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Una presa di posizione inequivocabile da parte dei vertici militari algerini ha forse impresso in questi giorni una svolta decisiva alla crisi che da alcune settimane sta scuotendo il paese nordafricano. Il potente capo di Stato Maggiore, generale Ahmed Gaid Salah, ha cioè chiesto la rimozione di fatto del presidente, Abdelaziz Bouteflika, come gesto estremo per contenere le manifestazioni di piazza e gli scioperi in corso contro il regime.
La mossa del generale Salah segna dunque una rottura clamorosa tra due dei centri del “pouvoir” algerino, i vertici militari e il clan presidenziale, proprio mentre questi ultimi ambienti stavano lavorando a uno stentato piano di transizione che poco più di due settimane fa era stato presentato come un’iniziativa dello stesso Bouteflika. Com’è noto, l’82nne presidente algerino, in carica dal 1999, è apparso molto raramente e non ha mai parlato in pubblico dal 2013, quando è stato vittima di un ictus che lo ha reso gravemente invalido.
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L’atteso ritorno alla democrazia formale della Thailandia si è trasformato per il momento in una delicata situazione di stallo nella quale le due principali forze politiche del paese asiatico si stanno confrontando per aggiudicarsi la possibilità di formare un nuovo governo. Il clima sempre più teso che si registra in queste ore è il risultato di un’elezione, concessa dalla giunta militare al potere a distanza di cinque anni dal colpo di stato, segnata da irregolarità e manipolazioni varie, nonché da un quadro costituzionale creato ad hoc per favorire le forze armate, gli ambienti della casa regnante e l’establishment tradizionale thailandese.
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La chiusura delle indagini del procuratore speciale Robert Mueller sul cosiddetto “Russiagate” rischia di diventare un’arma forse decisiva nelle mani del presidente americano Trump in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. Infatti, com’era ampiamente prevedibile, quasi due anni di ricerche, interrogatori e analisi di documenti non hanno fatto emergere nulla di concreto sulle presunte collusioni tra Trump e Mosca che sono state in buona parte alla base della battaglia contro la Casa Bianca condotta dal Partito Democratico e dalla galassia “liberal” negli Stati Uniti.
Il primo passo ufficiale verso la fine del “Russiagate” ha avuto comunque contorni non del tutto definitivi, lasciando così agli oppositori del presidente all’interno della classe politica USA ancora qualche spazio di manovra. Nel fine settimana, in ogni caso, il procuratore Mueller ha consegnato le proprie conclusioni al dipartimento di Giustizia, nelle quali si legge in maniera inequivocabile che “l’indagine ha stabilito che i membri della campagna elettorale di Donald Trump non hanno cospirato né si sono coordinati con il governo russo” nelle attività di quest’ultimo per interferire nel processo elettorale del 2016.
Mueller, inoltre, non ha proposto nessuna ulteriore incriminazione, nemmeno per quanto riguarda un possibile reato di “ostacolo alla giustizia” nei confronti del presidente o di esponenti del suo entourage. Su quest’ultima ipotesi vi sono tuttavia opinioni discordanti. Il ministro della Giustizia, William Barr, ha escluso categoricamente iniziative di questo genere da parte di Mueller, mentre svariati membri democratici del Congresso hanno chiesto di leggere l’intero rapporto sul “Russiagate” in modo da verificare la presenza di eventuali raccomandazioni in questo senso da parte del procuratore speciale.
La vicenda del “Russiagate” ha avuto fin dall’inizio un carattere apertamente politico e il moltiplicarsi di episodi compromettenti, rivelazioni e finti scandali è stato inversamente proporzionale alla credibilità delle accuse rivolte contro Trump di avere concordato con il Cremlino un piano di azione per sconfiggere Hillary Clinton e garantirsi l’ingresso alla Casa Bianca.
Attorno al “Russiagate”, gli ambienti di potere americani allineati all’apparato militare e dell’intelligence avevano cercato di costruire una strategia di attacco fondamentalmente reazionaria contro l’amministrazione Trump. Le tendenze autoritarie e fascistoidi del nuovo presidente erano state cioè contrastate con offensive lanciate da destra, dirette soprattutto a orientare la politica estera della Casa Bianca in direzione anti-russa e, quindi, verso un’escalation dello scontro con una potenza nucleare.
A più di due anni dall’insediamento di Trump, i rapporti tra USA e Russia sono così precipitati ai livelli degli anni più caldi della Guerra Fredda, tanto che l’allentamento delle pressioni sulla Casa Bianca per mezzo del “Russiagate” potrebbe essere scaturito proprio dal cambio di rotta dell’amministrazione repubblicana sulla questione della possibile distensione con Mosca ipotizzata agli albori del mandato presidenziale.
L’altra eredità lasciata dal caso è il giro di vite sulle cosiddette “fake news”, tramutatosi immediatamente in una repressione quasi senza precedenti della libertà di stampa e di espressione, diretta in primo luogo contro WikiLeaks e il suo fondatore, Julian Assange. Con la scusa delle “interferenze” e delle operazioni di disinformazione attribuite al governo russo, è stata creata una campagna repressiva volta a zittire qualsiasi opinione diversa da quelle veicolate dai media “mainstream”, considerati come gli unici depositari della verità, anche se di fatto mutuata dagli ambienti di potere di Washington.
L’indagine del procuratore speciale Mueller aveva in realtà portato a una serie di incriminazioni e a qualche condanna di uomini vicini a Trump, ma sempre in relazione ad accuse e reati marginali non legati alle presunte “collusioni” con Mosca, come ad esempio quello di avere mentito all’FBI. La questione al centro dell’isteria anti-russa si basava invece su fatti mai accertati e vere e proprie “fake news”, prima fra tutte quella del mai dimostrato hackeraggio da part dei servizi segreti del Cremlino dei server del Partito Democratico durante le primarie del 2016.
L’intera vicenda rappresenta dunque una sconfitta e un clamoroso autogol per i democratici americani e gli ambienti dei media ad essi vicini che hanno amplificato a dismisura la campagna contro Trump e la Russia di Putin. Non solo l’inizio della fine del “Russiagate” ha smontato una linea d’attacco anti-democratica e fondata su accuse inconsistenti, ma rischia anche di diventare un’arma forse decisiva nelle mani di Trump a pochi mesi dall’inizio ufficiale della campagna elettorale per le presidenziali del 2020.
Il presidente americano ha infatti subito espresso su Twitter la sua soddisfazione per l’epilogo dell’indagine di Mueller, mostrando chiaramente come i nuovi scenari politici post-Russiagate metteranno la Casa Bianca in una posizione di forza sia in prospettiva elettorale sia per un’intensificazione delle politiche ultra-reazionarie già attuate in questi due anni.
Ben lontani dal fare tesoro della lezione del “Russiagate” e dallo spostare l’obiettivo della battaglia contro l’amministrazione Trump, i leader democratici e la stampa “liberal” finiranno con ogni probabilità per continuare sulla strada percorsa finora. Ciò è evidente ad esempio dall’intenzione già espressa dal presidente della commissione Giustizia della Camera dei Rappresentanti di Washington, il democratico Jerrold Nadler, il quale ha fatto sapere di volere sentire il ministro della Giustizia di Trump per fare luce sulle “discrepanze” tra il contenuto del rapporto Mueller e il resoconto di esso fatto dal suo dipartimento.
L’obiettivo sembra essere in altre parole quello di individuare qualche appiglio per proseguire con altre indagini sulla condotta di Trump, in parallelo con alcuni procedimenti separati ancora aperti nel circuito giudiziario tradizionale e in larga misura concernenti gli affari del presidente e della sua famiglia. Le ragioni di questo comportamento sono da ricondurre al tentativo di conservare un’arma contro il presidente, da agitare come minaccia se le politiche e le scelte strategiche della Casa Bianca dovessero discostarsi dalla linea dettata dal cosiddetto “deep state”.
Difficilmente, perciò, gli sviluppi dei giorni scorsi metteranno la parola fine sulla questione del “Russiagate” a livello politico. Quanto meno alcuni riflessi continueranno a segnare la campagna elettorale in fase di avvio negli Stati Uniti, con i due partiti che si fronteggeranno su una questione che interessa soltanto la cerchia ristretta della classe dirigente americana. La prossima fase dello scontro sarà probabilmente alimentata proprio dalla Casa Bianca, con Trump che cercherà di capitalizzare la vittoria politica appena incassata mobilitando la propria base elettorale con la prospettiva di un’incriminazione dei promotori della caccia alle streghe dell’appena defunto “Russiagate”.
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Qualunque sia l’esito delle elezioni presidenziali che si terranno in Ucraina il 31 marzo prossimo, il panorama politico del paese dell’Europa orientale continuerà a rimanere dominato dai fattori principali che hanno segnato i cinque anni seguiti alla finta rivoluzione del 2014, vale a dire la dipendenza dall’Occidente, soprattutto dagli Stati Uniti, il dominio incontrastato degli oligarchi e il proliferare di forze e milizie paramilitari di estrema destra.
