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Un clamoroso scontro pubblico tra la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il capo dei servizi segreti federali (BfV), Hans-Georg Maassen, sta provocando in questi giorni nuove pericolose tensioni all’interno del sempre più fragile governo di “grande coalizione”. Soprattutto, la vicenda che ha portato al licenziamento di Maassen o, per meglio dire, alla sua promozione, ha mostrato ancora una volta i legami tra l’intelligence tedesca e gli ambienti di estrema destra, così come il costante spostamento a destra del baricentro politico della prima potenza economica europea.
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La visita di questa settimana in Corea del Nord del presidente sudcoreano, Moon Jae-in, ha confermato il costante miglioramento delle relazioni tra Pyongyang e Seoul. I due leader hanno sottoscritto una serie di accordi più o meno rilevanti, mentre Kim Jong-un ha annunciato ulteriori impegni e concessioni che sarebbe pronto a fare in cambio di qualche gesto reciproco da parte degli Stati Uniti.
Moon è diventato in questi giorni il terzo presidente della Corea del Sud a recarsi a Pyongyang, dopo le trasferte del 2000 di Kim Dae-jung e del 2007 di Roh Moo-hyun nel quadro della cosiddetta “Sunshine Policy”. Moon e l’attuale leader nordcoreano si erano già incontrati in due occasioni, entrambe lungo il confine, ad aprile e maggio di quest’anno.
L’obiettivo dichiarato della delegazione sudcoreana per quest’ultima visita era il tentativo di rilanciare il processo diplomatico tra Pyongyang e Washington dopo lo stallo subentrato agli entusiasmi suscitati dallo storico incontro tra Trump e Kim a Singapore nel mese di giugno. Come ha scritto la testata on-line governativa cinese Global Times, il compito di Moon sembra essere in buona parte quello del “lobbista” per l’amministrazione Trump e, infatti, a Pyongyang si è assicurato varie promesse da parte di Kim dirette senza dubbio alla Casa Bianca.
Kim ha parlato pubblicamente e davanti a membri della stampa estera nel corso di una conferenza con il collega sudcoreano, durante la quale ha assicurato come i due paesi concordino nel fare della penisola coreana “una terra di pace senza armi né minacce nucleari”. Nel concreto, il numero uno del regime nordcoreano si è detto pronto a chiudere, alla presenza di osservatori dei “paesi interessati”, il sito missilistico di Dongchang-ri. Questo impianto è situato nel nord-ovest del paese ed è ritenuto il centro nevralgico del programma di missili balistici intercontinentali, in teoria capaci di raggiungere il territorio americano.
Sempre nel quadro di iniziative reciproche, Kim ha inoltre ipotizzato lo smantellamento permanente della principale infrastruttura nucleare nordcoreana, quella di Yongbyon, a nord della capitale. Dopo il vertice di Singapore, dove aveva espresso un generico impegno per la denuclearizzazione della penisola, Kim ha già congelato i testi missilistici e nucleari, mentre alla vigilia di esso era stata portata a termine la distruzione di un altro sito missilistico.
Il gesto che Pyongyang si aspetta dalla Casa Bianca è una dichiarazione formale che chiuda ufficialmente la guerra del 1950-53 e conduca a un trattato di pace al posto dell’armistizio siglato dalle parti in causa oltre sei decenni fa. Il regime di Kim ha evidentemente necessità di ricevere rassicurazioni dai propri nemici prima di procedere con misure concrete per lo smantellamento del proprio arsenale nucleare e missilistico, visto comprensibilmente come una garanzia di sopravvivenza di fronte alla concreta minaccia americana.
All’interno dell’amministrazione Trump non sembra esserci invece una posizione univoca sull’approccio alla Corea del Nord e la richiesta di Kim. In linea generale, i media americani sostengono che la Casa Bianca non intende fare concessioni significative prima della denuclearizzazione del regime. Più precisamente, al di là delle promesse di Kim, a Washington ci sono forti resistenze a formalizzare la fine della guerra, poiché ciò comporterebbe il venir meno anche a livello ufficiale della minaccia nordcoreana. Minaccia o presunta tale che gli Stati Uniti utilizzano convenientemente per mantenere quasi 30 mila soldati in Corea del Sud e per giustificare politiche aggressive nei confronti di Pechino.
