Tra gli argomenti preferiti dalla propaganda USA/EU sulle operazioni militari russe in Ucraina spicca soprattutto in questi ultimi giorni quello dei crimini di guerra, di cui Vladimir Putin si sarebbe già abbondantemente macchiato. Violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale sono più che probabili in situazioni come quella in atto e, se esse hanno effettivamente avuto luogo, dovrebbero in teoria essere oggetto almeno di indagine. Tuttavia, anche accettando come vere le accuse fino ad ora rivolte dall’Occidente al presidente russo, il livello di gravità dei crimini commessi in Ucraina non si avvicina nemmeno lontanamente a quelli attribuibili ai suoi accusatori, oltretutto con prove e testimonianze quasi sempre incontrovertibili.
Il bombardamento di un ospedale pediatrico nella località di Mariupol qualche giorno fa ha dato l’occasione ai governi che appoggiano il regime di Kiev di aumentare ancora di più le pressioni su Mosca, offrendo all’opinione pubblica occidentale un episodio dai contorni raccapriccianti che dimostrerebbe senza nessun margine di dubbio la ferocia gratuita russa. Le circostanze dell’accaduto a Mariupol hanno in realtà molti punti oscuri, a cominciare dalle notizie precedenti l’attacco che indicavano come l’ospedale fosse stato evacuato e poi occupato dalle forze paramilitari neo-naziste ucraine.
Non deve comunque sorprendere minimamente che il governo di Washington abbia sfruttato ad arte la vicenda, grazie alla quale, ad esempio, la vice-presidente Kamala Harris, in una recente visita in Romania ha potuto dare un giudizio pressoché definitivo sulla colpevolezza russa. Per la ex senatrice democratica, “qualsiasi attacco deliberato contro i civili è un crimine di guerra. Punto”. A rincarare la dose è stata poi l’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite, Linda Thomas-Greenfield, secondo la quale “gli attacchi contro i civili non possono essere giustificati in nessun modo”.
Ancora più circostanziata è apparsa la denuncia dell’ex segretario di Stato, Hillary Clinton. Con una dichiarazione interamente condivisibile, quest’ultima ha affermato che “se la leadership russa non vuole essere accusata di crimini di guerra, deve astenersi dal bombardare ospedali”. Che simili accuse possano essere rivolte a qualsiasi paese senza che venga sollevata la questione dei crimini americani dipende in larga misura dal fatto che la propaganda degli ultimi decenni è riuscita in qualche misura a creare una doppia realtà, fatta da un lato dai crimini della Russia e dei nemici di Washington, per i quali viene invocata la giustizia internazionale, e dall’altro da quelli degli Stati Uniti e dei loro alleati. In questi ultimi casi si applica un altro genere di categorie e, per quanto gravi e sanguinosi risultino i fatti, è sufficiente tutt’al più un’espressione di cordoglio e una rassicurazione circa la legittimità delle rispettive azioni.
Per quanti in questi giorni sono saliti in buona fede sul carro dei difensori dell’Ucraina o sono scesi nelle piazze per dimostrare contro i crimini russi, è bene ricordare che la lista di quelli commessi dagli americani, talvolta in stretta collaborazione con i loro alleati europei, è molto più lunga e include eventi di una gravità tale da far sembrare Putin e il suo entourage dei veri e propri dilettanti. Visto il recente episodio dell’ospedale di Mariupol e la natura particolarmente odiosa degli attacchi contro strutture simili, è utile citare alcuni precedenti sanguinosi interamente responsabilità degli Stati Uniti.
Nella notte del 3 ottobre 2015, un AC-130 americano colpiva con 211 missili un ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz, in Afghanistan, durante una battaglia con i Talebani in questa località. Nonostante i membri del team dell’organizzazione umanitaria si fossero messi subito in contatto con le autorità militari americane per avvertire che l’obiettivo nulla aveva a che vedere con gli “insorti”, l’attacco sarebbe proseguito per circa un’ora. Alla fine, sotto le macerie si contarono 42 morti, tra cui 24 pazienti ricoverati. Il sito web di Medici Senza Frontiere ricorda come i bombardamenti furono estremamente “precisi”, tanto da lasciare intatti gli edifici adiacenti. Pochi giorni dopo, i vertici militari USA si assunsero la responsabilità dell’accaduto, ma attribuirono la strage a un “errore”. A tutt’oggi non ci sono notizie di provvedimenti né di indagini per crimini di guerra.
