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Il Partito Conservatore britannico martedì ha annunciato ufficialmente la vittoria di Boris Johnson nella corsa alla leadership grazie alla netta affermazione contro l’ultimo sfidante rimasto in corsa, l’attuale ministro degli Esteri, Jeremy Hunt. L’ex sindaco di Londra ed ex membro del governo di Theresa May diventerà a breve anche il nuovo primo ministro, ma il suo prossimo incarico rischia di diventare da subito un campo minato, con la crisi della Brexit pronta a riesplodere, assieme ad altre questioni internazionali caldissime, dal confronto in atto con l’Iran ai rapporti con gli Stati Uniti di Donald Trump.
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Se le elezioni di domenica per il rinnovo della metà dei seggi del Senato giapponese hanno premiato come previsto il Partito Liberal Democratico (LDP) di governo, il primo ministro Shinzo Abe ha visto sfumare uno degli obiettivi principali dell’appuntamento con le urne. I risultati hanno confermato l’attuale maggioranza alla camera alta (Camera dei Consiglieri) del parlamento di Tokyo (Dieta), ma il premier non è stato in grado di conquistare i due terzi dei seggi, necessari ad approvare una riforma costituzionale da tempo auspicata da una parte della classe dirigente del paese asiatico.
In Giappone, la metà dei membri del Senato viene rinnovata ogni tre anni e il loro mandato di sei anni non è soggetto a scioglimento anticipato, come può accadere invece per la camera bassa, o dei Rappresentanti, investita però di poteri più ampi. Nella tornata elettorale conclusasi domenica scorsa erano in palio 124 seggi, assegnati in parte col sistema maggioritario (74) e in parte col proporzionale (50). I seggi complessivi del Senato giapponese sono aumentati a 245 in seguito a una recente riforma elettorale e diventeranno 248 dopo il voto del 2022.
In termini assoluti, la vittoria del LDP e del suo alleato, il partito Komeito di ispirazione buddista, è stata ancora una volta piuttosto netta. Le due formazioni hanno ottenuto 71 seggi – rispettivamente 57 e 14 – e, se a essi si sommano quelli di altri partiti favorevoli al cambiamento della Costituzione, il totale sale a 81. Aggiungendo il numero dei seggi non interessati dal voto di domenica, in tutto le forze su cui Abe può teoricamente contare per modificare la carta costituzionale nipponica avrebbero una maggioranza di 160, appena inferiore ai 164 che garantirebbero i due terzi del totale.
Dal momento che la vittoria della destra giapponese era del tutto scontata, il mancato raggiungimento della quota utile a riformare la Costituzione rappresenta un motivo di imbarazzo per il primo ministro. Fin dal suo ritorno al governo nel dicembre del 2012, Abe aveva promosso la legittimazione formale delle forze armate del suo paese, ufficialmente bandite dalla carta costituzionale.
L’articolo 9 della Costituzione del Giappone stabilisce infatti il divieto per questo paese di avere un esercito, coerentemente con lo spirito pacifista imposto dagli Stati Uniti al termine della Seconda Guerra Mondiale. Abe si è fatto da tempo interprete di quelle élites giapponesi che vedono queste imposizioni come un vincolo da cui liberarsi per poter perseguire le proprie ambizioni da grande potenza. Tanto più in un clima segnato da crescenti rivalità internazionali. Fin dal 1954, peraltro, il Giappone dispone di una “Forza di Auto-Difesa” che, di fatto in violazione della Costituzione, è a tutti gli effetti un esercito, anche se ufficialmente non ritenuto tale e sottoposto perciò ad alcune restrizioni delle proprie attività.
Alla chiusura delle urne, il primo ministro giapponese ha lasciato intendere che proverà a cercare tra le opposizioni al Senato i consensi necessari a raggiungere i due terzi per modificare la Costituzione. Anche all’interno della sua coalizione rimangono tuttavia perplessità e resistenze, soprattutto nel Partito Komeito, sia per ragioni di natura politica sia soprattutto per via della freddezza della popolazione all’idea di liquidare una carta formalmente all’insegna del pacifismo.
La procedura per la riforma della Costituzione giapponese prevede un voto a maggioranza di due terzi in entrambi i rami della Dieta. A differenza del Senato, nella camera bassa LDP e Komeito dispongono di questa “super-maggioranza”. Le proposte di modifica devono essere poi ratificate da un referendum popolare. Visti gli equilibri in parlamento, in molti nel centro-destra giapponese vedono con apprensione possibili laceranti battaglie politiche per assicurarsi i due terzi dei voti e per vincere una consultazione popolare che, al momento, appare quanto meno incerta.
Ciò che interessa realmente agli elettori sono altri temi molto più concreti. L’insostenibilità del sistema pensionistico in un paese che invecchia rapidamente e il prossimo aumento della tassa sui consumi dall’8% al 10% sono tra le questioni più sentite e, in merito a esse, la fiducia nei confronti del governo non è esattamente alle stelle. Nel quadro politico giapponese odierno, Shinzo Abe e il suo partito incontrano comunque poca o nessuna seria opposizione, ma i ripetuti successi elettorali che essi hanno registrato negli ultimi anni sono in buona parte il risultato della mancanza di reali alternative di governo. Se si tiene conto di ciò, alcuni segnali giunti dal voto di domenica indicano l’emergere di un certo malessere tra l’elettorato.
Per cominciare, l’affluenza non è arrivata nemmeno al 49%, cioè il dato più basso degli ultimi 24 anni. Alcuni partiti di opposizione hanno poi evidenziato una timida ripresa, malgrado le divisioni, il discredito diffuso e l’assenza di un progetto politico efficace. Il Partito Costituzionale Democratico (CDPJ), fondato da ex membri del defunto Partito Democratico (DPJ), al potere con risultati disastrosi tra il 2009 e il 2012, ha aumentato i propri seggi da 9 a 17 tra quelli che erano soggetti a rinnovo nella giornata di domenica.
Il Partito dell’Innovazione di destra ha anch’esso fatto segnare progressi, mandando oltretutto per la prima volta in parlamento un proprio candidato eletto al di fuori della regione di Osaka, dove è nato e trova gran parte della sua base elettorale. Almeno un paio di partiti minori sono riusciti a ottenere seggi nella camera alta, ma il loro peso rimane per il momento trascurabile. A conferma di un quadro complessivo comunque non esaltante per l’opposizione, altre formazioni risultano in leggera flessione, come il Partito Democratico Popolare e quello Comunista, mentre quello Social Democratico, in passato principale forza di opposizione in Giappone, ha a malapena superato lo sbarramento del 2%, assicurandosi appena un seggio.
La posizione complessiva di Shinzo Abe rimane dunque solida, ma nella parte finale di quello che dovrebbe essere il suo ultimo mandato alla guida del paese, come previsto dalle regole interne del LDP, non mancheranno difficoltà e sfide complesse. Oltre al possibile riemergere delle accuse di corruzione che lo hanno visto implicato in un paio di scandali per avere fatto favori ad amici e sostenitori, il primo ministro si ritroverà a gestire una situazione interna segnata da un’economia perennemente stagnante. In questo ambito aumenteranno le pressioni sia dei poteri forti per l’implementazione di dolorose “riforme strutturali” sia della maggior parte della popolazione per ritirare l’aumento della tassa sui consumi e per rendere più sicura la copertura pensionistica.
Ancora più tesa si presenta infine l’agenda internazionale. Il problema principale avrà probabilmente a che fare con la necessità di trovare un equilibrio tra la salvaguardia dell’alleanza strategica con gli Stati Uniti e il tentativo di limitare le ritorsioni commerciali dell’amministrazione Trump in attesa degli sviluppi che dovrebbero portare a un accordo di libero scambio tra i due paesi.
Nell’immediato, Tokyo dovrà far fronte anche al rapido deteriorarsi dei rapporti con la Corea del Sud attorno alla questione dei risarcimenti che quest’ultimo paese intende ricevere per gli anni dell’occupazione nipponica. In agenda ci sono inoltre le relazioni con la Cina, recentemente in fase ascendente dopo essere precipitate negli anni scorsi, l’esclusione dal processo diplomatico in atto in Corea del Nord e la ratifica di un trattato di pace definitivo con la Russia, vincolato a una difficile soluzione del nodo delle isole Curili meridionali (Territori del Nord per il Giappone), rivendicate da Tokyo ma controllate da Mosca dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
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Nelle acque del Mediterraneo orientale continua a non trovare soluzione la disputa sui diritti di esplorazione di nuovi giacimenti di gas naturale che oppone la Turchia e l’auto-proclamata Repubblica Turca di Cipro del Nord da una parte alla Repubblica di Cipro riconosciuta internazionalmente, alla Grecia e all’Unione Europea dall’altra.
La scoperta dei depositi al largo dell’isola di Cipro aveva convinto il governo di Nicosia, membro dell’UE, a concedere licenze di esplorazione ad alcune multinazionali dell’energia, tra cui ENI, la francese Total e l’americana ExxonMobil. La decisione aveva provocato dure proteste da parte di Ankara, da dove nei mesi scorsi erano state inviate navi militari a sud-est della costa cipriota. In almeno un’occasione, la marina militare turca aveva anche ostacolato le operazioni di una nave di Saipem diretta in un’area da esplorare sulla quale ENI detiene i diritti di concessione.
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Con un decreto palesemente illegale entrato in vigore martedì, il presidente americano Trump ha di fatto abolito il diritto all’asilo per la gran parte degli immigrati che cercano di fuggire da condizioni di vita disperate per trovare rifugio negli Stati Uniti. La nuova norma, che finirà ben presto nelle aule dei tribunali americani, è solo l’ultimo attacco contro i diritti democratici dei migranti e consolida cupamente la deriva neo-fascista dell’amministrazione repubblicana.
Il presidente Trump, sotto dettatura dei consiglieri di estrema destra come il fidato Stephen Miller, ha stilato un “ordine” esecutivo che calpesta sia il diritto internazionale sia le stesse leggi degli Stati Uniti. Nel concreto, le autorità di frontiera dovranno respingere sommariamente le domande di asilo, presentate presso i regolari valichi al confine con il Messico, di coloro che hanno mancato di farne richiesta nel primo paese attraversato sulla rotta verso gli Stati Uniti.
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Nei giorni scorsi, la Turchia ha ricevuto i primi componenti del sistema difensivo anti-aereo russo S-400, fortemente osteggiato dagli Stati Uniti e dagli alleati della NATO. L’arrivo del sofisticato equipaggiamento bellico da Mosca segna un momento forse cruciale nel processo di riorientamento strategico in corso ad Ankara e prospetta nell’immediato futuro un ulteriore passo verso il deteriorarsi dei rapporti tra il governo di Erdogan e l’Occidente.
L’amministrazione Trump aveva cercato in tutti i modi di dissuadere la Turchia dall’installare l’S-400 sul proprio territorio. Con l’aumentare delle pressioni, tuttavia, Erdogan si è ritrovato in una posizione tale che, qualsiasi passo indietro, avrebbe finito per indebolirlo politicamente in un momento già delicato sia sul fronte domestico sia su quello internazionale.
La reazione americana alla decisione turca di non rescindere il contratto d’acquisto del sistema missilistico russo non dovrebbe farsi attendere a lungo. I giornali americani hanno parlato di una Casa Bianca pronta ad applicare sanzioni contro Ankara, dopo che già nelle scorse settimane erano stati presi provvedimenti per escludere l’alleato NATO dal progetto collettivo per la produzione dei costosissimi aerei da guerra F-35.
L’addestramento di decine di piloti turchi era stato sospeso, mentre molto probabile resta l’ipotesi di cancellare la vendita di un centinato di F-35 destinati ad Ankara, così come lo stop alla produzione in Turchia di alcune parti di questi stessi aerei. L’uscita forzata della Turchia dal progetto F-35 sarebbe un colpo molto pesante per il paese euroasiatico, alla luce degli ingenti investimenti fatti, ma avrebbe anche ripercussioni sugli scenari regionali che coinvolgono gli Stati Uniti, come ad esempio la crisi siriana.
L’amministrazione Trump avrebbe comunque già individuato un pacchetto di sanzioni da adottare contro la Turchia. L’imposizione di misure punitive per i paesi che acquistano armi e tecnologia militare dalla Russia è d’altra parte un obbligo previsto da una legge del Congresso di Washington del 2017 (CAATSA o “Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act”). Il presidente ha facoltà di sospenderne l’implementazione ad alcune condizioni, ma la sola ipotesi ha già incontrato l’opposizione bipartisan della maggioranza di deputati e senatori americani.
Il dipartimento di Stato, quello della Difesa e il Consiglio per la Sicurezza Nazionale avrebbero comunque stabilito quali sanzioni devono essere prese contro la Turchia, anche se al momento non se ne conoscono i particolari. La legge CAATSA prescrive l’imposizione di almeno cinque sanzioni su un ventaglio di dodici che includono, tra l’altro, restrizioni alla vendita di armamenti americani e revoca di visti per esponenti politici o militari.
Sulla decisione avrà l’ultima parola il presidente Trump. Ciò lascia spazio a una certa incertezza, vista l’imprevedibilità della Casa Bianca. Durante il recente G-20 di Osaka, infatti, Trump aveva espresso una certa solidarietà a Erdogan, la cui decisione di ricorrere all’S-400 era stata caratterizzata come un’azione obbligata dopo i ripetuti rifiuti di Obama di fornire alla Turchia i Patriot americani. Per molti osservatori, così come per lo stesso Erdogan, queste dichiarazioni lasciavano intendere una possibile decisione del presidente USA contro eventuali sanzioni.
Più che la volubilità di Trump, a risultare determinante sulle reazioni di Washington dovrebbe essere ad ogni modo il timore che sanzioni troppo pesanti finiscano per spingere ancora di più Erdogan nelle braccia della Russia. La chiusura parziale o totale dei canali di forniture militari alla Turchia, ad esempio, aprirebbe la strada a nuovi accordi militari tra Ankara e Mosca. La prima nuova opportunità per la Russia sarebbe probabilmente la vendita dei propri jet da guerra Sukhoi Su-57, con tutte le conseguenze del caso in termini economici ma anche e soprattutto di “fiducia” nei confronti dei paesi NATO e, in primo luogo, degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’S-400, i vertici del Patto Atlantico e dei singoli paesi membri nutrono forti preoccupazioni circa la capacità di questo sistema di raccogliere informazioni sensibili sui propri potenziali bersagli. Gli F-35 e, più in generale, la tecnologia “stealth”, rischiano nel prossimo futuro di non avere più segreti per la Russia, erodendo così il teorico vantaggio militare che gli USA ritengono di conservare sui propri rivali.
Le sanzioni che la Casa Bianca dovrebbe imporre alla Turchia saranno rinviate di almeno qualche giorno. A conferma di rapporti bilaterali ai minimi storici, l’amministrazione Trump intende evitare di far coincidere l’annuncio di misure punitive con l’anniversario dello sventato colpo di stato contro Erdogan del 15 luglio 2016, proprio perché dietro a esso ci furono probabilmente e in qualche modo gli Stati Uniti. Oltretutto, secondo alcune ricostruzioni, fu il Cremlino ad allertare Erdogan del tentato golpe, dando al presidente turco il tempo e la possibilità di neutralizzare il piano.
La ricorrenza contribuisce poi a ricordare i motivi che hanno allontanato in questi anni la Turchia dagli Stati Uniti. Il progetto della tentata rimozione di Erdogan fu attribuito dal governo di Ankara ai seguaci del predicatore turco in esilio negli USA, Fethullah Gulen, ritenuto da molti un uomo della CIA. Dall’estate del 2016, Erdogan ne chiede l’estradizione, ma il governo americano si è sempre rifiutato di acconsentire.
L’altro fattore determinante nel far precipitare le relazioni bilaterali è collegato alla decisione strategica di Washington di puntare sulle milizie curde siriane come forza principale da utilizzare nel paese mediorientale in guerra, ufficialmente per combattere ciò che resta dello Stato Islamico (ISIS) ma in realtà per tenere in vita le speranze di rovesciare il regime di Assad a Damasco. Per la Turchia, i militanti curdi siriani sono tutt’uno con i guerriglieri del PKK che operano sul proprio territorio, ovvero entrambi i gruppi vengono considerati terroristi e quindi una minaccia alla stessa integrità del paese. Per questa ragione, qualsiasi strategia che legittimi o dia speranze di autonomia ai curdi siriani è automaticamente per Ankara un elemento destabilizzante da combattere a tutti i costi.
Dietro le quinte, ci sono in ogni caso animate discussioni tra USA e Turchia per trovare un complicato punto di equilibrio in grado di conciliare la necessità da parte americana di mandare un segnale a Erdogan e l’interesse reciproco di salvaguardare l’alleanza nel quadro della NATO. In questo scenario, la guerra di parole è in pieno svolgimento. Il presidente turco ha sostenuto domenica che Trump preferirebbe non imporre sanzioni contro il suo paese, anche se, a suo dire, altri nell’amministrazione repubblicana spingono per punire la Turchia.
Sempre nel fine settimana, invece, il segretario alla Difesa ad interim, Mark Esper, ha ribadito che le posizioni americane non sono cambiate e che la Turchia “non può dotarsi contemporaneamente del sistema russo S-400 e degli F-35”. Esper ha comunque lasciato aperto uno spiraglio, ricordando un suo colloquio telefonico con il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, e un’imminente visita ad Ankara di una delegazione americana per discutere della crisi. Gli Stati Uniti starebbero inoltre ancora trattando con Ankara la vendita di un sistema missilistico difensivo Patriot, anche se le condizioni economiche sembrano non soddisfare Erdogan e, ancor più, è improbabile che un eventuale accordo in questo ambito possa fare molto per fermare l’installazione dell’S-400 russo.
Questo sistema, realizzato da un governo ostile e, anzi, ritenuto assieme a quello cinese la principale minaccia alla sicurezza occidentale, sarà dunque operativo per la prima volta sul territorio di un paese NATO. La portata dell’evento non può che indicare un rimodellamento delle priorità strategiche della Turchia, peraltro osservabili da tempo. Esso va inquadrato in primo luogo nella collaborazione multidimensionale tra Ankara e Mosca, che include il tentativo di risolvere la crisi in Siria nonostante le differenze, ma anche, su un piano più ampio, nel progressivo coinvolgimento della Turchia nei progetti di integrazione economica e infrastrutturale cinesi noti col nome di “Nuova Via della Seta” o, più precisamente, “Belt and Road Initiative” (BRI).
A suggellare questa tendenza è stata, tra l’altro, una recente visita di Erdogan a Pechino, dove le questioni collegate alle tendenze multipolari in atto a livello globale sono state al centro delle discussioni. Significativamente, in quell’occasione Erdogan aveva anche di fatto sposato la versione cinese in merito al trattamento della minoranza musulmana nella regione occidentale di Xinjiang, smentendo sia le posizioni precedenti del suo stesso governo sia quelle tradizionalmente sostenute dai paesi occidentali.
Le dinamiche a cui si sta assistendo con al centro la Turchia implicano dunque cambiamenti epocali nei rapporti interni alla NATO e negli equilibri strategici che riguardano la competizione per il controllo dell’area euro-asiatica. Per gli Stati Uniti, l’arrivo dei primi elementi dell’S-400 russo ad Ankara prospetta infatti, nella peggiore delle ipotesi, la perdita di un alleato determinante su più fronti ritenuti cruciali per le proprie ambizioni egemoniche: dall’offensiva contro l’Iran e, potenzialmente, la Siria agli sforzi per il contenimento e alla sempre più probabile futura guerra contro potenze come Russia e Cina.