Anche se gli impegni presi questa settimana da Kim, così come le modalità con cui sono stati espressi, risultano insoliti per il regime e per certi versi quasi straordinari, i media americani hanno per lo più smorzato gli entusiasmi. Molti hanno ricordato ad esempio come Pyongyang non abbia ancora accettato altre richieste degli USA, come la consegna di un elenco delle armi nucleari in proprio possesso o una tabella di marcia precisa per il processo di denuclearizzazione.
Quasi sempre vengono inoltre ricordati alcuni rapporti e indagini che nelle scorse settimane avevano mostrato come le attività in ambito nucleare in Corea del Nord fossero continuate dopo il summit di Singapore. In realtà, Kim in quell’occasione non aveva preso alcun impegno specifico in questo senso, né era stato siglato un accordo esplicito, né, ancora, l’amministrazione Trump ha ricambiato le aperture nordcoreane con iniziative o promesse chiare, ad eccezione della sospensione delle esercitazioni militari con Seoul.
In definitiva, la questione che deve essere posta a questo punto del processo diplomatico non è, come sostiene la stampa ufficiale, se Kim o Moon riusciranno a convincere Trump della sincerità delle intenzioni nordcoreane. Se mai, è il governo americano a dover sciogliere i dubbi e a risolvere le divisioni interne, aprendo a una trattativa di pace che, in quanto tale, non può basarsi su minacce e diktat unilaterali, ma su un percorso graduale fatto di concessioni reciproche.
Trump, da parte sua, ha comunque accolto positivamente il summit di Pyongyang, definendo su Twitter “entusiasmanti” le promesse di Kim. Resta tuttavia da vedere se nell’immediato ci saranno le condizioni per un secondo faccia a faccia tra i due leader, come lo stesso Trump aveva lasciato intendere dopo avere ricevuto una lettera da Kim ai primi di settembre. Il sentimento prevalente a Washington lo ha espresso forse il senatore repubblicano Lindsey Graham, tradizionalmente ascrivibile ai “falchi” della politica estera USA. Graham ha addirittura condannato la visita di Moon a Pyongyang perché in contrasto con la politica di “massima pressione” sulla Corea del Nord condotta dalla diplomazia americana.
Nel corso del vertice di questa settimana, i leader delle due Coree hanno trovato un’intesa anche su varie questioni bilaterali. La più rilevante è l’accordo militare per evitare scontri armati lungo la linea di confine e non solo. Seoul e Pyongyang si impegnano cioè a cessare tutte le esercitazioni lungo il 38esimo parallelo e a ritirare le guardie di frontiera, in modo da creare un’area demilitarizzata dal Mar Giallo al Mar del Giappone.
Kim ha poi sollevato l’ipotesi di un suo viaggio a Seoul in quella che sarebbe una prima assoluta per un leader nordcoreano. Il presidente Moon ha affermato che la visita potrebbe avvenire entro la fine dell’anno. I due governi continuano infine a cercare di favorire le relazioni bilaterali anche attraverso lo sport. Seoul e Pyongyang proveranno a candidarsi per ospitare assieme le Olimpiadi estive del 2032, mentre sarà possibile la partecipazione con un team congiunto ai giochi di Tokyo del 2020. Un’unica squadra rappresentante le due Coree aveva già preso parte alle Olimpiadi invernali dello scorso febbraio nella località sudcoreana di PyeongChang, contribuendo a creare un clima propizio per i successivi sviluppi diplomatici.
Queste e altre iniziative già prese nei mesi scorsi confermano come tra le due Coree il processo diplomatico sia ben avviato e in una certa misura promettente, malgrado le resistenze all’interno di entrambe le classi dirigenti.
Da parte di Seoul, nonostante la retorica della pace e della fratellanza tra i due popoli, c’è soprattutto la ferma intenzione di sfruttare gli aspetti economici del disgelo. Da un lato, il governo Moon e il business sudcoreano puntano a partire da una posizione di privilegio in caso di apertura del vicino settentrionale, in modo da avere a disposizione una vasta manodopera disciplinata e conveniente, innescando nel contempo una competizione che abbassi il costo del lavoro anche in Corea del Sud. A dimostrazione degli interessi in questo ambito, Moon si è recato a Pyongyang con una folta delegazione di top manager, tra cui quelli di Samsung e Hyundai.
