A pochi giorni da quello che dovrebbe o avrebbe dovuto essere un nuovo tentativo sponsorizzato dalle Nazioni Unite per cercare di risolvere pacificamente la crisi in Libia, le forze del cosiddetto Esercito Nazionale libico di Khalifa Haftar hanno lanciato un’offensiva militare contro la capitale, Tripoli, con l’obiettivo di estendere la propria influenza sulla parte occidentale del paese, tuttora sotto il fragile controllo di un governo-fantoccio teoricamente riconosciuto da tutta o quasi la comunità internazionale.

 

Le vicende di questi giorni hanno già provocato intense battaglie e decine di morti e feriti in parallelo all’avanzata di Haftar alle porte di Tripoli, mentre lunedì si sono registrati bombardamenti sull’unico scalo aereo ancora funzionante della capitale. L’annuncio della nuova iniziativa militare la scorsa settimana era stato accolto dalla mobilitazione da parte del capo del Governo di Accordo Nazionale, Fayez al-Sarraj, delle forze che lo sostengono e ne consentono la sopravvivenza, vale a dire svariate milizie locali, incluse alcune di orientamento islamista, tra cui le più potenti e meglio armate di stanza nelle località di Misurata e Zintan.

 

 

Con l’evolversi della situazione sul campo, avvertono molti osservatori, non è da escludere che l’ultimo capitolo dello scontro per il controllo della Libia post-Gheddafi possa essere risolto o, quanto meno, messo in pausa dal passaggio allo schieramento di Haftar di una o più milizie finora fedeli al governo di Tripoli, ovviamente dietro cospicui pagamenti.

 

L’ex generale di Gheddafi, diventato oppositore e aspirante golpista prima di riparare negli Stati Uniti sotto la protezione della CIA, dispone d’altra parte di sostenitori importanti in grado di garantirgli armi e denaro. Com’è noto, dietro a Haftar ci sono in primo luogo Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, ma anche, in maniera meno esplicita, Francia e Russia.

 

Questo sdoppiamento dell’appoggio internazionale ai due principali centri di potere presenti oggi in Libia è il risultato della divergenza di interessi strategici – petroliferi e non solo – tra le varie potenze regionali e internazionali, rimescolati dall’evento che ha provocato il baratro in cui è precipitato quello che prima del 2011 era il paese africano più sviluppato, cioè l’aggressione militare contro il regime di Gheddafi mascherata da “rivoluzione” democratica.

 

L’assalto contro Tripoli da parte di Haftar è la logica conseguenza delle attività degli ultimi mesi del generale “ribelle” che ha la propria base di potere in Cirenaica, nell’est della Libia. Recentemente, i suoi uomini avevano messo le mani su importanti pozzi petroliferi nel sud e nel sud-ovest del paese, ma solo la conquista della capitale gli permetterebbe di controllare, tra l’altro, i flussi finanziari derivanti dall’esportazione di greggio e, di conseguenza, all’ex generale di Gheddafi di raggiungere l’obiettivo di unificare il paese e installarsi al potere come nuovo uomo forte in grado di pacificare un paese dilaniato dalle divisioni.

 

Se i media ufficiali continuano a parlare di un’operazione militare lanciata a sorpresa contro Tripoli, i segnali di un’offensiva imminente da parte di Haftar erano noti da tempo. Nonostante la condanna delle Nazioni Unite e di altri governi, il peso dei suoi sponsor ha facilitato l’attuazione dei piani militari. L’iniziativa di Haftar è vista però anche con un certo favore almeno da una parte della popolazione libica, indubbiamente ben disposta ad accettare un nuovo leader con un progetto autoritario e populista che metta fine al caos totale degli ultimi sette anni.