Il carattere democratico di un voto formalmente libero e caratterizzato da un certo pluralismo è messo in seria discussione in primo luogo dall’esclusione di fatto dalla competizione di personalità e movimenti politici impegnati a perseguire un percorso diverso dal confronto con Mosca e dall’implementazione forzata di misure economiche e finanziarie ultra-liberiste dettate da Washington, Bruxelles e dal Fondo Monetario Internazionale.
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Con una nuova iniziativa in totale violazione del diritto internazionale, l’amministrazione Trump potrebbe essere vicina a riconoscere ufficialmente la sovranità di Israele sulle alture del Golan. Svariati segnali negli ultimi mesi sembrano indicare una possibile mossa in questo senso da parte della Casa Bianca, nonostante l’occupazione illegale di Israele su un territorio appartenente a tutti gli effetti alla Siria sia condannata dall’intera comunità internazione, da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU e dagli stessi Stati Uniti.
L’ultimo segnale di allarme è arrivato qualche giorno fa, quando un documento del dipartimento di Stato americano ha fatto riferimento alle alture del Golan come un territorio “controllato” da Israele, lasciando cioè cadere per la prima volta la tradizionale e legalmente corretta definizione di territorio “occupato”. Questa sfumatura apparentemente solo semantica ha in realtà delle implicazioni esplosive, visto che potrebbe aprire la strada a un riconoscimento del territorio al confine tra Siria e Israele come parte integrante di quest’ultimo paese.
Le alture del Golan hanno un’importanza strategica assoluta grazie a una posizione che consente di controllare tutta la valle settentrionale del Giordano. Inoltre, l’occupazione ha sempre avuto a che fare con la consolidata inclinazione israeliana a impossessarsi in maniera illegale delle risorse dei territori arabi. Il Golan dispone infatti di terreni fertili adatti alla coltivazione e garantisce il controllo di significative sorgenti idriche. In quest’area si trovano infine considerevoli giacimenti petroliferi ancora da sfruttare e che, come si vedrà in seguito, hanno un peso determinante sulle decisioni che potrebbero essere prese a Washington.
Le alture del Golan, situate nella Siria meridionale, furono occupate da Israele al termine della guerra dei Sei Giorni del 1967 e in seguito annesse unilateralmente nel 1981. In questo stesso anno, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite numero 497, appoggiata anche da Washington, rese nullo questo provvedimento di Tel Aviv, così che il territorio viene universalmente considerato come “occupato”. In quest’area, Israele ha favorito l’insediamento di oltre 20 mila coloni, in modo da modificarne la composizione demografica e creare, come nel caso dei territori palestinesi, un fatto compiuto, mentre la popolazione nativa, composta in gran parte da drusi, viene regolarmente discriminata.
Visti gli sviluppi di questi ultimi otto anni, è evidente che il governo israeliano intende sfruttare il conflitto in Siria per ottenere il riconoscimento del possesso del Golan da parte del suo principale alleato. Nell’amministrazione Trump, il primo ministro Netanyahu ha trovato un interlocutore disposto ad ascoltare le proprie ragioni, principalmente per via dell’influenza della lobby israeliana sulla Casa Bianca e della sensibilità di un argomento che, indirettamente, potrebbe tradursi in uno schiaffo all’Iran.
Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, già all’inizio del 2017 Netanyahu aveva sollevato la questione del Golan con il presidente Trump, al quale aveva sollecitato il riconoscimento ufficiale del territorio siriano. In un’intervista alla Reuters, l’anno scorso il ministro dell’intelligence israeliano, Israel Katz, aveva a sua volta espresso una certa fiducia sul fatto che l’amministrazione repubblicana si sarebbe mossa in questo senso nei mesi successivi.
Solo qualche settimana fa, poi, il senatore repubblicano molto vicino al presidente, Lindsey Graham, aveva visitato di persona le alture del Golan e poco dopo aveva assicurato alla stampa che avrebbe fatto pressioni sulla Casa Bianca per ottenere un riconoscimento ufficiale della sovranità di Israele su questo territorio. Al Senato di Washington sta anche circolando una proposta di legge bipartisan che, allo stesso modo, ratificherebbe da parte americana l’annessione illegale israeliana delle alture del Golan.
Mercoledì, dopo un faccia a faccia con il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, il premier israeliano Netanyahu ha fatto appello al governo americano e alla comunità internazionale a riconoscere la sovranità del suo paese sul Golan. A suo dire, il riconoscimento sarebbe giustificato anche dalla recente presunta scoperta da parte delle forze armate israeliane di una “nascente cellula militare” di Hezbollah in un villaggio di confine sulle alture del Golan.
La questione rischia di infiammare ancora di più la regione, come ha confermato la reazione comprensibilmente molto dura del governo di Damasco. In risposta alle voci di un riconoscimento della sovranità israeliana, il vice-ministro degli Esteri siriano, Faisal Mikdad, settimana scorsa aveva minacciato una risposta militare. Alla responsabile dell’agenzia ONU che monitora la tregua nelle alture del Golan, il diplomatico siriano aveva comunicato le intenzioni di Damasco di arrivare al confronto con Israele anche se questo paese continuerà ad attaccare la Siria o se non restituirà le alture del Golan.
Per quanto riprovevole e illegale, un’eventuale decisione americana sul Golan non apparirebbe tutto sommato particolarmente sorprendente, poiché l’amministrazione Trump continua a distinguersi per il completo disinteresse nei confronti del diritto internazionale. In merito alle vicende mediorientali, ha già adottato almeno due misure clamorose, illegali e in piena contraddizione con le posizioni di praticamente tutti i paesi del mondo, come il ritiro degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano e, sul finire del 2017, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele, con conseguente spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv.
Oltre all’importanza strategica per Israele e ai fini della competizione per il controllo del Medio Oriente, la sovranità sulle alture del Golan è da collegare anche alle potenzialità di questo territorio in ambito energetico. Come già anticipato, da qualche anno sono state individuate in quest’area ingenti riserve di petrolio, per accedere alle quali Israele e le compagnie americane del settore non hanno però incentivi, vista la natura contesa del territorio.
Già nel 2013, il governo Netanyahu concesse i diritti di esplorazione petrolifera nel Golan alla società Afek Oil and Gas, filiale israeliana dell’americana Genie Energy. Tra le proteste di residenti e ambientalisti, le prime trivellazioni esplorative erano iniziate nel 2015, ma le attività, già di per sé illegali, sono bloccate dalla prospettiva di non potere esportare il greggio estratto da un’area che è soggetta all’occupazione di Israele. In ballo ci sono decine di miliardi di dollari che potrebbero essere sbloccati se gli Stati Uniti dovessero riconoscere la sovranità israeliana. In questo modo, quanto meno, le compagnie impegnate nell’estrazione potrebbero vendere negli USA il petrolio sottratto al popolo e allo stato siriano.
A pesare sulle decisioni della Casa Bianca non sono soltanto generici interessi energetici, bensì legami molto stretti tra l’amministrazione Trump, il governo Netanyahu e Genie Energy. Come ha spiegato il commentatore britannico Finian Cunningham sul sito del network russo RT, l’ex presidente di questa compagnia con sede nel New Jersey, Ira Greenstein, condivide legami d’affari con il genero e consigliere di Trump, Jared Kushner, e proprio tramite quest’ultimo è diventato un consulente della Casa Bianca. Il numero uno di Afek Oil and Gas è poi l’ex deputato ed ex ministro israeliano Efraim Eitam, amico intimo di Netanyahu e da sempre fautore dell’espulsione della popolazione araba da Israele.
Tra i principali investitori di Genie Energy figurano l’ex consigliere di Trump per gli affari riguardanti Israele, Jason Greenblatt, nonché il colosso bancario Goldman Sachs, tra i cui top manager c’era l’ex consigliere economico del presidente, Gary Cohn. Nel consiglio di amministrazione di questa stessa compagnia siedono oppure detengono azioni anche altre personalità super-influenti del mondo politico, mediatico e finanziario, come Rupert Murdoch, l’ex vice-presidente americano Dick Cheney, l’ex segretario al Tesoro Larry Summers e l’ex direttore della CIA James Woolsey.
Il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan sarebbe dunque niente meno che un’impresa criminale, frutto di giganteschi conflitti di interesse e dell’indifferenza americana per il diritto internazionale. Non solo, anche la sola ipotesi di una mossa in questo senso da parte di Washington rappresenta una colossale ipocrisia, visto che demolisce del tutto le pretese di condanna dell’annessione russa della Crimea.
Proprio questo effetto indesiderato della questione del Golan ha già spinto alcuni commentatori “mainstream” a mettere in guardia l’amministrazione Trump dall’assecondare le richieste israeliane su questo argomento. Ratificare l’appropriazione illegale di un territorio di un paese sovrano da parte di Israele annienterebbe d’altra parte qualsiasi credibilità degli Stati Uniti nel sostenere che Mosca deve restituire la Crimea all’Ucraina.
Mentre sembrano essere sul punto di riconoscere il controllo di Israele sulle alture del Golan in violazione del diritto internazionale, gli Stati Uniti continuano infatti a condannare il Cremlino per la questione della Crimea, nonostante il ritorno di essa alla Russia non sia impedito da nessun mandato internazionale, ma è anzi legittimato dai precedenti storici, da un retaggio culturale comune e dal referendum popolare tenuto nel marzo del 2014.