Dall’altro, il governo sudcoreano guarda con interesse al coinvolgimento della Corea del Nord nei molteplici piani di integrazione economica, commerciale e infrastrutturale che si propongono di collegare i paesi del continente asiatico e questi ultimi con l’Europa. La Corea del Nord potrebbe cioè diventare un punto di transito importante per i traffici commerciali e le forniture energetiche da e per la Corea del Sud.
Tutte queste dinamiche sono in ogni caso vincolate alle decisioni che prenderà il governo americano sulla questione coreana nel prossimo futuro. Per Washington, il nodo centrale resta il quadro più ampio della competizione con Pechino e se il regime di Kim, come ha spiegato un paio di settimane fa il segretario di Stato Pompeo, sarà pronto in sostanza a voltare le spalle all’alleato cinese, operando quella “svolta strategica” chiesta da Washington in cambio della normalizzazione dei rapporti bilaterali.
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L’escalation di minacce e la mobilitazione militare degli Stati Uniti nelle ultime settimane sembrano alla fine avere convinto il governo russo e, in parte, quello siriano quanto a meno a rinviare l’attesa offensiva nel governatorato di Idlib per ripulire l’ultima enclave in mano ai “ribelli” fondamentalisti nel paese mediorientale in guerra dal 2011.
L’iniziativa di Damasco in questa regione era in fase di lancio a inizio settembre, quando il regime di Assad e le forze russe in Siria avevano iniziato a bombardare le postazioni dei gruppi armati dell’opposizione. Idlib rimane sotto il controllo di queste formazioni, tra le quali prevalgono Hayat Tahrir al-Sham (HTS), affiliata ad al-Qaeda, e il Fronte di Liberazione Nazionale, appoggiato dalla Turchia.
Soprattutto da Mosca si erano poi intensificati gli avvertimenti ai governi occidentali a non ostacolare l’eventuale avanzata delle forze siriane, russe e iraniane. In parallelo, il Cremlino aveva anticipato una nuova messa in scena da parte dei “ribelli”, come in passato attraverso la creazione di un finto attacco con armi chimiche da attribuire al regime di Assad.
L’amministrazione Trump non ha tuttavia mostrato di recedere dal proprio intento, portando, assieme ai propri alleati, forze navali consistenti nel Mediterraneo orientale e conducendo un’esercitazione militare in territorio siriano. Anche la retorica si è fatta a poco a poco più minacciosa, con esponenti del governo USA che promettono ora un possibile intervento militare contro Damasco non solo in caso di presunto uso di armi chimiche, ma semplicemente se la Siria dovesse muoversi contro Idlib per riprendere il controllo della regione.
La pausa imposta alle operazioni militari dalla Russia ha probabilmente dato maggiore sicurezza anche al governo israeliano, le cui forze aeree nel fine settimana hanno effettuato l’ennesimo bombardamento sulla Siria. I missili, destinati a un’area nei pressi dell’aeroporto internazionale di Damasco, dove sorge un presunto deposito di armi iraniane o di Hezbollah, sarebbero stati però abbattuti dalla contraerea siriana.
Lo stallo della situazione a Idlib contribuisce dunque ben poco a riportare la calma in Siria. Anzi, il temporeggiamento di Mosca e Damasco sta favorendo le manovre americane, con il rischio che gli USA e i loro alleati abbiano la possibilità di preparare una risposta più efficace se l’offensiva dovesse partire nelle prossime settimane.
La determinazione di Washington dimostra poi ancora una volta l’importanza strategica attribuita alla Siria, dove si gioca una parte importante della competizione tra Stati Uniti e Iran in Medio Oriente, ma anche tra USA e Russia in prospettiva globale. L’impegno rilanciato in Siria è da collegare alla dichiarazione, emessa dalla Casa Bianca in maniera relativamente sommessa ai primi di settembre, con la quale veniva di fatto smentita la posizione precedente di Trump sul possibile ritiro del contingente americano stanziato in maniera illegale in questo paese per passare invece a una presenza militare sostanzialmente “indefinita”.
