L’ultima parte dei negoziati in programma questa settimana, con al centro il deteriorarsi delle relazioni tra la Russia e l’Occidente, si è conclusa nuovamente e come previsto in un sostanziale nulla di fatto. I rappresentanti del governo di Mosca e della NATO non hanno infatti raggiunto nessuna intesa, così come in precedenza gli emissari dell’amministrazione Biden avevano respinto le richieste del Cremlino in materia di “sicurezza”. Le parti coinvolte si sono quanto meno accordate sulla necessità di continuare a trattare, ma la rigidità delle posizioni di Washington fa apparire i colloqui più come un tentativo di mettere all’angolo la Russia e provocare una reazione che verrebbe sfruttata per rilanciare gli obiettivi strategici americani, primo fra tutti la creazione di una spaccatura definitiva tra l’Europa e il suo potente vicino orientale.

 

Mercoledì era andato in scena per la prima volta da oltre due anni un vertice del “Consiglio NATO-Russia”, istituito con ostentato ottimismo nel 2002 per celebrare e consolidare la nuova fase dei rapporti tra i due ex nemici e poi naufragato sull’onda del golpe neo-fascista in Ucraina del 2014. Il segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, nella conferenza stampa che ha seguito l’evento si è assicurato di chiarire come la NATO non possa in nessun modo assicurare a Mosca la non accettazione di nuovi membri nel Patto Atlantico, poiché ciò corrisponderebbe a un potere di veto da parte russa.

Dietro alla tesi della libertà di ogni paese di scegliere le proprie alleanze e la partecipazione a qualsiasi organizzazione militare sovranazionale, la NATO ha fatto intendere, così come gli Stati Uniti due giorni prima, che non ha alcuna intenzione di fermare, almeno a livello teorico, l’accerchiamento della Russia. L’interesse di Putin è di evitare che paesi come Ucraina o Georgia vengano assorbiti anche formalmente nell’alleanza atlantica guidata da Washington. Oltre a questa richiesta, la Russia vorrebbe un ritiro di armi e truppe NATO dai paesi oltre i propri confini, a cominciare da quelli baltici.

Stoltenberg ha invece prospettato futuri negoziati attorno ad altre questioni che sembrano però rispondere agli obiettivi della NATO e difficilmente in questa fase saranno considerati come una priorità dal Cremlino. Non solo, gli argomenti sollevati dal segretario generale e oggetto di possibili ulteriori discussioni fanno riferimento a dispute e scontri provocati in larga misura proprio dalla NATO e dagli Stati Uniti. Alcuni punti su cui Stoltenberg ha espresso ottimismo sono ad esempio il ristabilimento di linee di comunicazioni per evitare incidenti di carattere militare, il rilancio di un meccanismo per la riduzione degli armamenti e la riapertura degli uffici di rappresentanza di NATO e Russia a Mosca e Bruxelles.

Il carattere degli impegni programmati questa settimana, che si sono chiusi giovedì con un vertice OSCE a Vienna, è apparso in definitiva come quello di un ultimatum imposto alla Russia. La bocciatura delle legittime istanze di Putin era già stata più volte anticipata ed è stata così ribadita in occasioni dei recentissimi incontri bilaterali. A ciò si sono accompagnate inoltre le solite minacce di sanzioni e di iniziative militari, le denunce della presunta aggressività di Mosca e, da ultime, le manovre destabilizzanti in aree al centro di feroci contese strategiche, come il recente fallito golpe in Kazakistan.

Uno dei punti su cui gli USA e la NATO insistono è il posizionamento di centinaia di migliaia di soldati russi al confine con l’Ucraina in preparazione di quella che sostengono essere una imminente invasione di questo paese. Il numero delle truppe russe che secondo Washington sarebbero state mobilitate è stato sempre smentito da Mosca, da dove si rivendica oltretutto la facoltà di dispiegare a piacimento le forze armate sul proprio territorio. Un’analisi oggettiva degli eventi dell’ultimo anno rivela ad ogni modo come il fronte ucraino e del Mar Nero sia stato al centro di ripetute provocazioni da parte americana e del governo di estrema destra di Kiev.

