La caduta o liberazione definitiva della città di Mariupol sembra essere ormai vicina dopo che nella giornata di mercoledì più di mille soldati ucraini si sarebbero arresi alle forze armate russe. Nella città portuale dell’Ucraina meridionale continuano a “resistere” centinaia di combattenti del battaglione neo-nazista Azov, in gran parte asserragliati nei sotterranei della mega-acciaieria Azovstal. Quelle che potrebbero essere le fasi finali dell’assedio russo hanno portato al centro del dibattito, rigorosamente al di fuori dei circuiti dei media ufficiali, l’imbarazzante presenza nelle fila neo-naziste di mercenari ed ex ufficiali stranieri, la cui fuga da Mariupol sarebbe uno degli obiettivi immediati del regime di Kiev e dei governi occidentali.

 

La questione è riemersa anche grazie a un reportage di giornalisti francesi pubblicato dal quotidiano Le Figaro. Il reporter Georges Malbrunot ha raccontato del proprio stupore alla vista di membri delle forze speciali britanniche e americane sul campo in Ucraina con compiti di comando. Una fonte dell’intelligence francese citata da Malbrunot ha rivelato che, fin dall’inizio delle operazioni militari russe a fine febbraio, in Ucraina erano presenti uomini delle “SAS” inglesi e delle forze “Delta” americane.

La pubblicazione dell’esclusiva di Le Figaro coincide curiosamente con le dichiarazioni straordinarie fatte nei giorni scorsi dal responsabile della politica estera europea, Josep Borrell, il quale dopo un incontro con Zelensky, ufficialmente a Kiev, aveva affermato che “la guerra sarà vinta sul campo di battaglia”. Questa frase confermava l’intenzione occidentale di continuare ad alimentare il conflitto con l’invio sempre più massiccio di armi al regime ucraino, ma è da collegare evidentemente anche alla partecipazione attiva alle ostilità di militari e mercenari pagati dall’Occidente. In definitiva, la realtà sul campo indica come sia già di fatto in corso una guerra tra Russia e NATO.

Il secondo arresto dell’oligarca

Il problema della partecipazione straniera alla guerra si è intrecciata in questi giorni alla notizia, riportata dal canale Telegram dei servizi di sicurezza di Kiev (SBU), dell’arresto del leader del principale partito di opposizione ucraino, Viktor Medvedchuk. Un’immagine di quest’ultimo in manette e in abiti militari è circolata rapidamente in rete e ha fatto subito pensare a una mossa di Zelensky per uno scambio di prigionieri con Mosca. Medvedchuk e il suo partito “Piattaforma di Opposizione-Per la Vita” sono considerati filo-russi e la stampa occidentale descrive regolarmente il primo come un “oligarca vicino a Putin”.

La vicenda di Medvedchuk testimonia in primo luogo e ancora una volta del carattere autoritario del regime di Zelensky, impegnato a reprimere tutte le voci di opposizione che chiedono, e non da ora, relazioni normali con la Russia. Qualche mese fa, Medvedchuk era finito agli arresti domiciliari con l’accusa di “tradimento”, ma dopo l’inizio delle operazioni militari era circolata la notizia della sua fuga, forse in Russia. Chiaramente si trattava di un “fake” e qualcuno ipotizza che il politico-miliardario ucraino sia rimasto tutto il tempo in stato di detenzione. Zelensky o la SBU avrebbero ora inscenato un nuovo arresto per avere una pedina di scambio con Mosca, magari nel tentativo di far uscire da Mariupol qualche pezzo grosso dell’intelligence di paesi occidentali impegnato a fianco dei nazisti di Azov.

Una conferma della presenza di mercenari inviati dall’Occidente è arrivata comunque proprio da uno di questi ultimi o, meglio, da parenti o amici che gestiscono il suo account Twitter. Il combattente in questione sarebbe il cittadino britannico Aiden Aslin, noto come “Cossack Gundi”, arresosi ai russi “dopo 48 giorni” di resistenza a Mariupol. Aislin aveva combattuto con le milizie curde filo-occidentali in Siria, a conferma di come il governo di Londra e altri suoi alleati abbiano dirottato sul fronte ucraino parte delle forze ultra-reazionarie usate negli ultimi anni per cercare di rovesciare il regime di Assad. Altre conferme spunteranno probabilmente nei prossimi giorni, ma sui “social” circolano già notizie più o meno confermate di mercenari di varia provenienza in compagnia del battaglione Azov, tra cui almeno un cittadino afgano.

Putin e il “genocidio”

Il peggioramento delle prospettive del conflitto per il regime ucraino e i suoi sponsor occidentali va di pari passo con l’escalation sia delle provocazioni e delle “fake news” di Kiev sia della retorica anti-russa di Europa e Stati Uniti. Se sul campo non ci sono possibilità di ostacolare il raggiungimento degli obiettivi di Mosca, l’unico fronte che rimane è insomma quello della propaganda. In questo quadro va inserita l’ennesima uscita del presidente americano Biden. In un comizio nello stato dell’Iowa, caratterizzato nuovamente da segnali allarmanti circa la sua salute mentale, Biden ha accusato Putin di “genocidio”.

