Fino a poche settimane fa, le elezioni federali in Germania previste a fine settembre sembravano dover essere una sfida a due tra i Cristiano Democratici (CDU), alleati come sempre dei Cristiano Sociali bavaresi (CSU), e i Verdi, con il partito Social Democratico (SPD) nettamente staccato e invischiato in una crisi politica di lunga data. Gli ultimi sondaggi hanno invece iniziato a registrare un’inversione di tendenza inaspettata. Lo storico partito di centro-sinistra avrebbe infatti virtualmente agganciato quello della cancelliera uscente, Angela Merkel, mettendo in discussione le previsioni che apparivano ormai consolidate circa la natura del prossimo governo di Berlino.

A  dieci giorni dalla caduta di Kabul e dal ritorno dell’Afghanistan di fatto sotto il controllo talebano, il tumultuoso epilogo del conflitto sta assumendo sempre più i contorni non solo di una clamorosa disfatta per gli Stati Uniti, ma di un evento di portata storica che segna il fallimento definitivo degli sforzi occidentali per influenzare e orientare le dinamiche geo-politiche nelle aree strategicamente più importanti del pianeta. Questi sviluppi si intrecciano alle manovre in corso a Kabul e non solo per stabilizzare il quadro afghano, principalmente attraverso la creazione di un governo “inclusivo”, nelle quali stanno giocando un ruolo cruciale paesi come Russia, Cina e, in misura minore, Iran.

Dopo sole 3 settimane dall'insediamento del presidente socialista peruviano Pedro Castillo, si cominciano a vedere i primi segnali di cambiamento nelle politiche economiche del Perù. Il presidente Pedro Castillo, che nel suo discorso di insediamento aveva insistito sulla nazionalizzazione delle risorse naturali, sull'aumento delle tasse per i profitti delle grandi compagnie estrattive minerarie e sulla rinegoziazione dei contratti tuttora favorevoli alle multinazionali, sembra orientato a confermare nei fatti quanto annunciato.

L’uscita disordinata quanto rocambolesca delle truppe USA da Kabul, ha prodotto commenti sostanzialmente univoci circa l’ennesima disfatta statunitense. E' proprio così? Certo, la disfatta è politica e militare, ma il quadro d’insieme é  più complesso e di articolata lettura. Gli USA, infatti, hanno tentato - non riuscendoci - di vincere, ma in qualche modo erano interessati alla presenza in Afghanistan ancor più di quanto lo fossero ad una vittoria militare.

Vediamo dunque i due aspetti separatamente. Dal punto di vista politico e militare non vi possono esser dubbi: trattasi di disfatta. Venti anni di occupazione non hanno raggiunto l’obiettivo dichiarato (la sconfitta dei Talebani e la restituzione del Paese alla comunità internazionale) e la sostanziale coincidenza tra l’uscita degli statunitensi e l’entrata dei guerriglieri islamici nella capitale racconta bene l’esito della missione.

A leggere i giornali o i servizi televisivi sul caos che si sta scatenando in queste ore in Afghanistan, ritroviamo solo sorpresa e sgomento per quella che sembra essere una inspiegabile giravolta - alcuni lo chiamano addirittura tradimento - degli USA nei confronti del destino del povero popolo afgano.

I commentatori, sembrano essersi completamente dimenticati degli accordi di Doha: un accordo – ma con la sostanza di un vero e proprio trattato internazionale - tra gli USA e i Talebani la cui denominazione ufficiale è “Accordi per portare la pace in Afghanistan tra l’Emirato Islamico dell’Afghanistan che non è riconosciuto come Stato dagli USA - anche conosciuti come Talebani - e gli USA”  firmato a Doha il 29 Febbraio 2020.


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