Sull’evoluzione degli scenari a Idlib sta avendo una certa influenza anche la Turchia di Erdogan, così che l’equilibrio strategico entro il quale è costretta a muoversi la Russia risulta estremamente delicato e di difficile scioglimento. La complessità del quadro è sottolineata, tra l’altro, dai ripetuti vertici tra leader ed esponenti dei governi russo e turco nell’ultimo periodo.
Una decina di giorni fa, Putin, Erdogan e il presidente iraniano Rouhani si erano incontrati a Teheran nel quadro del processo diplomatico di Astana. In quell’occasione non era uscito alcun accordo su Idlib, mentre una proposta improbabile di Ankara era stata respinta da Putin e Rouhani.
Ancora nella giornata di lunedì, Putin e Erdogan sono stati protagonisti di un faccia a faccia a Sochi, dove la crisi siriana è stata la prima questione in agenda. I due leader avrebbero concordato la creazione di una “zona demilitarizzata” nella regione di Idlib a partire dal prossimo 15 ottobre, pattugliata dalle truppe dei due paesi e da cui i “ribelli” jihadisti dovranno ritirarsi.
Più di un osservatore ha fatto notare come siano state proprio le posizioni turche a ritardare l’assalto a Idlib. Putin, in parte forse contro l’opinione di Assad, ha deciso cioè di non forzare la mano in questo frangente, in modo da proteggere la convergenza di interessi tra il suo governo e quello di Ankara. Tanto più che Erdogan è apparso disposto a una scommessa rischiosa per raggiungere i propri obiettivi, come conferma il rafforzamento in questi giorni delle 12 postazioni, o “osservatori”, che i militari turchi controllano nella regione di Idlib in base agli accordi trilaterali di Astana.
Se Erdogan intende proteggere le fazioni “ribelli” sotto la sua protezione in Siria, per qualcuno il presidente turco potrebbe alla fine accettare un’azione limitata da parte di Mosca e Damasco, diretta a colpire soltanto i qaedisti di HTS. La necessità immediata della Russia è d’altra parte quella di proteggere la propria base sulla costa settentrionale siriana, minacciata recentemente dai droni “ribelli” provenienti dalle aree rurali delle regioni di Hama e Latakia.
L’eliminazione della filiale di al-Qaeda in Siria dal governatorato di Idlib è comunque un obiettivo primario anche della Turchia. La ragione principale di ciò è legata non tanto a scrupoli per l’attitudine terroristica di questo gruppo armato, quanto piuttosto all’intenzione di trasferire il controllo della regione settentrionale siriana al Fronte di Liberazione Nazionale che opera appunto sotto la protezione turca.
Una volta sfumata l’ipotesi del rovesciamento di Assad e di fronte al tracollo di una politica estera dissennata, Erdogan si ritrova ora a puntare sulla creazione di una sorta di protettorato turco nel nord della Siria che potrà servire fondamentalmente a due scopi. Da un lato a contrastare la formazione di una regione autonoma curda e, nell’immediato, neutralizzare le stesse milizie curde che godono dell’appoggio americano. Dall’altro a garantirsi una posizione consolidata in Siria per far sentire la propria voce in un futuro accordo di pace che metta fine al conflitto.
Da parte russa, la volontà di assecondare le richieste di Erdogan, almeno in parte e forse temporaneamente, deriva in primo luogo dal timore di favorire un riavvicinamento tra Turchia e Stati Uniti in caso di attacco contro i “ribelli” a Idlib. Sempre nella prospettiva dei rapporti tra Washington e Ankara, alcuni commentatori hanno comunque assicurato che la sospensione delle operazioni russo-siriane potrebbe non durare a lungo.
Putin punterebbe cioè ad attendere il probabile precipitare delle relazioni già tese tra i due alleati NATO, previsto nei prossimi mesi, quando il persistere degli attacchi speculativi contro la valuta turca e il rafforzamento del dollaro, assieme all’entrata in vigore delle restrizioni americane alle esportazioni di greggio iraniano, metteranno ancora più in difficoltà l’economia del paese euroasiatico.
Messo così alle strette, Erdogan potrebbe allontanarsi ulteriormente dagli USA e non avere altra scelta che chiedere aiuto a Mosca e Teheran, con ogni probabilità in cambio di un ammorbidimento delle posizioni sul fronte siriano.