Un altro esempio risale all’agosto del 2017, quando aerei americani impegnati ufficialmente nella guerra contro lo Stato Islamico (ISIS) sganciarono una ventina di bombe al fosforo, cioè un’arma chimica vietata in aree popolate da civili, su un ospedale di Raqqa, in Siria. L’uso di queste armi era già stato denunciato da numerose organizzazioni a difesa dei diritti umani nella stessa città siriana, totalmente devastata dalle operazioni militari USA.
Tra i moltissimi altri casi, è possibile ricordare anche il massacro di centinaia di civili iracheni nella prima guerra del Golfo, quando a febbraio 1991 gli aerei americani distrussero un rifugio alla periferia di Baghdad. La struttura era utilizzata per consentire ai civili di trovare riparo durante gli attacchi aerei già ai tempi della guerra con l’Iran negli anni Ottanta e come tale era nota ai vertici militari degli Stati Uniti. Dopo oltre trent’anni, questo crimine resta ovviamente impunito.
Appare dunque evidente che il bombardamento di ospedali o di obiettivi civili diventa un crimine di guerra solo se è responsabilità di Putin o di un altro “dittatore” sgradito a Washington. Allo stesso modo, l’indignazione e le relative manifestazioni di generosità e accoglienza per le vittime hanno vita breve se riguardano i civili arabi o africani, mentre trovano la loro più alta espressione se in gioco c’è la vita degli europei. Anche se rivelazioni sui crimini di guerra americani o britannici non sono mancate in questi anni, l’interesse della stampa si è sempre raffreddato velocemente, come se le “missioni” occidentali in paesi come Afghanistan, Iraq, Siria o Libia fossero motivate da ideali in grado di giustificare qualsiasi orrore.
La parzialità dell’atteggiamento occidentale risulta quasi incredibile se si considera la stessa crisi ucraina. I civili sotto assedio, le stragi, la repressione e i bombardamenti suscitano l’interesse di media e governi solo per una parte della popolazione, mentre quasi inesistenti sembrano essere gli abitanti delle regioni del Donbass. L’irrazionalità e il desiderio di impadronirsi dell’Ucraina, che vengono attribuiti a Putin, hanno fatto sparire i 14 mila morti di un conflitto iniziato con il golpe a Kiev nel 2014. Appunto per confermare questa doppia realtà, è notizia recentissima quella del bombardamento lanciato dall’Ucraina sul centro della città di Donetsk. L’entrata in azione del sistema anti-missilistico russo ha limitato i danni, ma l’attacco avrebbe fatto comunque una ventina di morti tra i civili filo-russi.
L’indignazione selettiva dell’Occidente nasconde un intento particolarmente odioso, visto che punta ad alimentare nei destinatari della propaganda sentimenti esattamente opposti a quelli del pacifismo o della mobilitazione contro la guerra. Il tentativo di far apparire una parte soltanto come quella responsabile di atti criminali gratuiti serve precisamente a creare consenso attorno a un intervento militare, come dimostrano gli appelli all’imposizione di una no-fly zone sull’Ucraina moltiplicatisi dopo i fatti di Mariupol.
Più in generale, gli eventi di questi giorni confermano come nella galassia dei media mainstream non sia nemmeno concepibile sollevare la questione dei crimini commessi dall’Occidente, né proporre un’analisi razionale e oggettiva del contesto che ha portato all’esplosione della guerra in corso in Ucraina. Men che meno è possibile paragonare i crimini di Putin a quelli degli ultimi presidenti americani. A questo proposito, nel democratico Occidente, basti pensare alla sorte riservata a Julian Assange, cioè il giornalista più coraggioso nel rivelare i crimini di guerra degli Stati Uniti e dei loro alleati negli ultimi due decenni.
