L’uscita disordinata quanto rocambolesca delle truppe USA da Kabul, ha prodotto commenti sostanzialmente univoci circa l’ennesima disfatta statunitense. E' proprio così? Certo, la disfatta è politica e militare, ma il quadro d’insieme é  più complesso e di articolata lettura. Gli USA, infatti, hanno tentato - non riuscendoci - di vincere, ma in qualche modo erano interessati alla presenza in Afghanistan ancor più di quanto lo fossero ad una vittoria militare.

Vediamo dunque i due aspetti separatamente. Dal punto di vista politico e militare non vi possono esser dubbi: trattasi di disfatta. Venti anni di occupazione non hanno raggiunto l’obiettivo dichiarato (la sconfitta dei Talebani e la restituzione del Paese alla comunità internazionale) e la sostanziale coincidenza tra l’uscita degli statunitensi e l’entrata dei guerriglieri islamici nella capitale racconta bene l’esito della missione.

 

Nell’era delle guerre di quarta e quinta generazione, l’aspetto simbolico, tanto per le icone del conflitti come per la narrazione degli stessi, hanno un peso enorme. Ebbene, sotto questo aspetto quella USA appare una debacle, perché si può certamente dire che le modalità di abbandono del paese asiatico siano state più simili ad una fuga che ad una uscita (peraltro le immagini della fuga contrastano con quelle storiche della ritirata sovietica, ordinata e marziale). Che poi sia stata concordata con i Talebani nelle modalità e nei tempi senza condividerla con gli alleati sul terreno, è solo l’ennesima dimostrazione della considerazione di cui godono all’interno della stessa Nato i restanti 25 Paesi.

Un altro aspetto simbolico, ma carico di significati, lo si può cogliere nelle scene drammatiche di gente ammassata sugli aerei per fuggire e che addirittura, disperata, si aggrappa ai carrelli del velivolo cadendo inevitabilmente a terra da centinaia di metri di altezza. Riguarda il ruolo e il destino di coloro che si alleano con gli Stati Uniti nelle occupazioni militari. Sono collaborazionisti che, a volte per fede politica, molto più spesso per denaro, non esitano a svolgere ruoli importanti di logistica, spionaggio ed assistenza alle truppe occupanti. Ebbene, quando gli USA decidono di abbandonare il terreno, costoro non hanno nessun posto di riguardo: vengono abbandonati come utensili inservibili e lasciati esposti alla vendetta dei nemici che non dimenticheranno da che parte stavano.

I simboli e la forza delle immagini non lasciano quindi spazio ad interpretazioni diverse da quelle già viste in passato. Le immagini degli elicotteri che si alzano dai tetti dell’ambasciata USA ricordano la Saigon del 1975 dopo gli accordi di Parigi. Il che rammenta a tutti, alleati e nemici, che gli USA dal 1945 ad oggi hanno dimostrato di non essere in grado di vincere nessuna guerra. Ad eccezione dell’invasione dell’isoletta di Grenada e di Panama, dove la quantità di soldati soverchiante e l’aviazione sugli obiettivi civili riuscì ad avere la meglio (e non certo rapidamente), dal Viet-nam alla Corea, dall’Irak alla Siria, all’Afghanistan, gli USA sono usciti con la coda tra le gambe, avendo distrutto tutto ciò che potevano ma non riuscendo mai a vincere. Il messaggio è chiaro: non importa il pesantissimo divario tecnologico degli armamenti, la forza economica, finanziaria, politica e diplomatica che sono in grado di mettere in campo. I loro soldati, semplicemente, non vincono, a meno che non si tratti di un b-movie di Hollywood.

 

Perché rimanere 20 anni in una guerra che non si può vincere?

Ma parlare di disfatta completa politica e militare è però - per quanto appropriato - non esaustivo. Perché gli Stati Uniti avevano intenzione di occupare il Paese per ottenere vantaggi geopolitici e finanziari, non solo per ottenere una vittoria militare, come tutti sanno impossibile da ottenere per chiunque, data la conformazione del Paese e il sostegno popolare di cui godono, per quanto possa sembrare strano, i Talebani. D’altra parte i massacri di civili compiuti dagli statunitensi, che hanno affiancato l’insipienza nella caccia ai Talebani, non hanno certo ridotto il consenso agli ex studenti di teologia o aumentato quello per la coalizione Nato.

Gli Stati Uniti sono andati in Afghanistan sapendo che i Talebani non avevano nulla a che vedere con l’attentato alle Torri Gemelle. Sapevano perfettamente chi erano i Talebani, perché derivavano dai Mujaheddin, inventati anche loro dagli USA in funzione antisovietica. Sapevano essere assolutamente estranei all’11 settembre e se davvero avessero voluto colpire gli attentatori (tutti sauditi tranne uno e saudita era anche Osama bin Ladin) avrebbero dovuto colpire Ryad, che dei Talebani come di Al Queda e dello stesso Isis sono generatori, finanziatori e sostenitori politici.

