La decisione annunciata mercoledì dal presidente Biden di ritirare tutte le forze di occupazione americane in Afghanistan entro il prossimo 11 settembre sembra essere ciò che più si avvicina, da quasi due decenni a questa parte, a un’ammissione del fallimento degli Stati Uniti nel paese asiatico. La Casa Bianca ha rotto gli indugi sul disimpegno dalla lunghissima guerra al termine di un riesame della situazione sul campo e dell’accordo di pace che l’amministrazione Trump aveva sottoscritto con i Talebani nel febbraio del 2020.

E’ un autentico schiaffo all’Italia ed al suo Presidente del Consiglio quello che ieri il Presidente turco, Erdogan, ha rifilato. Draghi, infatti, indossati i panni del difensore d’ufficio di Ursula Von Der Layen, vittima di uno sgarbo politico e personale ordito da Michael, ha ritenuto di sentirsi in diritto di apostrofare il Presidente turco come un “dittatore”.

Sul fatto che Erdogan sia un dittatore c’è poco da cavillare. E’ persino molto peggio.

Stupisce semmai come non lo fosse fino a che massacrava kurdi e invadeva la Siria, arrestava e lasciava morire oppositori, sosteneva l’Isis (dal quale comprava petrolio siriano rubato a basso costo e forniva corridoi per l’afflusso di mercenari in Siria). Fin lì ci si ricordava di quanto la Turchia fosse centrale nello scacchiere mediterraneo, di come il Bosforo fosse strategico e di quanto Ankara fosse necessaria nello spostamento sulla rotta balcanica dei flussi migratori. E che la Turchia sia il secondo esercito NATO non aveva destato allarme nella professione di atlantismo che Draghi espose nel suo discorso d’insediamento alla Camera. Solo che ora, con l’Isis sconfitto e la caccia al tesoro libico, improvvisamente l’educazione protocollare del sultano diventa oggetto di riprovazione. Il Presidente turco diventa così un dittatore ma le parole di Draghi diventano un boomerang.

Una gravissima esplosione avvenuta nella giornata di domenica ha causato danni molto estesi all’impianto nucleare civile iraniano situato nella località di Natanz. Anche se non ci sono rivendicazioni ufficiali per l’operazione, tutti gli indizi sembrano portare a Israele. L’attentato, di fatto di natura terroristica, dimostra ancora una volta come l’unica “democrazia” mediorientale promuova i propri obiettivi di politica estera attraverso la violenza deliberata. In questo caso, l’attacco punta a boicottare o, quanto meno, a complicare ancora di più i negoziati in corso a Vienna per la riattivazione del trattato sul nucleare della Repubblica Islamica (JCPOA).

Non è bastato il comportamento predatorio in Siria, né quello in Libia, né la repressione violenta del dissenso in patria. Non è bastata la persecuzione dei curdi, né la violazione dei diritti umani dei profughi siriani, afgani e iracheni (che imprigiona su nostro pagamento, per evitare che arrivino in Europa). Non è bastato nemmeno il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Ci è voluto il “sofagate” per bollare Recep Tayyip Erdogan come “dittatore”.

I colloqui sul nucleare iraniano iniziati mercoledì a Vienna sono il primo segnale concreto dall’inizio della presidenza Biden delle intenzioni di risolvere la crisi tra Washington e Teheran riesplosa durante l’amministrazione Trump. Qualche timidissimo motivo di ottimismo è emerso al termine del primo round di incontri, anche se restano ostacoli non indifferenti sulla strada verso la definitiva riattivazione dell’accordo del 2015 (JCPOA). A fare la differenza sarà la volontà politica del governo americano di cancellare il cumulo di sanzioni imposte negli ultimi anni contro la Repubblica Islamica.


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