Altri ancora ritengono infine che il Cremlino voglia congelare la situazione in Siria nelle sette settimane che mancano alle elezioni di metà mandato negli Stati Uniti. La situazione interna di Trump appare infatti sempre più delicata e le probabilità che la sua amministrazione cerchi una nuova avventura bellica all’estero per allentare le pressioni e risollevare le sorti dei repubblicani, in affanno nei sondaggi, è del tutto plausibile.
L’intenzione di Putin sarebbe perciò quella di non dare nessuna giustificazione agli Stati Uniti per scatenare un’aggressione militare contro il regime di Assad, rimandando ogni iniziativa a dopo il voto per il rinnovo del Congresso di Washington.
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Stragi deliberate di civili, distruzione di infrastrutture e abitazioni, carestie, epidemie di massa e appoggio a movimenti terroristici sono gli ingredienti della guerra criminale che da oltre tre anni l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, in stretta collaborazione con gli Stati Uniti, stanno imponendo alla popolazione dello Yemen. Malgrado tutto ciò, mercoledì il dipartimento di Stato americano ha certificato ufficialmente che le due monarchie del Golfo Persico “stanno prendendo iniziative verificabili al fine di ridurre i rischi per civili e infrastrutture derivanti dalle operazioni militari”.
Per chiunque abbia anche solo superficialmente seguito fino a oggi il conflitto in Yemen, questa dichiarazione è del tutto assurda, oltre che profondamente cinica. Per gli yemeniti, costretti a fare i conti con una situazione disperata, suona inoltre come un’ulteriore beffa. Infatti, il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, ha approvato la condotta di Riyadh e Abu Dhabi proprio nel giorno in cui le forze armate dei due regimi assoluti, in collaborazione con mercenari e milizie varie, hanno intensificato l’offensiva nella città portuale di Hodeidah, sul Mar Rosso.
L’assedio a questa località strategica, nelle mani dei “ribelli” sciiti Houthi, era stata condannata dalla gran parte della comunità internazionale, poiché da qui transitano i rifornimenti di beni di primissima necessità destinati a milioni di persone, già a forte rischio di sopravvivenza a causa dell’embargo quasi totale applicato dall’Arabia Saudita nelle aree costiere sotto il proprio controllo.
Forze fedeli a Riyadh e al deposto governo yemenita del presidente-fantoccio, Abd Rabbo Mansour Hadi, hanno conquistato in questi giorni l’arteria stradale che collega Hodeidah alla capitale, Sana’a, mettendo in pericolo le aree dell’interno del paese e quelle controllate dagli Houthi.
La “certificazione” rilasciata questa settimana dal segretario di Stato americano, in ogni caso, è una formalità richiesta da una norma inserita dal Congresso di Washington nella legge di finanziamento che per l’anno 2019 ha stanziato la cifra record di 717 miliardi di dollari da destinare alle operazioni militari. Per rispondere in qualche modo al moltiplicarsi di critiche alla guerra in Yemen, senatori e deputati americani avevano appunto imposto al dipartimento di Stato di certificare che Arabia Saudita ed Emirati Arabi avevano fatto progressi nel proteggere i civili.
In caso contrario, sarebbero stati congelati i fondi che consentono agli Stati Uniti di rifornire in volo gli aerei da guerra delle due dittature del Golfo nelle operazioni di bombardamento sulla popolazione yemenita.
Che la prescrizione stabilita dal Congresso fosse ridicolmente inefficace era evidente fin dall’inizio, tanto che è stata superata con una semplice dichiarazione-farsa del segretario di Stato. Singolarmente, Pompeo ha accompagnato però la certificazione relativa allo Yemen con un rapporto, già pubblicato dall’agenzia di stampa AFP, nel quale egli stesso riconosceva il numero troppo alto di vittime civili nel conflitto in corso.
L’eventuale fine dei rifornimenti in volo assicurati dagli americani non avrebbe comunque fatto cessare la collaborazione degli USA nei crimini commessi in Yemen. Washington avrebbe tra l’altro potuto continuare in maniera indisturbata a vendere armi per decine se non centinaia di miliardi di dollari a Riyadh e Abu Dhabi, così come a fornire informazioni di intelligence per individuare gli obiettivi da bombardare e a impiegare le proprie forze speciali direttamente sul campo.
