Da almeno un paio di mesi a questa parte stanno arrivando segnali preoccupanti dalle regioni dell’Ucraina orientale che sembrano indicare un’imminente riesplosione del conflitto tra le forze di Kiev, appoggiate dall’Occidente, e i separatisti filo-russi del Donbass. Su entrambi i fronti sono in corso massicci spostamenti di truppe e armamenti, così come si stanno moltiplicando gli scontri a fuoco che hanno già lasciato decine di vittime sul campo. Prevedibilmente, il governo ucraino e la NATO continuano a parlare di “provocazioni” russe e di preparativi per un’offensiva pilotata da Mosca, anche se in realtà le responsabilità per il precipitare della situazione sono tutte di Kiev e dell’Occidente.

Le voci di un possibile golpe o tentativo di destabilizzazione della Giordania hanno nei giorni scorsi portato alla luce la situazione di crisi in cui versa il regime della monarchia Hashemita, tradizionalmente considerato un’oasi di stabilità nella regione mediorientale. Il complotto presumibilmente in atto era stato denunciato domenica dal vice-primo ministro e ministro degli Esteri, Ayman al-Safadi, in una conferenza stampa trasmessa in diretta TV. Al centro delle trame ci sarebbe stato l’ex principe ereditario, Hamza, fratellastro dell’attuale sovrano, Abdallah II, in combutta con non meglio definite “forze straniere” e domestiche.

Il presidente americano Biden ha presentato mercoledì un piano relativamente ambizioso per il rinnovamento delle infrastrutture degli Stati Uniti nel quadro di un progetto almeno decennale che, nelle intenzioni ufficiali, dovrebbe rilanciare il ruolo del governo federale in ambito economico e sociale. Sull’effettiva attuazione del piano, di cui si conosce per ora solo la prima tranche, pesano però molteplici e pesanti incognite. La sua stessa natura “rivoluzionaria”, anche nel caso l’intero provvedimento dovesse andare in porto, è a dir poco discutibile, sia per quanto riguarda le possibilità reali di far fronte ai problemi che promette di risolvere sia per l’impatto strutturale tutto sommato trascurabile che avrebbe su un sistema improntato all’ultra-liberismo e dominato dai grandi interessi economico-finanziari.

Pochi giorni fa, al Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, è stata votata una mozione che chiedeva la sospensione delle sanzioni unilaterali statunitensi ed europee nei confronti dei paesi considerati “avversari politici”. Sono 21 le nazioni che subiscono i provvedimenti unilaterali ed arbitrari di USA e UE: tra questi Cina, Russia, Iran, Venezuela, Cuba, Nicaragua. Tra i Paesi sanzionati non compaiono Arabia Saudita e Israele, Turchia, Ungheria, Polonia, Stati Uniti e Spagna; dunque come si può facilmente intendere, i diritti umani non c’entrano nulla con le sanzioni, che sono misure di guerra politica e commerciale fatta dai paesi Nato contro le nazioni indipendenti.

Il grado di efficacia delle politiche americane di “massima pressione” sull’Iran e di “contenimento” della Cina si è potuto ancora una volta osservare nel fine settimana a Teheran. Nella capitale della Repubblica Islamica, i ministri degli Esteri dei due paesi – Mohammad Javad Zarif e Wang Yi – hanno infatti finalizzato un importante accordo di “cooperazione strategica” che dovrebbe coprire il prossimo quarto di secolo e muovere potenzialmente risorse per ben 400 miliardi di dollari.

L’intesa era stata annunciata a inizio 2016 in occasione della visita a Teheran del presidente cinese, Xi Jinping, e la “road map” pubblicata allora elencava una ventina di argomenti che le trattative sulla “cooperazione” sino-iraniana sarebbero andate a toccare. Gli ambiti inclusi nell’accordo non erano solo quelli più ovvi delle infrastrutture e dell’energia, ma anche altri di più ampio respiro, dal “politico” al “culturale”, dal “tecnologico” fino alla “difesa e sicurezza”.


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