La definizione, oggettivamente ridicola e facilmente attribuibile alle azioni ucraine nel Donbass, rappresenta un ulteriore passo avanti rispetto a quella di “criminale di guerra” dei primi di aprile. Se una strategia si può individuare nelle parole di Biden è di de-umanizzare il più possibile la leadership russa e le operazioni militari in Ucraina per far digerire all’opinione pubblica occidentale, già sottoposta non-stop alla macchina della propaganda dei media “mainstream”, un possibile futuro coinvolgimento diretto della NATO nel conflitto.

Più probabilmente, almeno per ora, il marchio di “criminale di guerra” e “genocida” serve a gettare su Putin la responsabilità delle conseguenze economiche delle sanzioni contro la Russia che anche negli Stati Uniti stanno spingendo l’inflazione a livelli mai visti negli ultimi quarant’anni. In tutti i casi, appare piuttosto improbabile che Biden e i democratici riescano a convincere gli elettori americani delle colpe del Cremlino. Tutti i segnali, infatti, lasciano intravedere una sconfitta più o meno pesante per il partito del presidente nel voto di “metà mandato” del prossimo novembre.

Dall’Ucraina ai diritti umani in India

L’uso strumentale delle accuse rivolte ai rivali di Washington conduce a un’altra notizia di questi giorni tangenzialmente collegata ai fatti russo-ucraini. Il governo americano sembra avere improvvisamente scoperto che i propri “partner strategici” indiani violano regolarmente i diritti umani dei loro cittadini. L’imprevista preoccupazione della Casa Bianca è stata espressa in particolare lunedì dal segretario di Stato Blinken durante una conferenza stampa. Casualmente, l’avvertimento a Delhi è stato lanciato pubblicamente il giorno dopo un colloquio telefonico tra Biden e il primo ministro indiano Modi, nel quale quest’ultimo deve avere ribadito la posizione neutrale del suo governo sul conflitto in Ucraina, respingendo perciò ancora una volta le pressioni americane per denunciare Mosca.

Nella circostanza non vi è nulla di nuovo, visto che gli USA sfruttano regolarmente la questione dei diritti umani come un’arma per colpire i nemici o per rimettere in linea gli alleati. I diritti umani sono l’ultimo dei pensieri di Washington, anche perché l’imperialismo americano è il principale responsabile di crimini indicibili contro le popolazioni di un lungo elenco di paesi. Nel caso dell’India, dove le violazioni dei diritti umani sono peraltro pratica comune soprattutto ai danni della minoranza musulmana, il cambio di tono del dipartimento di Stato indica però la crescente impazienza per le resistenze di Delhi. In particolare, la Casa Bianca teme che la guerra in Ucraina finisca per spingere l’India ad abbracciare le dinamiche multipolari euro-asiatiche, vanificando gli sforzi degli ultimi anni per farne un avamposto della strategia di contenimento della Cina.

Finlandia e Svezia verso la NATO?

Un’altra dimostrazione del percorso auto-lesionista intrapreso dall’Europa è la notizia dell’intenzione dei governi di Finlandia e Svezia di presentare richiesta di adesione alla NATO. Il primo passo decisivo verso l’abbandono dello status di neutralità, peraltro e soprattutto per la Svezia ormai solo formale, potrebbe essere fatto nel corso del vertice NATO di Madrid di fine giugno. In quell’occasione verrà forse ufficializzata l’istanza dei due paesi nordici, anche se saranno i rispettivi parlamenti a decidere nelle prossime settimane.

Il conflitto ucraino ha fornito così l’occasione per prendere un’iniziativa che le classi dirigenti finlandesi e svedesi stavano valutando da tempo. Le due premier di Finlandia e Svezia hanno tenuto una conferenza stampa congiunta mercoledì dedicata proprio alla questione NATO. Il clima che viene alimentato all’interno dei due paesi è quello di una sorta di stato di “assedio”, con una Russia praticamente sul punto di invadere entrambi. Anche se trapela poco o nulla dai media ufficiali, è possibile in ogni caso che ci siano posizioni contrarie all’ingresso nel Patto Atlantico.

D’altra parte, a rigor di logica, l’unica ragione per cui Mosca dovrebbe mai considerare una “aggressione” contro Finlandia o Svezia è precisamente l’avanzamento, in questo caso a nord-ovest, dei confini NATO, com’è appunto accaduto nel caso dell’Ucraina. Più che una mossa difensiva, quindi, quella di Helsinki e Stoccolma rischia di diventare una scommessa suicida, facendo aumentare drammaticamente le probabilità di guerra laddove la neutralità ha invece garantito pace e stabilità per oltre sette decenni.

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