Le elezioni locali di domenica scorsa in Turchia si sono chiuse con un bilancio in chiaroscuro per il presidente, Recep Tayyip Erdogan, a circa nove mesi di distanza dal voto che aveva ratificato l’assunzione di ampi poteri da parte di quest’ultimo, come previsto dal referendum costituzionale del 2017. Il partito Giustizia e Sviluppo (AKP) resta infatti di gran lunga la principale forza politica del paese euro-asiatico, ma le sconfitte incassate nella capitale, Ankara, e in altre grandi città turche, inclusa forse Istanbul, indicano un’opposizione crescente che sembra trovare solo un’eco parziale nei risultati della consultazione.

 

 

Complessivamente, i consensi raccolti dall’AKP e dall’alleato, il Partito del Movimento Nazionalista (MHP) di estrema destra, hanno toccato il 52%, pari a circa mezzo punto percentuale in meno rispetto alle elezioni generali del giugno 2018. Per Erdogan è stato facile proclamarsi vincitore del voto, dal momento che la principale coalizione di opposizione, riunita nella cosiddetta “Alleanza Nazionale”, si è fermata al 42%. Di essa fanno parte i kemalisti del Partito Popolare Repubblicano (CHP), con il 37% su base nazionale, il Buon Partito (IYI), di orientamento laico conservatore, e il Partito Popolare Democratico (HDP) curdo.

 

I riflettori della stampa locale e internazionale si sono puntati inevitabilmente sulle competizioni di Ankara e Istanbul. Nella capitale, il candidato dell’AKP, l’ex ministro dell’Ambiente Mehmet Özhaseki, ha ceduto il passo a quello del CHP, Mansur Yavas, sigillando il passaggio di consegne tra i due partiti dopo ben 25 anni. Lo stesso partito di opposizione, considerato il bastione della borghesia laica filo-occidentale e dei militari, si è anche confermato nella sua roccaforte di Izmir ed ha conquistato le città di Antalya e Adana sulla costa del Mediterraneo.

 

L’AKP si è confermato invece a Bursa e ha prevalso soprattutto ancora una volta nelle aree rurali e più conservatrici dell’interno e nella parte orientale del paese. Particolarmente grave potrebbe essere poi la possibile sconfitta di Istanbul, dove i candidati di AKP e CHP sono protagonisti di un testa a testa. I primi dati indicavano l’ex primo ministro di Erdogan, Binali Yildirim, in vantaggio per poche miglia di voti sui quasi 8,5 milioni espressi. Dopo alcune ore, la situazione si è però ribaltata e il candidato del CHP, Ekrem Imamoglu, è ora accreditato di un leggero vantaggio. Lo stesso Imamoglu aveva parlato di “manipolazioni” dopo che Yildirim si era dichiarato vincitore e aveva assicurato i suoi sostenitori che i dati in possesso del CHP gli assegnavano una vittoria agevole.

 

Salvo sorprese, l’esito del voto a Istanbul rimarrà in bilico e il vincitore non sarà annunciato a breve. La città più popolosa ed economicamente sviluppata della Turchia ricopre un valore simbolico decisivo per l’AKP e il presidente Erdogan. Qui, l’attuale presidente aveva iniziato la sua marcia verso il potere a livello nazionale, conquistando la carica di sindaco nel 1994. Controllando Istanbul, inoltre, l’AKP ne controlla anche le risorse economiche e intellettuali, coltivando al contempo una rete clientelare e una base elettorale fondamentale in chiave nazionale.

 

Visto il bacino elettorale coinvolto, la sconfitta di Ankara e quella possibile di Istanbul, al di là del risultato complessivo dell’AKP, rappresentano dunque uno schiaffo per Erdogan, il quale aveva imposto i propri candidati in entrambe le metropoli. Il presidente turco ha poi condotto una campagna elettorale dai toni duri e cupissimi, impegnandosi in prima persona per presentare il voto di domenica come una questione di “sopravvivenza” per il paese, minacciato da cospirazioni di paesi stranieri e, sul fronte domestico, dalle trame di rivali politici – come il CHP – accusati di essersi alleati con i “terroristi” curdi.

