Il primo ministro britannico, Theresa May, ha iniziato una serie di colloqui con i leader europei nella giornata di martedì che, nelle sue più rosee aspettative, dovrebbero garantirle qualche concessione in merito all’accordo già siglato con Bruxelles sulla Brexit, così da rimediare a una situazione interna quasi disperata per il governo conservatore. Il premier olandese, Mark Rutte, e la cancelliera tedesca, Angela Merkel, hanno espresso un generico sostegno alla premier, ma hanno escluso fermamente la possibilità di riaprire i negoziati con Londra.

L’arresto in Canada del direttore finanziario del colosso cinese delle telecomunicazioni, Huawei, ha avuto tutte le caratteristiche di un vero e proprio sequestro di persona orchestrato da Washington e minaccia di far saltare in maniera prematura una già fragilissima tregua sulle questioni commerciali e della proprietà intellettuale tra le prime due potenze economiche del pianeta.

 

In seguito al fermo nella città di Vancouver durante uno scalo per il Messico della manager Meng Wanzhou, figlia del fondatore e numero uno di Huawei, Ren Zhengfei, il ministero degli Esteri cinese ha nel fine settimana convocato gli ambasciatori di USA e Canada ai quali è stata espressa la “ferma protesta” del governo di Pechino. Tramite il vice-ministro degli Esteri, Le Yucheng, la Cina ha chiesto al Canada l’immediata scarcerazione della “chief financial officer” di Huawei, così come agli Stati Uniti di revocare la loro richiesta di arresto e di estradizione.

Se gli Stati Uniti dovessero dare seguito alla minaccia di abbandonare lo storico trattato che mette al bando i missili balistici nucleari a medio raggio (INF), il governo russo non potrà che prenderne atto e agire di conseguenza, cioè installando esso stesso questo genere di armi, puntate in larga misura sui paesi europei. Questa è stata la risposta data mercoledì da Vladimir Putin all’ultimatum lanciato alla Russia il giorno prima dal segretario di Stato americano, Mike Pompeo, durante una visita a Bruxelles.

Alla vigilia di una delicata riunione dell’OPEC, questa settimana il piccolo emirato del Qatar ha fatto sapere che, a partire dal primo gennaio prossimo, abbandonerà l’ Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, di cui fa parte dal 1961. La decisione è apparentemente da collegare a ragioni di ordine pratico, anche se è inevitabile che si inserisca nel quadro delle profonde divisioni esplose tra le monarchie sunnite del Golfo Persico a partire dal boicottaggio dello stesso Qatar, inaugurato nell’estate del 2017 dall’Arabia Saudita.

 

L’imminente addio all’OPEC è stato annunciato lunedì dal ministro dell’Energia, Saad Sherida Al-Kaabi, secondo il quale il suo paese prevede di concentrarsi nel prossimo futuro sullo sviluppo della produzione di gas liquefatto (LNG) piuttosto che sull’estrazione di greggio.

Dopo il terzo fine settimana di proteste del movimento dei cosiddetti “gilet gialli”, il presidente francese, Emmanuel Macron, si ritrova sempre più sotto pressione per cercare di risolvere una gravissima crisi che si sta rapidamente diffondendo in tutto il paese.

 

Da un lato, l’inquilino dell’Eliseo ha prospettato colloqui con i leader di tutti gli schieramenti politici e possibili trattative con i rappresentanti della protesta, mentre dall’altro non ha escluso l’introduzione dello stato di emergenza, con l’evidente obiettivo di reprimere con la forza tutte le manifestazioni di piazza.


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