Gli scontri esplosi dopo il golpe militare del primo febbraio scorso in Myanmar stanno assumendo caratteri sempre più violenti in parallelo all’intensificarsi della mobilitazione dei lavoratori di molti settori industriali del paese asiatico. Lo scorso fine settimana si è registrato il dato singolo più pesante in termini di vittime provocate dalle forze di sicurezza, mentre tra la comunità internazionale stanno aumentando le pressioni sulla giunta che ha rimosso il governo semi-civile della Lega Nazionale per la Democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi.

A dieci anni dall’inizio della guerra orchestrata dalla NATO contro il regime di Gheddafi, la Libia ha visto nascere questa settimana un nuovo governo provvisorio che dovrebbe unificare il paese e condurlo alle elezioni che i recenti colloqui di pace mediati dall’ONU hanno fissato per il 24 dicembre prossimo. Gli ostacoli che l’esecutivo di “unità” si trova di fronte sono però enormi e le divisioni e i conflitti che attraversano il territorio libico da est a ovest non svaniranno dall’oggi al domani. Lo strapotere delle milizie armate, l’ingerenza dei paesi stranieri, così come povertà e corruzione, continueranno a segnare a lungo gli eventi di un paese letteralmente devastato da un intervento militare “umanitario” scatenato, nel marzo del 2011, dalla menzogna di una rivoluzione democratica sul punto di essere soffocata nel sangue.

Secondo la stampa “liberal” americana, quella che la Camera dei Rappresentanti di Washington ha approvato martedì (“PRO Act”) sarebbe una riforma in grado di rafforzare i diritti dei lavoratori USA in una maniera mai vista dai tempi del New Deal rooseveltiano. Il tono quasi trionfale riservato all’iniziativa è tuttavia a dir poco esagerato, ma, se anche fosse giustificato, la celebrazione della presunta nuova era che si prospetta per la “working-class” americana omette o, per lo meno, minimizza un dettaglio fondamentale, che la riforma stessa non ha una sola possibilità di diventare legge degli Stati Uniti.

L’amministrazione americana del presidente Biden sta cercando di uscire dal vicolo cieco della guerra in Afghanistan con una nuova iniziativa di pace che il segretario di Stato, Anthony Blinken, ha presentato nei giorni scorsi a tutte le parti coinvolte nel conflitto. Le proposte sono però in larga misura il riflesso delle illusioni che gli Stati Uniti continuano a nutrire e a proiettare sul paese asiatico e, come tali, hanno poche possibilità di essere accettate o tantomeno implementate, così dai Talebani come dal governo-fantoccio di Kabul.

Il giudice Edson Fachin, del Supremo Tribunale Federale del Brasile, ha dichiarato nulli gli atti che hanno portato alla persecuzione giudiziaria, alla carcerazione ed alla sospensione dei diritti civili e politici di Ignacio Lula Da Silva. Potrebbe finire così l’agonia della giustizia brasiliana e quella personale di Lula, vittima di un complotto politico-giudiziario deciso a Washington e organizzato a Brasilia. Pur con altri procedimenti in corso, Lula è tornato soggetto di diritto, candidabile ed eleggibile, essendo venute meno le inibizioni ai diritti politici che le sentenze avevano prodotto.


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