Il primo coinvolgimento diretto di Joe Biden da presidente in una trattativa politica riguardante una proposta di legge “pesante” potrebbe dare indicazioni significative sugli orientamenti della nuova amministrazione americana nell’implementazione del proprio programma di governo. Attorno al nuovo pacchetto di aiuti all’economia USA, ancora in piena emergenza Coronavirus, si stanno confrontando democratici e repubblicani per capire se ci saranno spazi per una soluzione bipartisan, di portata piuttosto limitata, o se il partito del neo-presidente deciderà di contare solo sulla propria maggioranza per approvare un provvedimento relativamente generoso.

L’intervento dei militari nelle prime ore di lunedì contro il governo civile guidato da Aung San Suu Kyi ha riportato il Myanmar indietro di parecchi anni e arrestato bruscamente quello che era stato presentato in Occidente come un percorso di sviluppo democratico, sia pure fragile e contraddittorio. Il ricorso alla forza per ristabilire la supremazia militare non è un evento nuovo nella storia post-coloniale della ex Birmania, ma i cambiamenti avvenuti dopo la “normalizzazione”, inaugurata formalmente nel 2011, sono stati significativi e non è chiaro perciò, assieme alle ragioni più profonde del golpe, quali saranno i prossimi passi della probabile nuova giunta che dovrebbe assumere i pieni poteri nel paese del sud-est asiatico.

La prima uscita pubblica ufficiale da segretario di Stato americano di Anthony Blinken non ha lasciato molte speranze per un rapido ritorno degli Stati Uniti nell’accordo sul nucleare iraniano (JCPOA) abbandonato da Trump nel 2018. Nonostante i propositi di Biden in campagna elettorale, la nuova amministrazione democratica sembra voler imporre una serie di condizioni che, legittimamente, la Repubblica Islamica ha già respinto in partenza.

La sconfitta di Trump nelle elezioni presidenziali ha rimesso in discussione il piano di ritiro delle truppe di occupazione in Afghanistan e i negoziati di pace con i Talebani che erano scaturiti dall’accordo sottoscritto dall’amministrazione repubblicana nel febbraio dello scorso anno. Il neo-presidente Biden ha fatto intendere anch’egli di voler chiudere la più lunga delle guerre condotte dagli Stati Uniti, ma i contorni dell’eventuale disimpegno sono tutti da decifrare e non è da escludere un possibile naufragio del fragilissimo processo diplomatico in corso.

Le proteste di piazza organizzate in svariate città della Russia nel fine settimana hanno trovato prevedibilmente una vastissima eco sulla stampa occidentale, contribuendo a rilanciare l’offensiva anti-Putin già intensificatasi con l’avvicinarsi dell’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca. Al centro della mobilitazione dei manifestanti c’è stata ufficialmente la richiesta di scarcerazione dell’esponente dell’opposizione, Aleksei Navalny, arrestato il 17 gennaio scorso al suo arrivo in patria dopo cinque mesi trascorsi a Berlino in seguito a un presunto avvelenamento segnato tuttora da moltissimi punti oscuri.


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