E  non solo i sauditi: ad addestrare le truppe talebane ed a formare la loro intelligence sono stati i Servizi Segreti pakistani, alleati storici della CIA, gli stessi che gli hanno venduto bin Ladin dopo avergli dato rifugio per anni. La presenza statunitense a Kabul non aveva dunque nulla a che vedere con l’attentato di New York: fu una operazione che diede il via al rientro in grande scala della forza militare statunitense a sostegno del progetto di controllo dell’Asia Centrale come misura di contenimento di Cina e Russia.

La guerra ha avuto i suoi risvolti economici, con migliaia di miliardi di dollari fatturati dall’industria bellica statunitense e da un indotto sempre più ampiamente collocato in ogni maglia dell’economia. Il business è stato produttivo: il complesso militar-industriale, che resta l’autentico volano dell’economia statunitense, ha avuto modo di macinare miliardi su miliardi, di ridurre gli arsenali alleati che ora dovranno essere riforniti, di rendere in parte obsoleto il loro armamento che ora dovrà essere ammodernato. Il tutto made in USA, come d’obbligo per i membri dell’Alleanza Atlantica. Non sono ammesse deroghe, come ben sa Ankara. A questo si deve aggiungere lo sviluppo imperioso delle società di contractors, ormai autentico complemento militare ed economico di ogni avventura statunitense e dei suoi alleati.

Ma il vero core business è stato l’oppio. Dall’arrivo dei soldati di Washington ad oggi il fatturato della produzione e vendita degli oppiacei (significativamente eroina) è cresciuto di 40 volte. Il che ha contribuito decisamente ad immettere più droga e dunque a determinarne un minor prezzo sul mercato; particolare forse non casuale è che gli USA sono il maggior consumatore di droga al mondo. Peraltro i proventi della droga non sono certo tracciabili fiscalmente. Si tratta di un’immensa quantità di denaro il cui utilizzo non deve essere pertanto autorizzato da Senato e Congresso e che si rivela utile alle operazioni clandestine (le covert action) che CIA e affini utilizzano per la loro strategia di destabilizzazione ai quattro angoli del pianeta.

 

Scenari futuri

Il futuro dell’Afghanistan appare decisamente incerto, la fine dell’occupazione militare Nato non comporterà solo il venir meno dell’ipoteca militare ma anche di quella economica. Le immense e mai sfruttate risorse minerarie, petrolio e gas, il Litio e le terre rare, di cui l’Afghanistan dispone, rendono il Paese centroasiatico estremamente interessante. In parte il nuovo scenario è quanto mai penalizzante per gli USA, che non hanno mai avuto la possibilità di iniziare perforazioni ed estrazioni di petrolio e gas proprio in mancanza di controllo militare assoluto. Terre rare e Litio sono poi valore assoluto sia per l’utilizzo civile che militare, con gli Stati Uniti che già soffrono il mancato controllo di Venezuela, Congo e della stessa Cina (che di terre rare è ricchissima), che appare ora in prima fila nel proporsi ai Talebani come partners commerciale, anche tenendo conto che il progetto di Nuova Via della Seta ha nel passaggio in Afghanistan uno snodo importante.

Un ultimo aspetto riguarda la ormai debordante ipocrisia occidentale sparsa come polvere sui media di sistema. La preoccupazione per il destino delle donne – giustissima, ci mancherebbe altro – non ha avuto riscontri nei 20 anni di occupazione. E se davvero il tema della dignità e liberta femminile fosse al centro delle preoccupazioni occidentali, allora, coerentemente, ci si potrebbe sfilare dai prossimi mondiali di calcio previsti in Qatar, che dei Talebani è finanziatore e sostenitore e che ha nell’umiliazione peggiore per le donne uno dei tratti distintivi della sua barbarie tecnologica. Idem, se non di più, per quanto riguarda l’Arabia Saudita, dove per le donne è previsto un regime sostanzialmente simile a quello messo in opera dai Talebani.

Statunitensi ed europei, lungi dal porre sanzioni (che sono riservate solo ai loro competitor o ai paesi socialisti) provvedono anzi a rinforzare l’apparato bellico della casa regnate di Ryad e di tutti gli Emirati del Golfo, che dei Talebani sono ispirazione. Inutile gridare alla minaccia terroristica quando il terrorismo è il tuo miglior alleato. Se davvero si vogliono isolare i Talebani come l’Isis o quel che resta di al-Queda, ovvero Al- Nusra, basta colpire gli emirati del Golfo. Senza i denari degli sceicchi tutti questi gruppi di tagliagole medievali rimarrebbero inerti nelle loro grotte e i mercenari che li accompagnano farebbero un rapido ritorno a casa, buoni per altre guerre.

I nostri media hanno due strade: se non vogliono dire che i nostri migliori alleati sono i leader politici e finanziari del terrorismo internazionale, gli ispiratori e organizzatori dell’orrore che insanguina Medio Oriente, Golfo Persico ed Asia centrale, smettano perlomeno di far finta di preoccuparsi per il ritorno al Medioevo dell’Afghanistan. In assenza di decenza, almeno un po’ di pudico silenzio da parte dei cantori del sacro fuoco liberista sarebbe gradito.

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