A sentire i media tradizionali, sembra che i talebani abbiano recuperato buona parte dell’Afghanistan - compresa Kabul - con l’uso della forza. Leggiamo e ascoltiamo termini come “riconquista”, “città caduta”, “avanzata”, ma sono fuorvianti. E anche i paragoni con il Vietnam convincono poco, perché se la ritirata Usa da Saigon fu una tragedia, quella dall’Afghanistan è molto più simile a una farsa. In realtà, la guerra di cui parliamo da giorni non esiste: i talebani si sono ripresi una sfilza di città in una manciata giorni senza combattere, semplicemente perché di fronte a loro non hanno incontrato alcuna resistenza.

 

Certo, verrebbe da pensare che dopo vent’anni di occupazione militare, centinaia di migliaia di morti e decine di miliardi di dollari spesi per esportare la democrazia (cioè eliminare Al Qaeda dopo l’11 settembre e rovesciare il regime del Mullah Omar), a questo punto l’Afghanistan debba avere delle autorità nazionali in grado di opporsi ai talebani. Invece non è così.

Nonostante tutto, uno Stato afghano non esiste, così come non è mai esistito uno Stato iracheno dopo l’esportazione della democrazia a Baghdad (anzi, gli iracheni furono lasciati nelle mani dell’Isis), né uno stato libico dopo l’esportazione della democrazia a Tripoli (dove la guerra civile è ancora in corso). Gli Stati Uniti, in un certo senso, sono coerenti: esportano letteralmente la loro democrazia, non il concetto espresso dall’etimologia greca.

Di conseguenza, l’operazione portata avanti in queste settimane somiglia molto di più a un abbandono che a una ritirata. Se la fuga dal Vietnam fu l’ammissione di una sconfitta militare, quella dall’Afganistan è frutto di un calcolo politico-economico. Ormai da un po’ il rapporto costi-benefici dell’occupazione è svantaggioso, sia in termini finanziari che di consenso elettorale. E allora perché continuare?

Il richiamo delle truppe era una scelta ovvia e le modalità con cui sta avvenendo la dicono lunga su quello che gli americani hanno (ma soprattutto non hanno) fatto in Afghanistan negli ultimi due decenni. A ben vedere, hanno ripetuto per anni che bisognava rimanere nel Paese per difendere la democrazia e i diritti delle donne, ma poi si sono limitati a creare governi di cartapesta popolati da marionette. Non hanno favorito alcuna transizione pacifica dei poteri, non hanno aiutato gli afgani a superare le divisioni tribali, non hanno innescato l’ammodernamento della società, non hanno contribuito a creare istituzioni democratiche né una classe dirigente. E non hanno nemmeno addestrato uno straccio di esercito nazionale.

Ora se ne vanno con la piena consapevolezza che l’Afghanistan sprofonderà presto nella guerra civile. È infatti probabile che i talebani non riconquisteranno per intero Paese, ma solo le posizioni che avevano prima dell’invasione americana, quindi sostanzialmente la parte meridionale e Kabul. Il resto dovrebbe rimanere in mano ai signori della guerra di altre etnie (tagiki, hazari, turkmeni), per cui il Paese tornerà a essere insanguinato dai conflitti tribali. Cosa che, naturalmente, non interessa né agli Usa né all’Europa.

La preoccupazione dell’Ue (Germania in primis) è un’altra, e cioè che qualche afghano si riversi sulla rotta balcanica con l’intenzione (e il diritto) di essere accolto come rifugiato in un Paese comunitario. Non parliamo di un’invasione biblica (qualche migliaio di persone al massimo), ma anche un flusso ridotto è intollerabile per Bruxelles, determinata come sempre a respingere tutti i profughi che può. In fondo, stiamo pagando il “dittatore” Erdogan (Draghi dixit) per intrappolare i siriani e quei macellai della guardia costiera libica per non far partire le barche piene di africani. Cosa ci impedirà di girare una bella mancia anche ai talebani?

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