Il secondo bombardamento ordinato da Joe Biden nella zona di confine tra Iraq e Siria da quando si è installato alla Casa Bianca ha mandato in fibrillazione nel fine settimana un Medio Oriente intento a osservare gli sviluppi delle trattative in corso a Vienna per il ripristino dell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA). I raid USA hanno colpito due depositi di armi e di droni utilizzati da un paio di milizie sciite, secondo Washington “appoggiate dall’Iran”. L’operazione rappresenta ufficialmente una ritorsione contro i ripetuti attacchi subiti dalle forze americane in Iraq, ma è difficile assegnare una logica razionale al bombardamento di domenica, se non inserendolo in un quadro più ampio che ha a che fare con la riorganizzazione delle priorità strategiche degli Stati Uniti nella regione.

Una delle località oggetto dell’incursione americana si trova in territorio siriano e l’altra in quello iracheno. Le brigate destinatarie del “messaggio” di Biden sono Kata’ib Hezbollah e Kata’ib Sayyid al-Shuhada, incorporate nelle cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare, a loro volta integrate nelle strutture delle forze di sicurezza irachene e in prima linea nella guerra contro lo Stato Islamico (ISIS). Obiettivi simili erano stati colpiti dagli USA il 25 febbraio scorso in quello che fu il primo ordine, dato da Biden in veste di presidente, per condurre un bombardamento in un paese straniero.

La mozione dell'OSA (Organizzazione degli Stati Americani, OEA in spagnolo ndr) che sostanzialmente accusa il Nicaragua di un uso politico della giustizia, è un capolavoro di ipocrisia. Non solo perché non prende minimamente atto della realtà dei fatti e impone - essa si - una lettura tutta politicizzata degli eventi, ma anche perché esige dal Nicaragua ciò che a nessun altro Paese chiede. In parallelo appare almeno curioso il disinteresse per l’inchiesta giudiziaria che scuote il Costa Rica, la cui classe dirigente è annoverata tra le più corrotte del mondo.

Il caso di Julian Assange potrebbe essere arrivato a una svolta dopo le dichiarazioni rilasciate da uno dei testimoni chiave utilizzati dal governo americano per costruire il castello di accuse contro il fondatore di WikiLeaks. Visto il carattere persecutorio e illegale del procedimento di incriminazione ai danni del giornalista australiano, è più che probabile che la sorte di quest’ultimo rimarrà precaria, ma gli ultimi sviluppi confermano clamorosamente come il dipartimento di Giustizia di Washington abbia basato il proprio impianto accusatorio sulle menzogne di un testimone ultra-screditato in cambio dell’immunità garantitagli dallo stesso governo USA.

Al centro della conferenza di questa settimana sulla Libia c’erano sostanzialmente due argomenti: l’evacuazione di militari e mercenari stranieri e la preparazione delle elezioni presidenziali e parlamentari teoricamente in programma il 24 dicembre prossimo. Gli impegni presi dai paesi riunitisi a Berlino sembrano in apparenza prospettare qualche progresso significativo su entrambe le questioni, ma l’ottimismo ostentato e le promesse finite nel comunicato finale del summit si scontrano con la quasi totale assenza di misure concrete per far seguire i fatti alle parole.

Il passo spedito del ritiro delle residue forze di occupazione americane in Afghanistan sta lasciando spazio da qualche settimana a una prepotente offensiva dei Talebani in svariate aree del paese centro-asiatico. Il ritorno al potere degli “studenti del Corano” era stato ritenuto in effetti molto probabile da molti già al momento della decisione di Joe Biden di chiudere l’impegno USA in Afghanistan. La rapidità con cui procedono i Talebani di fronte alla scarsa resistenza delle forze di sicurezza di Kabul sta tuttavia preoccupando Washington e, soprattutto, i paesi confinanti con l’Afghanistan, che temono la possibile esplosione di una guerra civile una volta che tutto il contingente militare straniero avrà lasciato il paese.


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