterraggio ad uso civile.

Non è però solo la propaganda con cui devono fare i conti governi come quello delle Salomone se decidono di approfondire i legami con la Cina. Sui media australiani si è discusso infatti più o meno apertamente di cambio di regime e di invasione militare se il premier Sogavare non dovesse fare marcia indietro sull’intesa con Pechino. Mentre il governo conservatore di Canberra continua a livello formale ad assicurare, per quanto può valere, che le Salomone hanno facoltà di agire in maniera indipendente, altre personalità senza incarichi ufficiali hanno dato vita a un dibatto decisamente più esplicito.

L’ex primo ministro laburista Kevin Rudd, qualche anno fa rimosso dal suo incarico dopo un golpe interno fomentato da Washington per avere invocato relazioni meno tese con Pechino, ha spiegato recentemente il contesto strategico su cui si basa la feroce opposizione a progetti come quello tra la Cina e le Salomone. “La dottrina a cui l’Australia aderisce a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale”, sostiene Rudd, prevede che “il nostro compito, secondo il trattato ANZUS [Australia-Nuova Zelanda-USA]”, è di garantire che le isole del Pacifico rimangano allineate agli “interessi della sicurezza nazionale americana e australiana”. Per Rudd, il pericolo concreto di una presenza militare cinese stabile nelle isole Salomone è che Pechino possa “bloccare le linee di comunicazione” tra USA e Australia in caso di crisi, riuscendo a salvaguardare in parallelo i propri interessi economici.

Le minacce dirette contro il governo delle Salomone non sono solo teoriche, come dimostrano gli eventi dei mesi scorsi. A fine novembre 2021 si era verificato quello che in molti avevano definito come un tentativo di golpe contro Sogavare. Per tre giorni, la capitale Honiara era stata invasa da oltre un migliaio di manifestati intenzionati a fare irruzione nel parlamento e impegnati a distruggere edifici civili e attività commerciali, soprattutto quelle appartenenti a cittadini cinesi. Negli scontri c’erano stati tre morti e per ristabilire l’ordine erano arrivati sull’isola uomini delle forze di sicurezza di vari paesi della regione, tra cui dall’Australia e dalla Nuova Zelanda.

Le proteste violente erano state alimentate dal primo ministro dell’isola/provincia di Malaita, Daniel Suidani, di fatto il punto di riferimento del governo americano nelle Salomone. Suidani è stato protagonista di varie iniziative per boicottare la partnership del suo paese con la Cina, quasi sempre in collaborazione con Washington. Gli USA hanno ad esempio finanziato direttamente e senza passare dalle autorità centrali il governo locale di Malaita, il quale a sua volta ha continuato a mantenere contatti diplomatici ed economici con Taiwan.

Le tensioni nelle isole Salomone rischiano ora di aggravarsi ulteriormente, proprio perché l’accordo in fase di negoziazione con la Cina si interseca con le vicende del conflitto russo-ucraino. L’escalation dello scontro in Europa orientale sta facendo emergere i veri obiettivi degli Stati Uniti che consistono, in ultima analisi, in una sfida frontale sia alla Russia sia alla Cina. In quest’ottica, tutti i teatri del confronto con le due potenze rivali di Washington diventano cruciali per non cedere terreno e, di conseguenza, agli alleati, ai partner o ai paesi semplicemente nelle mire strategiche americane, come quelli del Pacifico meridionale, viene “richiesto” di allinearsi senza ambiguità.

Proprio questa regione apparentemente remota, d’altronde, è da tempo al centro degli intrighi anti-cinesi degli USA e della NATO. Lo stesso segretario dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, ne ha parlato apertamente qualche giorno fa al termine di un vertice dei paesi membri dedicato in larga misura all’Ucraina, annunciando il raggiungimento di un accordo per “rafforzare la cooperazione con i nostri partner in Asia e nel Pacifico”.

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