L’impegno preso nel fine settimana dal presidente americano Trump di ritirare il suo paese dal Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie (INF) con la Russia rappresenta un attacco frontale agli equilibri emersi dal periodo post-Guerra Fredda e minaccia di dare un ulteriore impulso alla corsa agli armamenti su scala globale.

 

La decisione, non ancora definitiva, potrebbe creare per la prima volta da quasi mezzo secolo un quadro nel quale non è in vigore un accordo vincolante sulla limitazione delle armi nucleari tra le due principali potenze militari del pianeta. L’altro trattato-chiave tra USA e URSS in questo ambito era quello sui Missili Balistici (ABM), sottoscritto nel 1972 a Mosca e già ripudiato dall’amministrazione Bush nel dicembre del 2001.

 

Come in quest’ultima occasione, anche la recente mossa di Trump si inserisce in una evidente accelerazione degli impulsi militaristici della classe dirigente americana, rivolti ormai pericolosamente contro potenze come Russia e Cina.

Le elezioni di metà mandato del prossimo 6 novembre, per il rinnovo del Congresso federale degli Stati Uniti, sono già diventate le più dispendiose della storia americana per un anno senza le presidenziali. La somma di denaro complessiva spesa nelle campagne elettorali potrebbe alla fine aggirarsi attorno ai 6 miliardi di dollari. Oltre a ciò, l’aspetto finanziario più significativo di questa tornata è la capacità del Partito Democratico di raccogliere fondi in quantità nettamente superiore rispetto a quello Repubblicano.

 

I dati ufficiali finora a disposizione documentano l’attività di “fundraising” solo fino al 30 settembre, quando già superava i 5 miliardi di dollari. La cifra complessiva è riferita non solo alle competizioni per tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti e i 35 su 100 in palio al Senato, ma anche a quelle per la carica di governatore in 36 stati, per le assemblee statali e referendum vari.

L’evolversi del caso del giornalista saudita Jamal Khashoggi sta sempre più coinvolgendo un’amministrazione Trump impegnata a concordare con gli ambienti reali a Riyadh una versione degli eventi che salvaguardi l’alleanza con gli Stati Uniti. La vicenda ha però svariate implicazioni che si incrociano alle mire strategiche di USA, Turchia e Arabia Saudita, così come alle divisioni interne ai governi di Washington e Riyadh, col rischio di produrre una miscela esplosiva che minaccia di esplodere qualunque sia la soluzione alla fine proposta dalle parti coinvolte.

 

Il viaggio improvvisato del segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in Arabia Saudita e in Turchia ha dato qualche indicazione sia della posta in gioco sia della possibile via d’uscita per il regime del Golfo Persico. Il presupposto dell’azione della Casa Bianca è chiaramente la natura cruciale dell’alleato saudita per la propria strategia mediorientale, basata su una rinnovata offensiva a tutto campo contro l’Iran.

Il processo diplomatico in corso nella penisola di Corea sembra avanzare a un ritmo chiaramente diverso a seconda dei governi coinvolti nei negoziati con il regime di Kim Jong-un. Se quello sudcoreano del presidente, Moon Jae-in, continua a spingere per un’accelerazione del disgelo, sollecitando iniziative concrete a livello internazionale, l’amministrazione Trump, nonostante la retorica, appare ancora incerta o quanto meno in attesa di ulteriori concessioni in aggiunta alle aperture già mostrate da Pyongyang.

 

Lunedì, nel corso di una visita di stato in Francia, il presidente sudcoreano ha sollevato a questo proposito la questione della sospensione delle sanzioni applicate a Pyongyang attraverso l’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Moon ha fatto appello all’omologo francese Macron in quanto leader di un paese con un seggio permanente all’interno del Consiglio stesso.

A due settimane dalla sparizione del giornalista saudita, Jamal Khashoggi, all’interno del consolato del suo paese a Istanbul, le ramificazioni e le problematiche sollevate dalla vicenda ancora non risolta continuano a emergere in tutta la loro complessità, riflettendosi su un’atmosfera mediorientale fatta di crescenti tensioni tra alleati o presunti tali e i governi occidentali.

 

Le accuse rivolte ai vertici della monarchia saudita da parte di Ankara sono state supportate nei giorni scorsi dalla notizia che le autorità turche sarebbero in possesso di registrazioni che documentano l’interrogatorio, le torture e l’assassinio del giornalista nella rappresentanza diplomatica di Istanbul. Il materiale esplosivo proverrebbe dall’Apple watch di Khashoggi, sincronizzato col suo telefono rimasto nelle mani della fidanzata, o più probabilmente da dispositivi di sorveglianza installati dall’intelligence turca nel consolato saudita.


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