Se anche le rassicurazioni del dipartimento di Stato venissero prese sul serio, ci sarebbe da chiedersi quali sono i criteri con cui è stato giudicato l’impegno saudita nel limitare i massacri di civili in Yemen. Solo nel mese di agosto, le forze che fanno capo a Riyadh hanno commesso alcune delle stragi più atroci di una guerra già segnata da numerosissimi episodi raccapriccianti.
Una nuova ondata di orrore a livello internazionale aveva provocato ad esempio il bombardamento con un ordigno di fabbricazione USA di uno scuolabus il 9 agosto scorso nella località di Dahyan, sotto il controllo dei “ribelli” Houthi. In quell’occasione erano stati uccisi circa 40 bambini e 11 adulti. Il 23 dello stesso mese, poi, un altro bombardamento aveva causato la morte di oltre 20 bambini e quattro donne in fuga dalla città di Hodeidah.
Casi di questo genere hanno fatto registrare un’impennata negli ultimi tempi, a conferma anche dell’inutilità della speciale commissione con il compito di indagare sulle vittime civili in Yemen, creata dal regime saudita in seguito all’aumentare delle pressioni internazionali.
Il livello di criminalità di Arabia Saudita, Emirati Arabi e Stati Uniti nella loro condotta in Yemen trova riscontro anche nella gestione sia delle comunicazioni relative al conflitto, come appunto la “certificazione” di Mike Pompeo, sia del faticosissimo processo diplomatico in atto.
A questo proposito, le due monarchie del Golfo hanno sostenuto che l’offensiva di Hodeidah si è resa necessaria alla luce dello stallo dei negoziati mediati dall’ONU. Il tavolo convocato a Ginevra nei giorni scorsi era però saltato per l’assenza forzata dei rappresentanti Houthi, costretti a mancare l’appuntamento con la diplomazia dopo che il regime saudita aveva negato al loro volo l’autorizzazione a lasciare lo Yemen.
Da ricordare è anche una recente clamorosa indagine della Associated Press che ha dimostrato come in questi anni di guerra la “coalizione” guidata da Riyadh abbia intrattenuto rapporti più che sospetti con la filiale di al-Qaeda in Yemen (AQAP o al-Qaeda nella Penisola Arabica). Arabia Saudita ed Emirati hanno ad esempio pagato comandanti jihadisti per consentire l’ingresso delle loro forze armate in determinate località yemenite.
In altre occasioni, addirittura, combattenti di al-Qaeda sono stati arruolati per combattere a fianco della “coalizione” contro gli Houthi. Secondo la Associated Press, gli Stati Uniti erano al corrente di questi accordi e, spesso, hanno sospeso la campagna di bombardamenti con i droni che da anni conducono in Yemen in nome della lotta al terrorismo.
Con l’intervento di mercoledì, insomma, Washington ha dato il proprio sigillo ufficiale alla prosecuzione e all’intensificazione del massacro della popolazione yemenita, di cui gli USA sono tra i diretti responsabili, mettendo come sempre davanti alla vita di decine di milioni di civili i propri interessi strategici e quelli dei loro alleati.
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Dopo una pericolosa escalation di tensioni negli ultimi anni, da qualche tempo Cina e Giappone stanno facendo registrare un netto miglioramento nei rapporti bilaterali. Il fattore che sembra favorire una certa distensione tra i due vicini è prima di tutto l’agenda protezionista dell’amministrazione Trump, intenta a fare pressioni e ad applicare misure commerciali punitive contro entrambi i paesi in nome della pseudo-dottrina nazionalista “America First”.
In un’intervista a un giornale locale a inizio settembre, il premier giapponese, Shinzo Abe, aveva salutato il “completo ritorno alla normalità” di una relazione con Pechino che rischiava di precipitare in un vortice di provocazioni e minacce, in larga misura come conseguenza della “svolta” strategica americana in Asia, avviata ai tempi dell’amministrazione Obama.
L’abbandono sostanziale del multilateralismo da parte di Trump e le guerre commerciali lanciate precocemente anche contro alleati hanno portato a un rimescolamento strategico in Estremo Oriente come altrove. I primi passi verso la riconciliazione tra Tokyo e Pechino sono così caratterizzati da un’impronta polemica verso gli USA.
