Il 25 maggio 2020 George Floyd andò a comprare le sigarette all'angolo di Chicago Avenue, nel centro di Minneapolis. Era la festa del Memorial  Day è c'era moltissima gente in giro. Floyd rimase qualche minuto nel locale dove aveva preso le sigarette, incerto se chiedere al personale di dare un'occhiata al suo cellulare poi decise di rinunciare. Alla cassa c'era un ragazzo di una ventina d'anni che aveva preso i soldi di Floyd senza battere ciglio, salvo poi rincorrere il suo cliente chiedendogli indietro le sigarette accusandolo di avergli rifilato un biglietto da venti dollari falso.

Il fermento che circola all’interno delle forze armate transalpine, in conseguenza della crisi sociale in cui versa la Francia, si sta manifestando sempre più frequentemente con avvisaglie di rigurgiti golpisti, concretizzatisi nelle ultime settimane sotto forma di minacciose lettere aperte indirizzate al governo del presidente Macron. La più recente è stata pubblicata nel fine settimana dalla rivista di estrema destra Valeurs Actuelles (“Valori Attuali”) e riporta l’avvertimento di circa duemila soldati in servizio attivo per una possibile “guerra civile” che rischia di scoppiare nel prossimi futuro in Francia.

Le violenze delle forze di sicurezza di Israele contro i palestinesi e le proteste di questi ultimi, che stanno caratterizzando il mese del Ramadan, hanno fatto segnare un’impennata nel fine settimana in concomitanza con l’aggravarsi delle tensioni provocate dal tentativo di cacciare dalle proprie abitazioni decine di famiglie palestinesi in un quartiere di Gerusalemme Est. La vicenda ha mostrato ancora una volta come lo stato ebraico metta in atto regolarmente politiche di apartheid, in questo caso implementando un disegno ben preciso per espellere la popolazione palestinese dai territori occupati. Un’ulteriore preoccupante escalation c’è stata lunedì con un pesante bombardamento israeliano in risposta al lancio di alcuni missili da Gaza.

La settimana scorsa gli indipendentisti scozzesi hanno vinto le elezioni locali, ottenendo il quarto mandato di fila e il margine più ampio nella storia del Parlamento di Edimburgo. Ma pur avendo incassato quasi la metà dei voti, a causa di un ingarbugliato sistema elettorale si sono fermati a 64 seggi, uno in meno rispetto alla soglia per la maggioranza assoluta. Lo Scottish National Party della premier Nicola Sturgeon non potrà quindi governare da solo, ma sarà appoggiato dai Verdi, anche loro indipendentisti, che con 8 seggi hanno ottenuto il miglior risultato di sempre.

“Boris Johnson e Westminster devono capirlo: in Scozia c’è una chiara maggioranza pro-indipendenza - ha detto Sturgeon a spoglio concluso - Se cercano di sfidarci su un nuovo referendum per la Scozia, si opporranno al popolo. Non vinceranno mai contro la sua volontà”.

Il premier britannico ha sempre negato la possibilità di un nuovo referendum sull’indipendenza della Scozia dopo quello del 2014 vinto dagli unionisti. Ora però Johnson prova a evitare lo scontro, invitando Surgeon e il primo ministro del Galles (il laburista Mark Drakeford, anche lui confermato) a un “Summit per l’Unione” della Gran Bretagna. “Gli interessi di tutte le nazioni saranno serviti al meglio se restiamo uniti - scrive il numero uno di Downing Street - lo abbiamo visto col successo della campagna vaccinale e con i massicci aiuti anti Covid. Ci aspettano grandi sfide: lavoriamo insieme”.

Di sicuro, non sarà questo genere di retorica a risolvere la situazione. Le prossime puntate della telenovela sembrano già scritte: Sturgeon farà approvare un secondo referendum dal Parlamento scozzese e Johnson lo impugnerà di fronte alla Corte Suprema.

Se i giudici lo bocceranno, la questione sarà probabilmente chiusa, perché gli indipendentisti scozzesi hanno sempre detto di puntare a una consultazione legale (non vogliono essere accusati di ribellione o di sedizione come i secessionisti catalani in Spagna).

Se invece la Corte darà il via libera al nuovo referendum, si apriranno scenari inediti. 

A settembre del 2014, la prima consultazione sull’indipendenza da Londra si concluse con la vittoria degli unionisti (55%). Ma oggi una riedizione del voto avrebbe probabilmente esito opposto, perché una delle ragioni che sette anni fa indusse la Scozia a non uscire dall’UK fu la volontà di rimanere nell’Unione europea. Un proposito confermato al referendum sulla Brexit del 2016, che a livello nazionale si concluse con un’affermazione di misura del Leave (52%), ma che fra i soli scozzesi vide una netta affermazione del Remain (62%).

Tuttavia, anche dopo un eventuale voto in favore della secessione, i problemi per la Scozia sarebbero tutt’altro che finiti. L’addio al Regno Unito non comporterebbe infatti la riammissione in Europa: Edimburgo dovrebbe avviare una procedura di adesione ex novo, che per andare a buon fine dovrebbe ottenere il via libera di tutti i 27 membri dell’Unione. Una prospettiva irrealistica, perché diversi Paesi (Spagna in testa) voterebbero certamente contro, pur di non incoraggiare le spinte indipendentiste all’interno dei propri confini.

Per non parlare dei giganteschi problemi economici che la secessione scozzese porterebbe con sé. Ad esempio: quale moneta si userebbe nel nuovo Stato indipendente? L’ingresso nell’Eurozona è ancora più complesso di quello nell’Ue e, allo stesso tempo, sembra inverosimile che Londra sia disponibile alla creazione di una sorta di “Poundzone”, consentendo l’uso della sterlina oltre i propri confini legali.

Sul versante dei conti pubblici, poi, il caos sarebbe totale. Come si spartirebbe il debito pubblico? La Scozia - direbbero da Londra - ha ricevuto trasferimenti dallo Stato centrale che pesano sul debito britannico. Edimburgo, invece, potrebbe chiedere che dalla sua quota di debito vengano scomputate le tasse che il Regno Unito ha raccolto sull’estrazione del petrolio scozzese. Ma siamo sicuri che il petrolio del Mare del Nord sia da considerare scozzese? In fondo, fino a oggi la maggior parte degli investimenti su pozzi e piattaforme è arrivata dal governo britannico o dal colosso British Petroleoum.

Poi ci sarebbe il problema previdenziale: i giovani scozzesi emigrano in Inghilterra, facendo calare progressivamente, in Scozia, il numero di lavoratori attivi in rapporto ai pensionati. Fra qualche anno la situazione rischia di diventare insostenibile. E la verità è che, per colmare questo squilibrio, Edimburgo ha un dannato bisogno dei soldi di Londra.

Alla scadenza della mezzanotte di martedì, il primo ministro israeliano Netanyahu ha rimesso il suo mandato esplorativo nelle mani del presidente, Reuven Rivlin, il quale ha subito assegnato l’incarico al leader del partito centrista Yesh Atid (“C’è un Futuro”), Yair Lapid, per cercare di sciogliere una crisi politica che si trascina praticamente da più di due anni. Netanyahu aveva l’opzione teorica di chiedere un prolungamento del mandato per provare a mettere assieme una maggioranza di governo, dopo le ennesime inconcludenti elezioni del 23 marzo scorso. Al contrario, il premier ha preferito passare la mano, almeno per il momento, e concentrare i suoi sforzi sul tentativo di boicottare le già difficili trattative dei partiti di opposizione per creare un esecutivo in grado di dare finalmente la spallata al più longevo capo di governo dello stato ebraico.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy