Il passo spedito del ritiro delle residue forze di occupazione americane in Afghanistan sta lasciando spazio da qualche settimana a una prepotente offensiva dei Talebani in svariate aree del paese centro-asiatico. Il ritorno al potere degli “studenti del Corano” era stato ritenuto in effetti molto probabile da molti già al momento della decisione di Joe Biden di chiudere l’impegno USA in Afghanistan. La rapidità con cui procedono i Talebani di fronte alla scarsa resistenza delle forze di sicurezza di Kabul sta tuttavia preoccupando Washington e, soprattutto, i paesi confinanti con l’Afghanistan, che temono la possibile esplosione di una guerra civile una volta che tutto il contingente militare straniero avrà lasciato il paese.

 

Dei 421 distretti in cui è suddiviso amministrativamente l’Afghanistan, i Talebani ne controllavano già circa la metà, in maniera più o meno definitiva, prima dell’inizio delle operazioni di primavera. Dai primi di maggio ne avrebbero aggiunti quasi 90, anche se i dati sono forniti dagli stessi Talebani e, in alcuni casi, smentiti dal governo centrale. Importanti progressi li hanno fatti registrare nei giorni scorsi, in particolare nel nord dell’Afghanistan, cioè al di fuori delle regioni a maggioranza Pashtun, dove prevalgono le minoranze etniche tradizionalmente ostili ai Talebani.

Particolare rumore ha fatto martedì la conquista della località di frontiera con il Tagikistan di Shir Khan Bandar, a una cinquantina di chilometri dall’importante città di Kunduz. Questo valico è posizionato lungo il fiume Pyanj ed è servito da un ponte di 700 metri, la cui costruzione era stata finanziata dagli Stati Uniti, inaugurato nel 2007 con l’obiettivo di dare un impulso agli scambi commerciali tra l’Afghanistan e gli altri paesi centro-asiatici.

In un’intervista all’agenzia di stampa francese AFP, l’analista afgano Atiqullah Amarkhail ha spiegato che “il fallimento nel difendere efficacemente un porto così importante” è indicativo di come “il governo [centrale] stia faticando a mantenere l’iniziativa sul terreno”. Secondo le autorità provinciali, davanti all’avanzata talebana molti dei militari afgani dispiegati nella zona avrebbero abbandonato in fretta le loro postazioni per cercare rifugio oltre il confine con il Tagikistan. Per il membro del consiglio provinciale di Kunduz, Khaliddin Hakmi, i Talebani avrebbero impiegato appena un’ora per prendere possesso dei check-point, del porto e del resto della città di Shir Khan Bandar.

Sempre in questi giorni sono stati segnalati scontri molto duri anche alle porte delle tre capitali delle province settentrionali di Faryab, Balkh e Kunduz. La città di Kunduz era una roccaforte dei Talebani ancora prima della presa del potere negli anni Novanta del secolo scorso ed è un centro di rilievo per le rotte commerciali nella regione. I Talebani erano riusciti a entrare a Kunduz per un breve periodo già nel 2015 e, ancora, nel 2016. Il ministero della Difesa afgano ha affermato che le forze governative avrebbero riconquistato alcuni distretti nell’area di Kunduz, ma, nella migliore delle ipotesi per Kabul, la battaglia con i Talebani è tuttora in corso.

Un’altra città forse sul punto di cadere è Mazar-i-Sharif, capitale della provincia di Balkh. Il portavoce talebano Zabihullah Mujahid ha fatto sapere che i propri combattenti sono stati fermati quando erano all’ingresso della città in seguito alla decisione della leadership degli “insorti” di attendere il ritiro di tutte le unità americane prima di mettere le mani sulla provincia. Alcuni politici locali hanno invece assicurato alla rete televisiva afgana Tolo News che per la difesa di Mazar-i-Sharif sono già stati mobilitati centinaia di uomini e, anzi, i Talebani sarebbero stati respinti dalla porta principale d’ingresso della città.

Da Kabul, fonti governative e militari continuano a ostentare un certo ottimismo per la situazione sul campo. Un portavoce delle forze armate afgane ha sostenuto che sarebbe in preparazione una massiccia controffensiva per rimediare alla perdita di territorio delle ultime settimane. Questa ipotesi appare però estremamente improbabile e sembra piuttosto che tra le forze di sicurezza e gli stessi vertici militari si stia diffondendo il panico per via dei recenti sviluppi.