La Russia ha da parte sua risposto alle minacce e, quando l’escalation è arrivata vicina al punto di rottura, ha proposto l’avvio del dialogo sulla base di una serie di “garanzie” che la NATO dovrebbe appunto sottoscrivere per ristabilire equilibrio e stabilità in Europa orientale. Gli inviti alla de-escalation provenienti da Bruxelles e da Washington non hanno quindi fondamento, ma sono piuttosto la NATO, gli Stati Uniti e i loro più stretti alleati in Europa che devono fare un passo indietro per evitare un conflitto rovinoso.

Insistere con questo atteggiamento, come ha annunciato più volte il Cremlino, costringerebbe la Russia ad adottare provvedimenti di natura soprattutto “militare” per minimizzare la minaccia alla propria sicurezza derivante dalle pressioni della NATO in Europa. Sulle iniziative che si prospettano in caso di fallimento dei negoziati non ci sono ancora dettagli concreti, ma in molti hanno messo in luce come Mosca abbia varie armi a disposizione, basate in particolare sullo sviluppo di una tecnologia militare di estrema avanguardia e su una rete di alleanze e partnership in svariate aree del globo particolarmente calde per gli interessi americani.

Sul fronte ucraino, un passo falso di Kiev provocherebbe comunque una disfatta militare dell’Ucraina, al di là dell’eventuale appoggio diretto che questo paese potrebbe ottenere dalla NATO o dagli USA. La questione deve essere posta tuttavia in termini diversi, dal momento che Washington non ha interesse di per sé alle sorti dell’Ucraina, ma misura il proprio impegno in base a obiettivi più ampi che riguardano ovviamente la rivalità con Mosca.

L’insistenza sulla minaccia dell’invasione dell’Ucraina, che Putin non ha alcun interesse a mettere in atto se non per difendere la minoranza russa del Donbass, serve a confondere le acque e a creare una copertura per una qualche provocazione che costringa Mosca a muoversi militarmente. È evidente che gli Stati Uniti auspichino un conflitto limitato, perché l’obiettivo non è quello di un confronto bellico che in Ucraina non possono vincere, ma di scuotere gli equilibri strategici in Europa.

In altre parole, dal punto di vista di Washington, un attacco ordinato da Putin contro il regime di Kiev tornerebbe utile per rompere quei fili esili ancora esistenti tra l’Europa, in particolare la Germania, e la Russia. In una prospettiva ancora più allargata, lo scontro sull’Ucraina e gli intrecci strategici sul territorio europeo si collegano ai processi di integrazione euroasiatica che da Berlino passano per Mosca e arrivano fino a Pechino. Una dinamica in atto da tempo e virtualmente inarrestabile, ma che è vista con orrore dall’altra parte dell’Atlantico.

Parte di questa offensiva è anche la macchina della propaganda in azione per demonizzare Putin e la Russia. Il corollario sono le sanzioni, minacciate ripetutamente anche in questi giorni in teoria dedicati al dialogo. Tra le misure più serie di cui si parla a Washington ci sono la possibile esclusione delle banche russe dal sistema globale di transazioni finanziarie SWIFT all’embargo sulle esportazioni verso Mosca di tecnologia USA impiegata a scopi militari, fino a sanzioni dirette contro lo stesso presidente Putin.

Sul processo “diplomatico” di questa settimana si è abbattuta infine anche la crisi in Kazakistan, esplosa ufficialmente come una protesta popolare contro il rincaro dei prezzi dei carburanti ma che ha assunto in fretta i contorni di una nuova tentata “rivoluzione colorata” promossa dall’Occidente. L’intervento, su richiesta del presidente kazako Tokayev, di forze russe e degli altri paesi dell’Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) ha spento rapidamente la sommossa, garantito la stabilità del regime e innescato un processo di epurazione interna degli elementi compromessi con le trame di Washington.

Il caso kazako ha messo in chiaro come la Russia non sia più disposta a tollerare ulteriori attacchi contro i propri interessi strategici fondamentali, infliggendo nel contempo un colpo forse decisivo alle speranze americane di rompere i nodi dell’integrazione multipolare in corso sull’asse Mosca-Pechino. Ciò che resta da verificare per il momento sono le eventuali conseguenze che potrà avere questa vicenda su quella dell’Ucraina e delle relazioni sempre più precarie tra Russia e Stati Uniti.

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