Un altro elemento che testimonia dell’ipocrisia colossale di Washington è l’invocazione di un intervento della giustizia internazionale nei confronti di Putin. Gli USA, così come la Russia, non sono firmatari del trattato di Roma che ha dato vita alla Corte Penale Internazionale. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la mancata ratifica del trattato è collegata direttamente al timore di incriminazioni di politici e militari americani. Oltre a ciò, l’amministrazione Trump aveva imposto una serie di sanzioni, poi cancellate da Biden lo scorso anno, a una procuratrice del tribunale de L’Aia perché intenzionata ad aprire un’indagine per crimini di guerra in Afghanistan. Nel 2002, infine, il Congresso di Washington aveva approvato una legge che proibiva la collaborazione col tribunale internazionale in caso di procedimenti contro cittadini americani. Il provvedimento, licenziato opportunamente agli inizi della “guerra al terrore” dell’amministrazione Bush jr., prevedeva addirittura la possibilità di operazioni delle forze speciali per liberare gli americani eventualmente detenuti a L’Aia.
La logica di due pesi e due misure viene puntualmente applicata anche agli alleati dell’Occidente con un pedigree democratico non proprio esemplare. Uno di questi è l’Arabia Saudita che, per quante frizioni siano emerse nei rapporti con Washington dall’inizio della presidenza Biden, continua ad attuare misure barbare in maniera indisturbata. Il riferimento principale è alla campagna militare nello Yemen, dove dal 2015 si consuma nell’indifferenza generale, il più grave disastro umanitario tra quelli in atto a livello globale. La duplice sensibilità americana per le violazioni dei diritti umani è poi emersa nuovamente nel fine settimana proprio nel pieno delle polemiche sul bombardamento dell’ospedale di Mariupol.
Mentre le notizie sull’ospedale distrutto nella città ucraina facevano il giro del mondo, il regime oscurantista di Riyadh metteva in scena l’esecuzione di massa più numerosa della propria storia. Sabato, il boia saudita ha cioè messo a morte 81 persone, con ogni probabilità tramite decapitazione. Ufficialmente, i condannati erano accusati di atti di terrorismo, ma dalle notizie che sono trapelate pare che la maggior parte appartenesse alla minoranza sciita brutalmente repressa dal regime. Alcuni condannati erano invece cittadini yemeniti legati alla resistenza degli Houthis contro cui i sauditi conducono la guerra già ricordata.
Dal dipartimento di Stato americano non è prevedibilmente arrivato nessun comunicato di condanna delle esecuzioni, così come nulla è stato detto sulle recenti operazioni nello Yemen. Secondo un articolo del Wall Street Journal del fine settimana, a febbraio, mese in cui sono iniziate le manovre russe in Ucraina, la coalizione a guida saudita ha condotto 700 bombardamenti nel paese della penisola arabica, cioè il numero più alto in un singolo mese dal 2018, uccidendo centinaia di civili. In compenso, uno degli alleati di ferro di Washington, il primo ministro britannico Boris Johnson, sarà in visita a breve a Riyadh per chiedere un aumento della produzione di petrolio, in modo da rimpiazzare quello russo. Allo stesso scopo, il presidente americano Biden avrebbe cercato più volte di parlare con il sovrano saudita nei giorni scorsi, ma i tentativi non sono andati per il momento a buon fine.
L’esecuzione di massa di sabato ha seguito di pochi giorni la pubblicazione di una lunga intervista sulla rivista The Atlantic al principe ereditario saudita, Mohammad bin Salman (MBS), vero detentore del potere a Riyadh. Il profilo realizzato dal magazine americano, che disegna la figura di un riformatore benevolo impegnato ad aprire, se non a democratizzare, il regno wahhabita, ha così chiarito ancora una volta, alla vigilia delle decapitazioni, quali siano i “dittatori sanguinari” graditi all’Occidente e quelli invece bersaglio della retorica umanitaria del governo di Washington.