Le operazioni militari russe in Ucraina stanno producendo i primi riflessi su altri scenari internazionali di crisi, le cui conseguenze si possono fin da ora ipotizzare ma che risulteranno probabilmente più chiare nel medio e lungo periodo. Una delle aree maggiormente interessate è il Medio Oriente e, in particolare, l’Iran, con implicazioni sulla rivalità con Israele da una parte e sulle trattative per il ripristino dell’accordo sul nucleare di Vienna (JCPOA) dall’altra. Una scossa alla regione è stata data qualche giorno fa dal lancio di missili iraniani contro quella che Teheran ha definito come una centrale operativa segreta del Mossad israeliano sul territorio del Kurdistan iracheno.

 

L’iniziativa della Repubblica Islamica ha assunto contorni più chiari dopo un paio di giorni dagli eventi, mentre inizialmente era sembrato che l’attacco potesse essere diretto contro il gigantesco edificio che ospita la rappresentanza diplomatica americana nella città di Erbil, capitale della regione semi-autonoma curda in Iraq. Questa struttura si trova a pochi chilometri da quella colpita dai razzi iraniani. Il resoconto più dettagliato dell’accaduto da parte iraniana è stato probabilmente quello riportato dal sito di informazione indipendente libanese The Cradle, in grado di citare in esclusiva una fonte di alto livello all’interno dei servizi di sicurezza della Repubblica Islamica.

Secondo questa ricostruzione, nella notte di domenica scorsa 12 missili balistici Fateh hanno colpito la base del Mossad uccidendo tre persone e ferendone altre sette, alcune delle quali in maniera molto seria. Svariati media occidentali avevano in precedenza spiegato che il blitz era una ritorsione per l’attacco israeliano nei pressi di Damasco dello scorso 8 marzo, conclusosi con la morte di due membri dei Guardiani della Rivoluzione iraniani. La fonte di The Cradle ha invece smentito questa versione, assicurando che il governo di Teheran si riserverà di rispondere all’ultima delle offensive anti-iraniane di Israele in Siria in un altro momento.

Il lancio di missili sul “compound” di Erbil è invece una rappresaglia per l’operazione condotta dallo stato ebraico il 14 febbraio dentro i confini dell’Iran. A essere colpita era la base di droni operata dagli stessi Guardiani della Rivoluzione nella provincia di Kermanshah. Sempre secondo il funzionario iraniano citato da The Cradle, l’attacco era partito dal territorio iracheno e le prove di ciò erano state consegnate al governo di Baghdad e a quello semi-autonomo del Kurdistan. La struttura colpita era stata oggetto di attenzione dell’intelligence iraniana che ha constatato come al suo interno sembrava non potere accedere personale “non israeliano”, mentre uomini appartenenti alle forze di sicurezza curde si occupavano della “protezione esterna”.

Ufficialmente, l’Iraq non consente l’ingresso entro i propri confini ai cittadini israeliani, ma la collaborazione tra lo stato ebraico e il governo semi-autonomo curdo è risaputa, così come era tutt’altro che un segreto l’esistenza di una base del Mossad in questa regione. Rivelazioni giornalistiche degli anni scorsi avevano spiegato come i servizi segreti israeliani addestrino personale curdo in Iraq, utile tra l’altro per operazioni clandestine in paesi rivali di Tel Aviv, a cominciare appunto dall’Iran. Il governo, l’intelligence e i militari di Israele, come di consueto, si sono finora astenuti dal commentare quanto accaduto a Erbil.

Ritorsioni iraniane contro Israele non sono una novità, ma le modalità dell’operazione del fine settimana e l’attenzione mostrata da Teheran per l’aspetto mediatico indicano un cambio di passo nel contrasto alle provocazioni dello stato ebraico. Senza dubbio l’attacco in territorio iraniano meritava una risposta adeguata, malgrado il rischio di innescare un’escalation dello scontro già segnato, tra l’altro, da assassini mirati, cyber-attacchi e incursioni aeree contro installazioni ed equipaggiamenti militari dell’Iran e dei suoi alleati in Siria.

L’operazione iraniana ha però anche implicazioni sia per gli Stati Uniti sia per la Russia e per entrambe le potenze in relazione ai già ricordati colloqui attorno al ristabilimento del JCPOA in corso a Vienna. È interessante innanzitutto come alcuni media israeliani abbiano dato voce agli ambienti governativi e dei servizi di sicurezza che esprimono delusione e preoccupazione per la debolezza della risposta americana in merito al lancio di missili iraniani a Erbil. Queste osservazioni vanno collegate alle tensioni provocate dalla possibile vicinanza a un accordo sul nucleare iraniano, che Tel Aviv continua a vedere con estremo disagio nonostante i toni più moderati rispetto ai tempi di Netanyahu, quanto meno a livello pubblico.