A confermarlo sono le varie dichiarazioni di esponenti di entrambi i governi in occasione di incontri bilaterali o nel quadro di summit aperti ad altri paesi. A fine agosto, il ministro delle Finanze nipponico, Taro Aso, in visita a Pechino aveva ad esempio avvertito, in un chiaro messaggio a Washington, che “il protezionismo non favorisce nessun paese”. Nel corso del recentissimo Forum dell’Asia Orientale, ospitato da Putin a Vladivostok, al termine di un faccia a faccia con il presidente cinese, Xi Jinping, Abe ha inoltre affermato che Giappone e Cina “hanno la responsabilità di promuovere la stabilità globale” e di giungere alla “denuclearizzazione della Corea del Nord”.
Proprio sul processo diplomatico in corso tra Washington e Pyongyang il governo giapponese si era trovato inizialmente spiazzato e continua tuttora a manifestare malumori. Secondo la stampa americana, Abe sarebbe stato escluso da ogni decisione presa dall’amministrazione Trump sulla Nordcorea.
Ufficialmente, le ansie di Tokyo sarebbero da collegare all’ipotesi che gli USA finiscano per accettare che Kim Jong-un conservi i propri missili nucleari a breve raggio, cioè in grado potenzialmente di colpire il Giappone, in cambio della distruzione degli ordigni in teoria capaci di colpire le città americane. In realtà, a pesare sull’irritazione di Abe è la prospettiva che la Corea del Nord cessi di essere dipinta come una minaccia alla sicurezza della regione, così da privare il suo governo di una delle principali giustificazioni per il processo di militarizzazione in atto a Tokyo.
Il primo ambito nel quale lo scontro, non solo retorico e diplomatico, ha fatto segnare un abbassamento dei toni tra Cina e Giappone è comunque quello della disputa territoriale attorno alle isole Senkaku (Diaoyu in cinese) nel Mar Cinese Orientale, controllate da Tokyo e rivendicate da Pechino. Su questa disputa i due paesi avevano rischiato in più occasioni il conflitto negli anni scorsi, soprattutto a causa dell’utilizzo delle contese marittime e territoriali da parte americana come leva per inasprire i rapporti tra la Cina e svariati paesi vicini.
Il lamento comune di Pechino e Tokyo nei confronti di Washington riguarda invece la politica commerciale dell’amministrazione Trump. La Cina ha già dovuto subire l’aumento dei dazi americani sulle proprie esportazioni verso gli USA per un valore di 50 miliardi di dollari. A breve, dopo che Pechino avrà inevitabilmente ignorato le richieste USA, la Casa Bianca potrebbe applicare nuove tariffe doganali su altri 200 miliardi di dollari di beni importati dalla Cina.
Il Giappone, da parte sua, è stato colpito dall’incremento dei dazi americani su acciaio e alluminio. Soprattutto, a differenza di altri alleati di Washington, il governo Abe si è visto respingere la richiesta di esenzione da queste stesse tariffe. Il business e la classe politica nipponica sono anche in fermento per le possibili misure punitive minacciate da Trump sulle esportazioni di automobili verso gli Stati Uniti.
Ancora prima dell’insediamento ufficiale alla Casa Bianca di Trump, Abe aveva cercato in tutti i modi di costruire un rapporto privilegiato con la nuova amministrazione repubblicana, mentre ancora oggi sono evidenti gli sforzi di ostentare la solida alleanza che lega il suo paese agli USA. Fin dall’inizio del mandato di Trump, tuttavia, erano emerse chiare tensioni tra Washington e Tokyo.
Anzi, proprio nelle prime settimane della presidenza Trump era arrivata probabilmente l’iniziativa più penalizzate per il Giappone, cioè il ritiro degli Stati Uniti dal controverso mega-trattato di libero scambio noto come Partnership Trans Pacifica (TPP). Abe aveva investito buona parte del proprio capitale politico per far digerire, soprattutto alla base rurale del proprio partito, un accordo che molti in Giappone ritenevano dannoso per l’economia del paese.
L’ingresso nel TPP a guida americana era visto inoltre dalla classe dirigente nipponica come il veicolo per la promozione dei propri interessi e delle ambizioni da grande potenza, com’è ovvio nel quadro della competizione con la Cina, significativamente esclusa dal trattato stesso. La decisione di Trump aveva insomma gettato le basi per le successive frizioni tra USA e Giappone. In seguito il governo di Tokyo - assieme a quello australiano, altro alleato storico di Washington - si sarebbe fatto promotore del rilancio di un TPP rivisto e orfano degli Stati Uniti.
