L’approccio dell’Unione Europea alla questione iraniana continua a essere caratterizzata da un’apparente schizofrenia, con iniziative volte a salvaguardare il sistema di relazioni creato dall’accordo sul nucleare del 2015 e, in parallelo, intimidazioni e misure punitive in linea con la ritrovata ostilità di Washington verso la Repubblica Islamica.

 

Questa settimana, la Commissione Europea ha adottato una serie di risoluzioni per riconfermare il proprio impegno nel rispettare l’accordo di Vienna (JCPOA) e per esprimere disappunto nei confronti della decisione dello scorso anno dell’amministrazione Trump di abbandonare il trattato negoziato dalla diplomazia USA durante la presidenza Obama. Il comunicato ufficiale della Commissione ha definito il JCPOA “un elemento chiave del sistema globale di non proliferazione nucleare”, nonché, con una chiara condanna dell’unilateralismo americano, “un successo della diplomazia multilaterale, appoggiato unanimemente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite”.

Le cambiate priorità strategiche degli Stati Uniti sono alla base della recente decisione dell’amministrazione Trump di uscire dal Trattato sulle Forze Nucleari Intermedie (INF), sottoscritto nel 1987 con il governo dell’allora Unione Sovietica. La notifica della cancellazione di fatto dell’accordo è stata data dal segretario di Stato USA, Mike Pompeo, qualche giorno fa, ma già lo scorso mese di ottobre l’iniziativa era stata annunciata in un discorso pubblico dallo stesso presidente.

Dopo avere incassato quella che in molti hanno descritto come una rara vittoria parlamentare sulla Brexit, mercoledì il primo ministro britannico, Theresa May, è tornata a scontrarsi con una realtà decisamente più amara, quando si è vista ancora una volta chiudere ogni spiraglio significativo di trattativa da parte dei vertici europei sulla possibile rinegoziazione del trattato che dovrebbe regolare l’uscita di Londra dall’UE.

 

Il capo dei negoziatori dell’Unione, Michel Barnier, ha insistito sull’impossibilità di riaprire i negoziati con Downing Street, malgrado la premier May abbia apparentemente trovato per la prima volta un accordo con la sua maggioranza in Parlamento per stabilire le modalità della Brexit dal punto di vista di Londra. Per Barnier, il testo dell’accordo già sottoscritto con il governo resta l’unico sul tavolo e le “istituzioni europee” concordano sulla sostanziale impossibilità di fare concessioni che spianino la strada a un via libera della Camera dei Comuni.

Dopo oltre 17 anni di guerra, lunedì gli Stati Uniti hanno per la prima volta ammesso il raggiungimento di una bozza d’accordo con i Talebani per reintegrare il movimento fondamentalista islamico nelle strutture di governo dell’Afghanistan in parallelo al ritiro delle forze di occupazione americane dal paese centro-asiatico.

 

I dettagli dell’intesa devono essere ancora negoziati e, visti anche i precedenti, è del tutto possibile che i colloqui di pace finiscano nel nulla. La sola notizia proveniente da Kabul, tuttavia, rappresenta una clamorosa ammissione di sconfitta da parte di Washington, assieme alla conferma delle nuove priorità strategiche degli Stati Uniti, spostate dalla “guerra al terrore” e orientate sempre più verso il confronto con potenze rivali come Russia e Cina.

La fine dello “shutdown” e la riapertura degli uffici governativi nel fine settimana ha probabilmente solo rinviato una possibile escalation dello scontro politico negli Stati Uniti tra il presidente Trump e i suoi oppositori del Partito Democratico. Anche se la Casa Bianca ha alla fine deciso di cedere sullo sblocco temporaneo dei fondi destinati al bilancio federale, la costruzione del muro al confine con il Messico e la stretta sulle politiche migratorie rimangono nodi irrisolti che lo stesso Trump potrebbe anche decidere di affrontare con un colpo di mano anti-democratico al termine della tregua appena sottoscritta a Washington.


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