Oltretutto, anche quando le forze governative intraprendono operazioni per recuperare località passate sotto il controllo dei Talebani, l’esito risulta spesso disastroso. Ad esempio, un recente tentativo di controffensiva nella provincia settentrionale di Faryab si è concluso con l’uccisione della metà dei soldati del gruppo di assalto impiegati nell’operazione, lasciati a loro stessi dopo il mancato arrivo dei rinforzi e del supporto aereo previsto.

L’ONU e gli Stati Uniti sono tornati in questi giorni a fare appello ai Talebani per finalizzare i negoziati di pace teoricamente in corso a Doha, in Qatar, con il governo-fantoccio afgano del presidente Ashraf Ghani. Se ufficialmente l’impegno a trovare un’intesa per il futuro dell’Afghanistan non è venuto meno, è evidente che i Talebani stanno approfittando del rapido ritiro delle forze di occupazione straniere per guadagnare terreno, come minimo per avvantaggiarsi in vista di un accordo politico, ma più probabilmente per controllare del tutto e al più presto le strutture del potere nel paese.

L’amministrazione Biden continua a insistere sulla possibilità di un rallentamento dell’evacuazione dei propri militari in caso di necessità, anche se, di questo passo, il ritiro potrebbe essere completato prima della scadenza dell’11 settembre fissata dal presidente. Lo stesso Biden dovrà provare a rassicurare tra qualche giorno il presidente Ghani e il suo partner di governo, Abdullah Abdullah, delle intenzioni americane di garantire che gli aiuti destinati a Kabul non si interromperanno. I due leader saranno ricevuti alla Casa Bianca e manifesteranno con ogni probabilità al presidente USA tutti i propri timori per il futuro del paese e per la loro stessa sopravvivenza politica e non solo.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la strategia di Washington per l’Afghanistan appare ormai decisa e, a giudicare dagli ultimi sviluppi, di ciò sembrano esserne consapevoli i Talebani. L’impegno di Biden è al momento indirizzato alla ricerca di un accordo con un governo della regione che sia disposto a ospitare una base militare americana o della CIA per continuare a condurre operazioni formalmente di “anti-terrorismo” in Afghanistan, ma che rispondono a un disegno strategico più ampio che punta a salvaguardare gli interessi degli Stati Uniti in un paese e in una regione dove in due decenni sono state investite risorse enormi.

In alternativa a una base, gli USA stanno cercando di conservare il controllo sull’aeroporto internazionale di Kabul. Nei giorni scorsi ha preso quota l’ipotesi del dispiegamento di un contingente di soldati turchi. La presenza militare a difesa dell’aeroporto dovrebbe servire ufficialmente a proteggere le rappresentanze diplomatiche occidentali in Afghanistan o, se la guerra dovesse arrivare nella capitale, a favorire l’evacuazione del personale americano e di altri paesi. L’idea è già stata respinta dai Talebani, visto che metterebbe in discussione la stessa sovranità del paese e, inoltre, perché nasconde a malapena lo scopo reale di garantire una base d’appoggio alle operazioni militari USA o, più probabilmente, della CIA.

Questo obiettivo si sovrappone alla competizione con paesi come Cina, Iran e Russia e implica una possibile ulteriore destabilizzazione dell’area centro-asiatica a causa appunto della situazione in Afghanistan dopo il ritiro delle forze di occupazione. Mentre per tutte o quasi le potenze regionali la presenza americana non era più sostenibile, resta forte l’apprensione per una situazione non risolta a Kabul e che, nel caso dovesse finire per degenerare, potrebbe avere gravi conseguenze al di là dei confini afgani.

Nei calcoli di Washington ci sono senza dubbio al primo posto i potenziali riflessi che l’evolversi dello scenario a Kabul potrebbe avere sulla regione dello Xinjiang cinese, regione confinante con l’Afghanistan ed esposta alla minaccia dei fondamentalisti del Movimento Islamico del Turkestan Orientale, legato ai Talebani. In una prospettiva più ampia, infatti, i rischi in questo senso potrebbero mettere in serio pericolo i piani della “Nuova Via della Seta” cinese che, in quest’area, passano attraverso il Pakistan e, in parte, lo stesso Afghanistan.

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