Sono 42 anni che Sandino è tornato in Nicaragua. Da quel 1979 si è scritta una storia senza timore di noia e senza speranza di riposo. Sono 42 anni del FSLN che si sovrappongono e si integrano alla storia del Nicaragua. Non sono immaginabili il sandinismo privo del Nicaragua e la vicenda nicaraguense al di fuori del sandinismo.

Il sandinismo è una architettura è in costante aggiornamento ma con i punti cardinali irremovibili. Lotta alla povertà, sviluppo inclusivo, indipendenza, costruzione di una società equa. Una società che si regga su valori condivisi, sulla responsabilità collettiva, sulla supremazia del Noi sull’Io. Il sandinismo non è infatti la semplice – per quanto fondamentale – enumerazione dei suoi successi: è stato ed è ideologia e prassi, etica e mistica rivoluzionaria, identificazione del destino di ognuno con quello di tutti e di quello di tutti con quello della Patria. In qualche modo è stato ed è la religione civile del Paese.

La battaglia in corso negli Stati Uniti sulla riforma elettorale ha spinto questa settimana il presidente Biden ad affrontare per la prima volta in un discorso pubblico lo stato precario della “democrazia” americana. La delicatissima questione si sta giocando in primo luogo a livello dei singoli stati, a cui competono le questioni elettorali secondo la Costituzione USA, ma si intreccia anche alle dinamiche politiche di Washington, con un Partito Democratico profondamente diviso sulle iniziative da adottare contro il moltiplicarsi dei tentativi dei repubblicani di restringere drasticamente il diritto di voto.

La rivolta che sta infiammando il Sudafrica era esplosa come protesta contro la carcerazione dell’ex presidente Jacob Zuma, ma è rapidamente mutata in una quasi sollevazione popolare contro l’intera classe dirigente dell’African National Congress (ANC). Le immagini trasmesse dalle televisioni locali hanno mostrato una situazione vista raramente dalla fine dell’apartheid nel 1994, con saccheggi di negozi, veicoli dati alle fiamme, arresti e violenze, che hanno spinto il presidente, Cyril Ramaphosa, a ordinare l’intervento dei militari per cercare di ristabilire l’ordine nel paese.

Non c’è niente di spontaneo e tantomeno gratis nelle manifestazioni che si sono svolte a Cuba. L’operazione in corso contro Cuba è l’applicazione del Manuale del “golpe blando” di Gene Sharp, l’ex agente CIA che ha determinato il cambiamento della strategia golpista statunitense nell’elaborazione di una destabilizzazione permanente in tutti i paesi dove Washington ritiene sia praticabile un cambio di regime, sostituendo quello scelto dagli elettori dei distinti paesi con uno deciso dall’establishment economico e politico statunitense.

Se l’assassinio di settimana scorsa del presidente di Haiti, Jovenel Moïse, resta in buona parte avvolto nel mistero, qualche informazione sta iniziando a circolare sull’identità dei presunti responsabili dell’operazione e sulle ragioni dell’eliminazione del 53enne ex imprenditore agricolo. L’aspetto probabilmente più interessante della vicenda è il legame con gli Stati Uniti di alcuni degli individui coinvolti, in quello che appare come un intreccio ancora non chiaro tra cospiratori indigeni e stranieri. A Washington, intanto, si continua a discutere sull’opportunità di un intervento diretto o indiretto sull’isola, mentre all’interno della classe dirigente haitiana è in corso un’aspra contesa per accaparrarsi le leve del potere in un frangente di profondissima crisi politica, economica e sociale.

L’arresto del terzo cittadino americano di origine haitiana, il medico Christian Emmanuel Sanon, ha permesso alla polizia di offrire al pubblico una versione più o meno coerente dei fatti accaduti mercoledì scorso. Sanon sarebbe la mente del blitz nell’abitazione di Moïse nel quartiere ricco di Pétionville, a Port-au-Prince, e il suo obiettivo era quello di installarsi alla presidenza di Haiti. Il Miami Herald ha spiegato che Sanon vive da oltre due decenni in Florida. Il suo nome va ad aggiungersi a quelli di altri due haitiani-americani arrestati in precedenza, James Solages e Joseph Vincent. Il primo aveva lavorato per un breve periodo come agente di sicurezza presso l’ambasciata canadese a Haiti.

