Le dimissioni finalmente annunciate martedì dal presidente algerino, Abdelaziz Bouteflika, sono state di fatto imposte alla cerchia di potere dell’anziano leader dai vertici militari dopo settimane di pressioni generate dalle manifestazioni popolari di protesta. Che l’iniziativa sia in grado di soddisfare i dimostranti resta però difficile da credere, dal momento che essa appare in larga misura il tentativo disperato del regime di conservare il controllo sul paese nordafricano.

 

Il passo decisivo verso la liquidazione di Bouteflika era stato fatto la settimana scorsa, quando il comandante delle forze armate algerine, generale Ahmed Gaid Salah, aveva “invitato” la camera alta del parlamento di Algeri a emettere una dichiarazione di incapacità a governare nei confronti del presidente in base al dettato dell’articolo 102 della Costituzione. L’appello dell’alto ufficiale algerino prendeva le mosse a livello ufficiale dall’infermità di Bouteflika, di fatto incapace di parlare e deambulare a causa di un ictus che lo aveva colpito nel 2013.

 

 

In realtà, l’intenzione era quella di offrire la testa di Bouteflika ai contestatori, nella speranza di contenere le spinte rivoluzionarie in atto e incanalare la transizione politica verso un processo sostanzialmente innocuo per la stabilità del regime. Se non altro, ciò era evidente anche dal fatto che le condizioni di salute di Bouteflika non avevano impedito al suo entourage, con l’appoggio dei militari stessi, di candidarlo a un quinto mandato presidenziale ai primi di febbraio, scatenando appunto le manifestazioni tuttora in corso.

 

Bouteflika o, meglio, i poteri dietro la sua persona si erano trovati probabilmente spiazzati dall’uscita del generale Salah, visto che questa fazione del “pouvoir” algerino puntava su un precedente piano, reso noto l’11 marzo scorso. In base a esso, il presidente avrebbe rinunciato a ricandidarsi, ma le elezioni, previste per metà aprile, sarebbero stato rimandate indefinitamente in attesa della riscrittura della Costituzione da parte di una speciale commissione.

 

Dopo la mossa dei militari, il clan presidenziale aveva cercato di evitare l’umiliazione di una deposizione di Bouteflika su iniziativa del parlamento algerino. Al presidente era stata così attribuita lunedì la decisione di dimettersi entro il 28 aprile prossimo, ma il giorno successivo la vicenda ha subito un’accelerazione improvvisa, determinata in primo luogo dal rifiuto dei manifestanti ad accettare il piano di Bouteflika. Il generale Salah aveva allora sollecitato l’applicazione immediata della procedura di rimozione del presidente da parte del parlamento, convincendo alla fine Bouteflika a desistere e a farsi da parte da subito.

 

Il presidente aveva comunque cercato di riaffermare le proprie prerogative presidenziali fino in fondo, nominando un nuovo governo il 31 marzo scorso. Il gabinetto sostituiva quello creato poco prima e in esso erano stati riservati incarichi di spicco per i militari. Il premier, tuttavia, resta il fedelissimo del presidente, l’ex ministro dell’Interno Noureddine Bedoui, anche se il numero due del nascente esecutivo è proprio il generale Salah.

 

L’incognita maggiore resta ora la tenuta del compromesso imposto dai militari agli ambienti presidenziali, vale a dire due delle anime del regime, di fronte alla quasi certa intensificazione delle proteste di piazza. La popolazione che sta manifestando in Algeria vede infatti nelle manovre di questi giorni non tanto la promessa di un cambiamento genuino, bensì la conferma dell’immutabilità di un regime corrotto, irriducibilmente ostile alle richieste provenienti dal basso e intento esclusivamente a conservare la propria posizione di potere.

 

A succedere in qualità di presidente ad interim a Bouteflika sarà il presidente del Consiglio della Nazione, ovvero il Senato algerino, come previsto dalla Costituzione. A ricoprire questo incarico è un’altra personalità vicina al presidente, Abdelkader Bensalah, membro del Raggruppamento Nazionale Democratico (RND), partito alleato del Fronte di Liberazione Nazionale (FLN) che guida il paese fin dall’indipendenza dalla Francia nel 1962.

 

I prossimi sviluppi della crisi algerina sono ancora in buona parte incerti, ma sembra tutt’altro che da escludere un’escalation dello scontro nel paese. Mentre i dimostranti nelle piazze continuano a chiedere un cambiamento radicale, per i vertici del regime le misure cosmetiche finora annunciate o implementate sono tutto ciò che può essere ragionevolmente concesso. Nella transizione che si prospetta potrebbe tutt’al più venire cooptato qualche leader di partiti o movimenti di opposizione, spesso però con precedenti non esattamente ostili al FLN o ai militari. Oltre a ciò, è legittimo immaginare il ricorso alla forza per soffocare le proteste, come aveva lasciato intendere in maniera nemmeno troppo ambigua lo stesso generale Salah la settimana scorsa. Per il momento, il percorso costituzionale prevede l’organizzazione di nuove elezioni entro 90 giorni dall’insediamento del nuovo presidente ad interim.

 

Con la minaccia che incombe sulle proprie posizioni di privilegio, le varie fazioni della classe dirigente algerina si stanno nel frattempo già scontrando in una guerra intestina utile anche a ristabilire le gerarchie nel controllo delle ricchezze del paese, così come a individuare e sacrificare possibili capri espiatori.

 

L’eco del conflitto in corso è trapelato in questi giorni dopo che la magistratura algerina ha disposto alcuni provvedimenti ai danni di importanti uomini d’affari in buona parte legati al clan Bouteflika. I passaporti di una decina di imprenditori sotto indagine per corruzione sono stati ritirati, mentre a tutti i velivoli privati appartenenti a cittadini algerini è stato fatto divieto di decollare dagli aeroporti del paese fino al 30 aprile prossimo.

 

Domenica, invece, uno degli imprenditori più noti in Algeria, Ali Haddad, anch’egli vicino agli ambienti del presidente, era stato arrestato al confine con la Tunisia mentre cercava di lasciare il paese con una somma di denaro non dichiarata e di molto superiore a quella consentita dalla legge.

 

Su un altro fronte, infine, i vari apparati dello stato in competizione tra di loro sembrano essere anch’essi protagonisti di uno scontro molto duro. Il generale Salah, comandante delle forze armate algerine, nei giorni scorsi ha infatti puntato il dito contro i servizi segreti (“Département du renseignement et de la sécurité” o DRS) perché colpevoli di avere collaborato clandestinamente con la Francia in queste settimane.

 

Le accuse sono state respinte in modo fermo dalla potente intelligence algerina, ma la disputa evidenzia chiaramente l’intenzione dei militari di attribuire a forze e cospirazioni esterne la responsabilità della crisi nel paese, assumendo nel contempo il ruolo di difensori dell’integrità dello stato e di interpreti del sentimento popolare proprio mentre si preparano invece a mettere in atto la repressione.

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