 

Se, ad esempio, alcuni distretti di Istanbul, dove il voto per l’AKP non era mai stato in dubbio negli ultimi due decenni, hanno optato in maggioranza per l’opposizione, in altre aree del paese il partito di Erdogan ha fatto segnare risultati relativamente sorprendenti che hanno contribuito a garantirne la tenuta. Ciò è accaduto in particolare nel sud-est della Turchia a maggioranza curda. Qui, il partito curdo HDP ha conservato il controllo sulla principale città, Diyarbakir, ma ha perso in numerosi altri centri più piccoli, spesso a beneficio dell’AKP.

 

In generale, il voto di domenica conferma la tendenza sfavorevole a Erdogan, emersa almeno dalle elezioni dello scorso anno che avevano costretto l’AKP a cercare i voti degli ultra-nazionalisti dell’MHP per mettere assieme una maggioranza di governo. Il rallentamento prolungato dell’economia turca fino all’ingresso ufficiale in recessione nel mese di marzo, a causa anche dei dazi americani, è il primo fattore che pesa sulla popolarità di Erdogan e del suo partito dopo anni di crescita impetuosa.

 

La crisi interna alla Turchia è però anche il prodotto della deriva autoritaria in corso e, ancor più, della politica estera del presidente, in particolare riguardo al coinvolgimento nel conflitto in Siria. Il sostegno iniziale alle formazioni integraliste e l’allineamento alle manovre di cambio di regime di Washington hanno in seguito lasciato il posto alla collaborazione con Mosca e Teheran in risposta alla scelta degli Stati Uniti di puntare sulle milizie curde per combattere lo Stato Islamico (ISIS) e mantenere un contingente militare in territorio siriano.

 

Le tensioni erano aumentate anche dopo il fallito golpe contro Erdogan del luglio 2016, tacitamente appoggiato dagli Stati Uniti e seguito da un rapido consolidamento dei rapporti col Cremlino che ha portato, tra l’altro, all’acquisto da parte turca del sistema anti-missilistico russo S-400, fermamente criticato dall’amministrazione Trump.

 

In definitiva, come ha spiegato lunedì il commentatore turco Abdulkadir Selvi sul quotidiano Hurriyet, in apparenza gli elettori “hanno dato un avvertimento al governo senza tuttavia provocare eccessiva instabilità”. Più probabilmente, la frustrazione crescente nei confronti di Erdogan e dell’AKP non sembra ancora trovare uno sfogo adeguato per l’elettorato turco, alla luce della diffidenza diffusa verso i kemalisti del CHP. Questo partito è identificato infatti con l’élite occidentalizzata e, soprattutto, in riferimento agli anni precedenti il 2002, durante i quali ha guidato a lungo il paese, viene associato principalmente con austerity e sostegno a svariati colpi di stato militari.

 

L’instabilità che la classe dirigente turca spera di scongiurare dopo il voto di domenica potrebbe in realtà caratterizzare i prossimi anni di governo Erdogan. Se lo stesso presidente ha ricordato che il prossimo appuntamento con le urne sarà tra più di quattro anni, così che le minacce alla sua posizione risulteranno virtualmente inesistenti per molto tempo, l’evoluzione del quadro interno e di quello regionale minacciano in realtà un inasprimento del clima domestico e internazionale.

 

Senza alcuna preoccupazione di ordine elettorale, per far fronte alla crisi economica Erdogan si prepara infatti ad attuare una serie di “riforme” economiche in senso neo-liberista che aggraveranno la posizione delle classi più deboli che costituiscono una buona parte della base dell’AKP. Il governo di Ankara, infine, appare sempre più vicino a scatenare una delicata operazione militare oltre il confine siriano contro le forze curde alleate del PKK e in diretta opposizione con Washington, Mosca e Damasco, in modo da eliminare in maniera definitiva quella che viene percepita come una minaccia vitale e inaccettabile all’unità della Turchia.

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