Il gruppo di “mercenari” che avrebbero ucciso Moïse era composto, sempre secondo la polizia haitiana, anche da 26 colombiani, 18 dei quali in stato di fermo. Per il reclutamento degli uomini necessari, Sanon si sarebbe affidato a un’agenzia venezuelana con sede negli USA, il cui proprietario, secondo la vice-presidente del Venezuela Delcy Rodríguez, è un “simpatizzante” dell’auto-proclamato presidente di questo paese, il fantoccio di Washington Juan Guaidó.

La tesi del commando arrivato dall’estero è stata tuttavia messa in dubbio da altri elementi emersi più recentemente. In un’intervista al quotidiano colombiano El Tiempo, la sorella di uno dei due sospettati ucciso dalla polizia haitiana, l’ex membro delle forze speciali colombiane Duberney Capador, ha smentito l’ipotesi che il fratello fosse stato ingaggiato per un assassinio ad altissimo livello. La donna ha fatto riferimento allo scambio di messaggi che avrebbe avuto con Capador poco prima della morte di Moïse per affermare che il suo incarico era di “proteggere persone importanti” a Haiti, ma la sua squadra era “arrivata troppo tardi” per svolgere il compito assegnato e si sarebbe poi trovata circondata dalle forze di sicurezza.

Anche un altro giornale colombiano, Semana, citando fonti anonime ha scritto che gli ex militari colombiani coinvolti nella vicenda erano stati assunti per proteggere Moïse, dopo che il defunto presidente haitiano aveva ricevuto svariate minacce di morte. Questa tesi si collega ai dubbi sul ruolo delle guardie personali di Moïse, nessuna delle quali è rimasta ferita durante il raid. L’ex senatore haitiano ed esponente di spicco dell’opposizione, Steven Benoit, in un intervento ai microfoni di una radio locale ha sostenuto senza mezzi termini che ad assassinare il presidente sono state appunto “le sue guardie e non i colombiani”. Il comandante degli agenti incaricati della sicurezza di Moïse, Dimitri Herard, è intanto finito sotto inchiesta per i suoi frequenti viaggi in Colombia, effettuati anche nei giorni in cui sarebbero stati organizzati i dettagli dell’attacco.

Al di là delle responsabilità specifiche, ci sono pochi dubbi sul fatto che Moïse fosse visto con sempre maggiore ostilità da una parte della ristretta oligarchia haitiana, dalla quale egli stesso aveva rivelato di sentirsi minacciato. In gioco non c’erano evidentemente i principi democratici messi in pericolo dalla svolta autoritaria decisa da tempo da Moïse, quanto il controllo del potere e, per suo tramite, la possibilità di fare profitti dominando i settori più vantaggiosi dell’economia haitiana, come quello degli appalti pubblici.

Questa battaglia interna alle élites haitiane si riflette nella competizione esplosa subito dopo la morte di Moïse. Almeno tre personalità hanno reclamato il ruolo di leader ad interim per portare il paese alle elezioni e al controverso referendum costituzionale che l’ex presidente aveva fissato per la fine di settembre. A prendere in mano la situazione era stato per primo il premier uscente, Claude Joseph, la cui autorità provvisoria è stata riconosciuta anche da Washington e dalle Nazioni Unite.

Non sono però dello stesso avviso né il presidente del Senato, Joseph Lambert, né colui che Moïse aveva designato come nuovo primo ministro pochi giorni prima di morire, Ariel Henry. Joseph sostiene da parte sua che il primo non può aspirare a guidare il paese perché il parlamento è stato sospeso dallo stesso defunto presidente dopo la fine naturale della legislatura e in attesa di nuove elezioni. Henry, invece, non avrebbe alcuna autorità perché, nonostante fosse stato nominato alla carica di capo del governo, non si era ancora insediato ufficialmente. La Costituzione haitiana prevede in teoria che a succedere al presidente in caso di morte o impedimento sia il numero uno della Corte Suprema, ma il titolare di questo incarico era deceduto di COVID nel mese di giugno e nessun sostituto è stato da allora scelto.

