Managua. Raccontare le elezioni in Nicaragua non è la stessa cosa che raccontarle altrove. In generale e soprattutto nel contesto regionale centroamericano, visto che è l’unico Paese ad andare al voto sotto sanzioni statunitensi. Quelle che ci sono si accompagnano a quelle che si minacciano - legge Renacer ed altro - e ad attacchi di natura censoria ai social media. D’altra parte il Nicaragua sandinista è l’unico paese della regione considerato da Washington un nemico, anzi – come recita una comica quanto perversa disposizione presidenziale di Trump – “una minaccia di insolita gravità per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.

Se le elezioni locali di martedì negli Stati Uniti dovevano testare la tenuta del Partito Democratico a un anno dal voto di metà mandato, i risultati nelle due principali competizioni in programma consegnano all’amministrazione Biden e ai leader di maggioranza al Congresso pochissime ragioni di ottimismo. Soprattutto l’esito della sfida per la carica di governatore dello stato della Virginia deve suonare come un campanello d’allarme per i democratici, la cui ambiziosa agenda di riforma dopo il successo nelle presidenziali del 2020 ha fatto segnare finora un imbarazzante arretramento dopo l’altro.

Tra venerdí 29 e sabato 30 ottobre, Twitter ha chiuso improvvisamente centinaia di account di attivisti nicaraguensi legati al partito sandinista che governa il Paese da circa 14 anni. Il giorno dopo, la stessa operazione è stata fatta da altri due colossi dei social network “made in Usa”, Facebook e Instagram, alla faccia della tanto decantata libertà d’espressione.

Il Texas ha bandito centinaia di detenuti da ogni basilare diritto umano. Nello stato della Rosa Gialla, a chi sbaglia, toccano punizioni più dure che altrove. Le guardie irrompono improvvisamente nei vari reparti e ammanettano i reclusi per trasferirli in isolamento. Legati l’uno all’altro in tragiche cordate, uomini e donne vengono avviati verso i furgoni che li porteranno in altre strutture dove passeranno giorni molto duri.

Il 7 novembre, il Nicaragua tornerà alle urne. Sarebbe insufficiente spiegare l'appuntamento con le urne come fosse solo un'elezione, perché non lo è. Certo, certifica il grado di consonanza politica con il Sandinismo, al potere da 14 anni, ma non è solo una celebrazione del rito fondamentale della democrazia, l'appuntamento ricorrente con la verifica popolare del governo e dei partiti. No, non è un'elezione come le altre. Il prossimo 7 novembre in Nicaragua è una data in cui si certifica molto più di un bilancio, è un voto che acquista un valore contestuale e prospettico: è, senza alcuna enfasi, una data con la storia.


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