La corsa contro il tempo del Congresso americano, per approvare una legge di bilancio definitiva ed evitare un nuovo “shutdown” degli uffici federali, sembra avere favorito il raggiungimento di un accordo bipartisan su cui il presidente Trump potrebbe alla fine decidere di mettere la propria firma, anche se in maniera apparentemente riluttante. Trump si è infatti detto “scontento” dei termini dell’intesa, ma nelle pieghe del testo negoziato ci sono svariate concessioni tutt’altro che insignificanti fatte dai democratici ai repubblicani e alla Casa Bianca.

Su un piano oggettivo, sostenere che la principale lobby sionista degli Stati Uniti e, più in generale, il governo di Israele e i suoi interessi hanno un’influenza enorme e nefasta sull’operato della classe politica americana corrisponde ad affermare una realtà difficilmente confutabile. Dichiarare pubblicamente questo concetto se si è un membro del Congresso di Washington o una qualsiasi personalità pubblica americana corrisponde tuttavia ad attirare su di sé una valanga di polemiche e attacchi da parte di un apparato di potere che non permette il minimo scostamento dalla linea ufficiale filo-israeliana.

La candidatura alla carica di primo ministro della principessa reale thailandese, Ubolratana Rajakanya, è durata lo spazio di pochi giorni dopo che l’attuale sovrano, Maha Vajiralongkorn, ha criticato pubblicamente la decisione senza precedenti della sorella maggiore di entrare nella competizione politica del paese del sud-est asiatico.

 

La sorte della 67enne esponente della casa reale thailandese era nelle mani della commissione elettorale che lunedì ha accolto un ricorso presentato contro la sua candidatura. Al di là dell’esito della vicenda, la controversia attorno alla candidatura della principessa Ubolratana, oltretutto per un partito considerato anti-monarchico, ha portato alla luce tutte le tensioni che pervadono la classe dirigente thailandese alla vigilia di un voto che dovrebbe ristabilire la formalità della democrazia dopo quasi cinque anni di dittatura militare.

Nel suo discorso sullo stato dell’Unione di quest’anno, martedì il presidente americano Trump ha deciso eccezionalmente di dedicare un passaggio alla minaccia che il socialismo rappresenterebbe per gli Stati Uniti. L’invettiva dell’inquilino della Casa Bianca è apparsa a molti per lo più come una mossa elettorale per cercare di infiammare la base del Partito Repubblicano a meno di un anno dall’inizio delle primarie. A ben vedere, tuttavia, la condanna del socialismo davanti al paese ha fatto intravedere la sensazione di panico che sembra avvolgere sempre di più una classe dirigente screditata di fronte al moltiplicarsi delle tensioni sociali e delle manifestazioni di opposizione contro un sistema in profonda crisi.

Il colpo di stato in Venezuela, previsto dal 30 Gennaio al 3 febbraio, è fallito. Il che non significa affatto che gli Stati Uniti abbiano ripensato al processo di destabilizzazione violenta del Paese, ma certo il “putch” sul modello di quello del 2002 è fallito. La fedeltà delle Forze Armate alla Costituzione e la lealtà al governo sia dei militari che degli oltre 1.500.000 miliziani, ha ulteriormente cimentato e solidificato quella che il chavismo chiama “l’unione civico-militare”, che altro non è se non la reciproca compenetrazione tra i due diversi ambiti della popolazione venezuelana.

 

L’idea di sollevazioni popolari contro il governo è miseramente fallita e persino il tentativo di riarmare le “guarimbas” non pare abbia successo. Il chavismo si è preso le piazze esercitando di fatto una egemonia non discutibile con la quale anche la destra più reazionaria e violenta non ama misurarsi. Benché la polarizzazione sia estrema e il paese appaia in uno stato di massima tensione, la situazione è di assoluta normalità e le cronache che raccontano di incidenti sono solo una parte dell’immenso arsenale di bugie che il mainstream spaccia per ricordare a tutti che per libertà di stampa s’intende la libertà dei gruppi editoriali che la controllano.


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