 

L’operazione contro Tripoli comporta tuttavia più di un’incognita per l’ Esercito Nazionale di Haftar. Un eventuale protrarsi del conflitto nella capitale potrebbe richiedere maggiori risorse di quelle a disposizione dell’ex generale libico, esponendo le sue forze ad attacchi di altre milizie o di formazioni islamiste nelle aree del paese sotto il suo controllo. Non solo, il riesplodere della guerra civile e un nuovo bagno di sangue finirebbero per delegittimare Haftar agli occhi dei libici, impedendogli di fatto di presentarsi come figura pacificatrice del paese.

 

Qualcuno ritiene infatti che l’attacco di questi giorni punti più che altro a porre  Haftar in una posizione di forza in previsione di un processo diplomatico che dovrà prima poi costituire la base per un’uscita dalla crisi, sia che esso si apra a breve, come originariamente in programma, o in un futuro indefinito. Nel valutare la situazione odierna della Libia è in ogni caso necessario tenere in considerazione le intenzioni e gli obiettivi degli attori esterni al paese.

 

Dietro al dualismo Haftar-Sarraj c’è in primo luogo una competizione soprattutto tra Francia e Italia che si gioca attorno al controllo o al tentativo di accedere alle risorse petrolifere libiche. Lo stesso intervento militare contro Gheddafi nel 2011 era stato promosso in primo luogo proprio dalla Francia e aveva a che fare precisamente con gli interessi energetici di questo paese in Libia.

 

Gli interessi e gli obiettivi italiani, anche se quasi sempre difesi e dati per legittimi da praticamente tutta la stampa del nostro paese, non sono meno predatori di quelli della Francia o di altri governi che guardano alla Libia. Assieme a quelli petroliferi, tramite il ruolo consolidato dell’ENI, ci sono poi quelli se possibile ancora meno nobili legati alla questione migratoria.

 

Il governo di Roma sostiene cioè il governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli perché con esso ha stipulato accordi che servono a tenere i migranti lontani dalle coste italiane. Parigi, a sua volta, ha costruito rapporti molto stretti con Haftar anche in funzione della necessità di stabilizzare le aree desertiche meridionali della Libia limitrofe a paesi, come Mali o Niger, nei quali la Francia mantiene propri contingenti militari con il compito ufficiale di combattere il terrorismo fondamentalista.

 

Tutti questi fattori vanno ad aggiungersi e si intrecciano anche allo scontro tra le potenze mediorientali e nordafricane che stanno influendo sulle vicende libiche. I principali sostenitori di Haftar – Emirati Arabi e, soprattutto, Egitto e Arabia Saudita – sono nemici giurati dei Fratelli Musulmani e gruppi armati collegati a questa organizzazione islamista transazionale figurano tra le milizie che permettono al governo di Tripoli di sopravvivere. Questo conflitto ha dimensioni ovviamente più ampie, dal momento che dalla parte dei Fratelli Musulmani si schierano paesi come Turchia e Qatar, entrambi in termini non esattamente amichevoli con Il Cairo o Riyadh.

 

La posizione degli Stati Uniti, che lunedì hanno evacuato il loro contingente militare in Libia, appare infine ancora in buona parte da definire. A livello ufficiale, Washington sostiene il governo Sarraj, tanto che nel fine settimana il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha invitato Haftar a interrompere l’offensiva contro Tripoli e richiesto “il ritorno allo status quo ante”. L’amministrazione Trump sembra in generale poco interessata a intervenire nel caos libico e, soprattutto, nutre forti sospetti sull’appoggio di Mosca a Haftar.

 

Quest’ultimo, come già ricordato, è tuttavia un ex “asset” della CIA, avendo guidato in passato un fallito colpo di stato contro Gheddafi sponsorizzato da Washington. Nonostante i rischi di destabilizzazione e di “infiltrazioni” russe in Libia, è quindi ragionevole pensare che gli Stati Uniti abbiano già messo in preventivo la possibile ascesa al potere di Haftar, sul quale, visti i precedenti e il ruolo degli alleati egiziani e sauditi, saranno verosimilmente in grado di esercitare una certa influenza.

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