In modo ancora più significativo, Abe ha aperto ai progetti infrastrutturali, commerciali e di integrazione che sono al centro delle politiche di sviluppo cinesi. Nell’ambito dei trattati di libero scambio, il Giappone ha accolto l’invito a entrare nella Partnership Economica Regionale Comprensiva (RCEP), considerata da molti come rivale e alternativa cinese del TPP. La RCEP include anche paesi come Australia, Corea del Sud, India e Nuova Zelanda. Tutti i firmatari hanno definito i punti principali dell’accordo in un recente vertice tenuto a Singapore, mentre un’intesa definitiva potrebbe essere raggiunta entro il mese di novembre.
Il Giappone, secondo il giornale di Hong Kong South China Morning Post, starebbe poi discutendo l’ipotesi di un trattato bilaterale di libero scambio con Pechino. Quest’ultimo seguirebbe quello da poco stipulato con l’Unione Europea e darebbe ulteriore impulso a una tendenza diametralmente opposta a quella di impronta protezionista del governo di Washington.
Alla luce di questi sviluppi è inevitabile che Tokyo abbia infine riconsiderato il proprio approccio al colossale piano di integrazione euro-asiatica cinese, noto col nome di Belt and Road Initiative (BRI). Il Giappone, in sintonia con gli USA, aveva nel recente passato ostacolato e cercato di boicottare i progetti di Pechino in questo senso, proponendosi tra l’altro come partner strategico-militare o come investitore alternativo alla Cina in svariati paesi nell’orbita della BRI.
Sotto la spinta delle dinamiche già esposte, invece, il governo Abe sembra ora guardare con interesse alla “nuova Via della Seta” cinese. Nel mese di ottobre, lo stesso primo ministro dovrebbe recarsi in visita a Pechino, dove è prevista la firma di una serie di accordi per la realizzazione di progetti che rientrano nel quadro della BRI. La natura di questi accordi, se implementati, rappresenta un salto qualitativo nei rapporti sino-giapponesi e prospetta benefici cruciali per i piani di Pechino, a fronte degli ostacoli che gli Stati Uniti stanno cercando di creare in tutti i modi.
Il think tank americano Stratfor, notoriamente legato agli ambienti dell’intelligence, in un’analisi pubblicata nei giorni scorsi sul proprio sito ha portato come esempio della partnership tra Cina e Giappone all’interno della BRI la realizzazione di linee ferroviarie ad alta velocità in Thailandia. Secondo Stratfor, una “joint venture col Giappone in un paese terzo segnerebbe un passo avanti negli sforzi cinesi di coinvolgere altre potenze, soprattutto tra i paesi avanzati, nei progetti infrastrutturali della Belt and Road Initiative”. La partecipazione del Giappone tornerebbe cioè utile in primo luogo per controbattere alle polemiche sull’espansionismo cinese e per superare resistenze e perplessità dei paesi che rientrano nella rete commerciale e strategica pianificata dalla Cina.
Nonostante il relativo disgelo, persistono numerosi fronti sui quali Tokyo e Pechino continuano a essere rivali strategici. Ciò dipende non solo da questioni storiche, ma anche dall’ambizione, in un clima internazionale sempre più competitivo, della classe dirigente nipponica di perseguire politiche indipendenti a seconda dei propri interessi. L’intenzione di Abe di intraprendere la strada della militarizzazione del paese, tramite una riforma costituzionale annunciata da tempo, è in quest’ottica un segnale delle intenzioni di Tokyo e, assieme, dei pericoli per un futuro scontro diretto con le altre potenze regionali.
La stessa influenza destabilizzante dell’amministrazione Trump ha un effetto tutt’altro che univoco sul ricalibramento strategico giapponese. Le pressioni USA sui propri principali rivali su scala globale stanno infatti contribuendo a consolidare una partnership a tutto campo tra Cina e Russia. Un processo, quest’ultimo, che in prospettiva minaccia di ridurre gli spazi di manovra di Tokyo nel trattare o cercare di ottenere concessioni da Pechino, così come dal governo di Mosca.