La situazione a Haiti è dunque esplosiva e i leader che controllano il potere hanno fatto appello nei giorni scorsi all’amministrazione Biden per l’invio di un contingente di soldati americani con il compito di “stabilizzare” l’isola. La Casa Bianca e il Pentagono sembrano però avere al momento poco interesse per un’iniziativa di questo genere, non tanto per questioni di sovranità o di opportunità, visti anche i precedenti storici, quanto per le possibili conseguenze negative di una nuova “invasione” di Haiti.

A Washington ci si rende perfettamente contro che la presenza militare USA finirebbe per essere accolta con estrema ostilità dalla popolazione haitiana e diventerebbe una sorta di boomerang, col rischio di far perdere il controllo delle dinamiche politiche ed economiche dell’isola. Per il momento, Biden si è perciò limitato a inviare uomini dell’FBI e del dipartimento della Sicurezza Interna, ufficialmente per assistere le autorità locali nelle indagini sull’assassinio di Moïse.

L’obiettivo di questo “contributo” americano resta comunque quello di stabilizzare la situazione a favore degli Stati Uniti, sia favorendo un accordo politico tra le fazioni della classe dirigente haitiana per una transizione senza troppe scosse sia garantendo che le elezioni di settembre si svolgano regolarmente, così da dare l’impressione di un passaggio di consegne ai vertici dello stato nel rispetto delle formalità democratiche. Per raggiungere questi scopi, il governo americano valuterà comunque anche la possibilità di appoggiare un’eventuale risoluzione in sede ONU che crei una nuova missione internazionale con compiti di stabilizzazione. Al momento, questa ipotesi resta sullo sfondo, visto il disastroso bilancio di quella che ha operato sull’isola dal 2004 al 2017 (MINUSTAH).

Un intervento esterno è in ogni caso un’opzione da tenere in considerazione, soprattutto se la crisi politica e sociale dovesse precipitare ulteriormente. Gli USA hanno d’altra parte una lunga serie di precedenti per quanto riguarda le ingerenze ad Haiti, dalla lunghissima occupazione seguita all’assassinio del presidente Jean Vilbrun Guillaume Sam nel 1915 all’appoggio alla feroce dittatura dei Duvalier dal 1957 al 1986, dal rovesciamento di Aristide nel 2004 all’imposizione di fatto nelle elezioni presidenziali del 2010-2011 di Michel Martelly, sostenitore dei Duvalier, nonché protettore e predecessore di Moïse.

Gli interessi americani si intrecciano a quelli delle élites haitiane e si scontrano invece con quelli della stragrande maggioranza di una popolazione impoverita e ultra-sfruttata. Ciò conduce nuovamente al contesto dell’assassinio di Jovenel Moïse e alle motivazioni dei possibili responsabili e mandanti. Il direttore del giornale Haiti Liberté, Kim Ives, in un intervento nel fine settimana ha fatto accenno alle potenzialità “rivoluzionarie” della situazione di crisi in cui versa cronicamente il suo paese.

A causa della distruzione dell’economia locale, dovuta all’implementazione di politiche neo-liberiste favorite da Washington, le condizioni di milioni di persone sono talmente disperate da minacciare una vera e propria esplosione sociale diretta contro la “borghesia” e i vertici dello stato, recentemente anche attraverso le attività delle bande criminali che stanno proliferando sull’isola. Questo stato delle cose aveva messo in una posizione critica Moïse, sempre più isolato, indebolito politicamente e osteggiato da una parte dell’oligarchia haitiana e dai governi stranieri con la maggiore influenza su Haiti.

In questi ambienti potrebbe essere maturata così la decisione di liquidare Moïse, in modo da arrestare la caduta verso l’abisso, e, se quanto successo clamorosamente la settimana scorsa non dovesse bastare, la situazione di caos venutasi a creare potrebbe fornire la giustificazione per un altro intervento esterno nel paese più povero del continente americano.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy