La “riforma” del fisco americano del presidente Trump e il persistere di una serie di scappatoie legali hanno fatto in modo che decine di grandi corporation siano riuscite a non versare nemmeno un dollaro di tasse federali in relazione ai loro redditi del 2018. Tra queste compagnie figurano una sessantina di quelle comprese nell’indice “500” di Fortune, ovvero quelle più importanti del paese, le quali in molti casi hanno anche incassato decine o centinaia di milioni di dollari in sgravi fiscali, godendo perciò di aliquote addirittura negative.

A pochi giorni dall’arresto a Londra di Julian Assange è già apparso più che evidente il rischio concreto di una possibile estradizione negli Stati Uniti del fondatore di WikiLeaks. Il dipartimento di Giustizia americano ha infatti subito ammesso e reso noto il capo di imputazione secondo il quale intenderebbe incriminare Assange. L’accusa sembra a prima vista relativamente leggera, ma nasconde in realtà un insidiosissimo complotto, orchestrato non solo a Washington e Londra, ma anche a Stoccolma, dove un caso di stupro dai chiari connotati politici riguardante lo stesso 47enne giornalista australiano potrebbe essere resuscitato a breve.

Il rapimento e l’arresto illegale del fondatore di WikiLeaks, Julian Assange, nella mattinata di giovedì a Londra sono il risultato di un’operazione criminale orchestrata dai governi di Gran Bretagna, Stati Uniti ed Ecuador per assicurare il 47enne giornalista australiano alla “giustizia” americana. L’ignobile blitz della polizia britannica, documentato da sconvolgenti immagini diffuse immediatamente in rete, chiude una fase durata quasi sette anni, durante i quali Assange è stato costretto a vivere in condizioni che le stesse Nazioni Unite hanno giudicato essere assimilabili a tortura, e ne apre un’altra di carattere giudiziario particolarmente delicata che vedrà in gioco non solo la libertà e la vita stessa del numero uno di WikiLeaks, ma anche il principio della libertà di stampa ed espressione di fronte a una deriva autoritaria in atto ormai da tempo in tutte le “democrazie” occidentali.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra essere riuscito a conquistare il suo quinto mandato alla guida di Israele, incassando nelle elezioni di martedì un successo di misura che è il risultato del clima avvelenato da razzismo, militarismo ed estremismo sionista abilmente coltivato in parallelo con l’aggravarsi della crisi politica e socio-economica dello stato ebraico. Netanyahu e il Likud hanno dovuto fronteggiare una minaccia serissima alla propria supremazia politica nel paese, ma, alla fine, le due principali opzioni offerte agli elettori erano apparse nella sostanza virtualmente indistinguibili.

La decisione del dipartimento di Stato americano di aggiungere i Guardiani della Rivoluzione iraniani all’elenco delle organizzazioni terroristiche è un’iniziativa senza precedenti che ha suscitato interrogativi e perplessità anche tra molti degli accusatori di professione del governo di Teheran. Con questa mossa, Washington potrebbe infatti mettere in difficoltà e in pericolo sia i propri militari sia alcuni alleati in Medio Oriente, anche se, a ben vedere, essa si inserisce coerentemente nella rinnovata offensiva contro la Repubblica Islamica seguita all’insediamento del presidente Trump alla Casa Bianca.

 


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