La situazione in Turchia continua a presentare molti profili di interesse da vari punti di vista. Uscito vincitore dal tentativo di golpe dell’estate 2016, Tayyp Erdogan, il volitivo e ambizioso Sultano, ha proceduto in modo efficiente e spietato a fare i conti con i suoi numerosi e variegati nemici.

 

Un primo raggruppamento di costoro è costituito dai cosiddetti “gulenisti”, adepti della setta diretta dall’omonimo leader islamico, da tempo risiedente negli Stati Uniti, e forte di un radicamento notevole in settori chiave dell’amministrazione pubblica e del mondo dell’impresa turchi. Fino a poco tempo prima del golpe i rapporti tra Erdogan e Gulen erano improntati alla massima cordialità e alla collaborazione senza riserve.

 

 

E’ probabile che sulla rottura tra i due abbia avuto peso determinante la questione dell’atteggiamento da tenere nei confronti degli Stati Uniti, tradizionalmente nume tutelare dei regimi turchi. La decisione di Erdogan di smarcarsi dal tradizionale rapporto di sudditanza nei confronti di Washington, sulla base di una valutazione lucida ed intelligente della nuova costellazione di potere esistente a livello internazionale, ha probabilmente concorso a determinare in modo decisivo la rottura con Gulen.

 

E’ anche probabile che, in seguito a tale rottura, si sia determinato il bizzarro golpe dell’estate 2016, che presenta tuttavia ancora molti lati oscuri e si configura per vari aspetti come una vera e propria trappola che l’astuto presidente turco ha saputo preparare per i suoi rivali.

 

Fatto sta che il golpe fallito è stato il pretesto per una nuova fortissima stretta repressiva. A farne le spese, non solo e non tanto i "gulenisti", che pure sono stati epurati senza pietà, specie qualora non facessero immediatamente atto di sottomissione al vincitore, ma anche e soprattutto i tradizionali antagonisti dei regimi turchi, e cioè la sinistra e i Kurdi.

 

Tali soggetti antagonisti avevano compiuto giganteschi passi avanti specie a partire dal 2015, quando l’alleanza fra di essi, mediante il nuovo partito HDP, era riuscita a superare l’elevatissima soglia elettorale del 10%, portando in Parlamento una nutrita pattuglia di rappresentanti. Proprio a partire da tale epoca si era strutturata una strategia di risposta del regime, basata su vari elementi. In primo luogo, la decisione di rompere i colloqui di pace con i Kurdi, per rilanciare la guerra interna come elemento di coesione e di consenso, dato il forte nazionalismo di notevoli settori della popolazione turca.

 

In secondo luogo, una serie di atti terroristici che hanno avuto per bersaglio proprio i Kurdi e la sinistra turca pacifista: dall’attentato al comizio finale dell’HDP a Diyarbakir nel giugno 2015 con 4 morti, a quello nella cittadina di frontiera di Suruc (28 morti tra i giovani socialisti turchi che si accingevano a portare soccorsi alla cittadella di Kobane assediata), a quello infine alla manifestazione pacifista di Ankara del 20 ottobre 2015, poco prima delle elezioni nuovamente convocate da Erdogan per tentare di recuperare i voti perduti a giugno, che fece ben 103 morti. Un crescendo di violenza terrorista di cui formalmente è stato autore l’ISIS ma nel quale si può scorgere con nettezza la presenza dello zampino dei servizi turchi.

 

In terzo luogo, il tradizionale ingrediente della repressione di massa, con decine di migliaia di arresti, condanne e licenziamenti in tutto il Paese, in particolare nel ceto medio riflessivo (avvocati, intellettuali, accademici, medici, giornalisti), ma anche nei gruppi dirigenti della classe operaia, a partire da quelli di alcuni combattivi sindacati.

 

In tale contesto è stata colpita anche la CHD, associazione di avvocati progressisti che fa parte delle associazioni dei giuristi democratici a livello europeo e internazionale e gode di un notevole seguito fra gli avvocati nelle principali città della Turchia. Il processo nei loro confronti, cui abbiamo assistito con una folta delegazione di giuristi democratici italiani, si è chiuso mercoledì 20 marzo con una serie di condanne molto pesanti, fino a diciotto anni di carcere.

 

A dodici anni è stato condannato Selcuk Kozagacli, il presidente dell’Associazione, figura nota di avvocato democratico e militante, che fra l’altro aveva difeso i minatori vittima della strage sul lavoro a Soma e i manifestanti di Gezi Park. Ma tutti  gli avvocati e le avvocate aderenti alla CHD sotto processo, una ventina, sono stati condannati in sostanza per aver preso sul serio la loro professione facendosi latore delle istanze e dei diritti delle enormi fette di popolazione turca e kurda escluse ed emarginate.

 

Il processo, come denunciato dalla Dichiarazione adottata a fine processo da una serie di organizzazioni forensi europee, è stato una vera e propria parodia dello Stato di diritto. La magistratura turca, mai esemplare per attaccamento ai principi e alle norme relative ai diritti umani, è stata ulteriormente smantellata dai processi di epurazione tuttora in corso, e può avvenire che processi anche importanti siano affidati a giovani appena usciti dalle università, quasi sempre succubi delle pressioni provenienti dal governo e dal ministero della giustizia.

 

Accade così che il tribunale, come è avvenuto nel caso della CHD, infligga pene pesantissime sulla base di testimonianze anonime e documenti contraffatti, “prove” da cui risulterebbe l’affiliazione degli avvocati al DHKPC, partito dell’estrema sinistra turca con un passato di sporadica lotta armata. In realtà, il vero crimine, agli occhi del regime turco, è quello di aver fatto gli avvocati, difendendo, fra l’altro, come è normale che sia, anche i membri del DHKPC, ma il diritto internazionale (Principi delle Nazioni Unite in materia) vieta categoricamente ogni identificazione tra avvocati e clienti, così come proibisce le intimidazioni nei confronti degli avvocati e il tentativo di frapporre ostacoli al loro operato, giustamente ritenuto essenziale per l’esistenza stessa dello Stato di diritto.

 

Non è ancora del tutto chiaro fino a che punto la ripresa in grande stile della guerra, anche con aggressioni nei confronti del territorio siriano, come ad Afrin, tuttora occupata da truppe turche e milizie fondamentaliste collegate alla Turchia per arginare l’avanzata dei Kurdi siriani delle FDS, e della repressione possano garantire un futuro sereno ad Erdogan e al suo governo. Un primo test significativo si avrà nelle prossime elezioni locali di domenica 31 marzo. Quello che è certo è che ingredienti del genere non servono in genere a molto, quantomeno nel medio e lungo periodo.

 

La Turchia ha invece urgente bisogno di una vera e propria rifondazione democratica, con il riconoscimento pieno dell’identità e dei diritti dei Kurdi e di quelli più in generale delle enormi fette di popolazione che hanno potuto beneficiare in modo solo marginale del boom economico degli anni scorsi e che pagano oggi duramente il prezzo della crisi economica. Tale rifondazione costituirà senza dubbio un enorme contributo alla pace e alla democrazia nella tormentata regione medio-orientale e in tutto il mondo.

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