Dopo l’inizio della guerra in Ucraina e le sanzioni decise per ridurre le esportazioni di petrolio russo, l’amministrazione Biden sta cercando soluzioni per fare arrivare sui mercati internazionali una quantità di greggio sufficiente a stabilizzare i prezzi dei carburanti. In quest’ottica, la finalizzazione di un accordo sul nucleare iraniano ha acquistato maggiore urgenza, poiché farebbe decadere le sanzioni applicate da Trump liberando una quantità importante di petrolio finora escluso dal mercato. Se ciò rappresenta una priorità per Washington, è chiaro come dalla Casa Bianca non ci sia particolare interesse nell’aprire un nuovo fronte di scontro con Teheran. Di conseguenza, la Repubblica Islamica sembra agire con una certa audacia nella difesa dei propri interessi di fronte alle provocazioni israeliane.

I negoziati sul JCPOA hanno ad ogni modo fatto segnare una battuta d’arresto proprio quando sembravano esserci finalmente le condizioni  per un’intesa. Le difficoltà che hanno portato alla sospensione dei lavori a Vienna e il ritorno nelle rispettive capitali per consultazioni dei delegati dei governi coinvolti sono da ricondurre ancora una volta al precipitare della crisi ucraina. Apparentemente, a rimescolare le carte è stata la richiesta fatta da Mosca agli Stati Uniti di ottenere garanzie che le sanzioni imposte per le operazioni militari in corso non ostacolino le relazioni economiche, commerciali, tecnologiche e militari tra Russia e Iran, come previsto appunto dall’eventuale ristabilimento dell’accordo sul nucleare.

Il governo USA e i paesi europei impegnati nelle trattative (Francia, Gran Bretagna, Germania) hanno accusato la Russia di voler mettere a rischio l’accordo con richieste “estranee” al JCPOA. Alcuni giornali hanno parlato anche di tensioni tra Mosca e Teheran a causa della nuova posizione russa, ma, almeno a livello ufficiale, le differenze tra i due paesi non appaiono significative. Iran e Russia continuano a coordinare i movimenti circa il tavolo negoziale di Vienna, tanto che martedì il ministro degli Esteri della Repubblica Islamica, Hossein Amir Abdollahian, si è recato in visita a Mosca proprio per discutere dei termini dell’accordo. A fare chiarezza sulla situazione è stato lo stesso Abdollahian, il quale nel corso di un colloquio telefonico con il suo omologo russo, Sergei Lavrov, si è detto d’accordo sul fatto che “la guerra e le sanzioni” USA non devono in nessun modo influenzare la cooperazione tra l’Iran e qualsiasi altro paese, inclusa la Russia. Per entrambi i governi, in sostanza, non sono le richieste russe a ostacolare l’accordo ma quelle americane e l’apparente impossibilità della Casa Bianca di prendere una “decisione politica” sulla questione del JCPOA.

Resta comunque oggetto di discussione se l’attacco iraniano contro la base del Mossad in Iraq rappresenti in qualche modo un messaggio anche alla Russia. Non sarebbe del tutto sorprendente che a Teheran circolino malumori per il tempismo dell’operazione in Ucraina che ha oggettivamente reso più intricate le trattative sul nucleare. In un complicato intreccio di strategie e interessi, il raid nel Kurdistan iracheno potrebbe mettere in una posizione delicata il governo israeliano, impegnato, anche se con un basso profilo, a mediare tra Ucraina e Russia. Com’è noto, per inserire un ulteriore elemento di complessità, Israele intrattiene ottimi rapporti con il Cremlino, grazie ai quali ha finora potuto colpire pressoché liberamente obiettivi iraniani e di Hezbollah in Siria.

In ultima analisi, il possibile rimescolamento degli equilibri in Medio Oriente, in particolare sul fronte iraniano e del JCPOA, derivante dalla situazione in Ucraina è in larga misura responsabilità degli Stati Uniti e dei loro alleati. L’aggravarsi della crisi tra Kiev e Mosca è infatti la conseguenza delle pressioni insostenibili degli USA e della NATO sulla Russia e, una volta esploso il conflitto, l’ondata di sanzioni imposte da Washington ha innescato una serie di forze difficilmente controllabili che minacciano di destabilizzare tutta l’area che comprende l’Europea dell’est e il Medio Oriente.

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