Due recenti episodi riportati dalla stampa americana aiutano a fare luce sulle divisioni interne all’amministrazione Trump in relazione al difficile negoziato in fase di stallo con la Corea del Nord. Gli esempi mettono in chiaro soprattutto la sostanziale impotenza del presidente nel prendere decisioni autonome di fronte alle pressioni di alcuni influenti consiglieri, in larga misura riconducibili agli ambienti “neo-con” dell’apparato di potere negli Stati Uniti.

 

 

Il primo caso ha a che fare con la confusione creatasi alla Casa Bianca la settimana scorsa attorno all’implementazione di un nuovo round di sanzioni punitive contro il regime di Kim Jong-un. Il 21 marzo, il dipartimento del Tesoro USA aveva dato notizia dell’aggiunta alla propria lista nera di due compagnie di spedizioni marittime cinesi implicate in commerci con la Corea del Nord in violazione delle sanzioni in vigore. Con lo stesso provvedimento veniva anche aggiornato un elenco di imbarcazioni nordcoreane messe all’indice perché ugualmente impegnate in questi traffici “illegali”.

 

Il giorno successivo, un tweet del presidente Trump annunciava lo stop a queste stesse sanzioni del Tesoro, mandando con ogni probabilità su tutte le furie parecchi membri della sua amministrazione. A questo punto, alla Casa Bianca devono essere scattate frenetiche discussioni, sfociate alla fine nell’annullamento dell’ordine presidenziale e nella conferma delle nuove sanzioni.

 

Per salvare la faccia ed evitare un’umiliazione pubblica del presidente, la Casa Bianca aveva allora cercato di proporre alla stampa una versione alternativa dei fatti. Con il suo tweet, cioè, Trump avrebbe inteso riferirsi non alle misure appena decise dal Tesoro, bensì ad altre sanzioni in fase di studio e non ancora adottate. Questa ricostruzione era sembrata subito molto dubbia, ma era servita quanto meno a placare la risposta non esattamente entusiastica dei nordcoreani alle sanzioni. Pyongyang aveva infatti ritirato immediatamente la propria delegazione da un “ufficio di collegamento” creato assieme al governo sudcoreano alcuni mesi fa. Dopo la spiegazione della Casa Bianca, lo staff nordcoreano era tornato al suo posto, evitando una rottura sia con Seoul che con Washington.

 

Forse proprio in seguito alla risoluzione senza eccessive tensioni della questione, fonti interne all’amministrazione Trump hanno però deciso di offrire alla stampa USA la verità dietro alla vicenda, facendo fare una pessima figura al presidente e, soprattutto, aumentando il rischio di complicare ulteriormente le trattative con Pyongyang. Martedì, quindi, Bloomberg News ha confermato che Trump voleva effettivamente sospendere le sanzioni appena imposte alle due compagnie cinesi, ma esponenti del suo staff lo hanno convinto a desistere, mentre la successiva versione dei fatti creata a tavolino era solo un diversivo, anche perché non sembrano esserci al momento altre misure punitive in preparazione contro la Corea del Nord.

 

La dinamica della storia appare ancora più preoccupante se si considera che, probabilmente, l’intervento di Trump per fermare le nuove sanzioni era avvenuto in risposta a istanze provenienti proprio dal regime nordcoreano. Secondo un’analisi del blog MoonOfAlabama, per cominciare, la decisione del dipartimento del Tesoro USA di adottare le nuove sanzioni aveva rappresentato uno schiaffo a Pyongyang, dal momento che il provvedimento ignorava un precedente appello dell’ambasciatore nordcoreano all’ONU, affinché la comunità internazionale allentasse le sanzioni per alleviare la nuova emergenza alimentare che sta colpendo il suo paese.

 

Non solo, il già ricordato ritiro del personale nordcoreano dall’ufficio congiunto aperto con Seoul in risposta alle nuove sanzioni USA aveva forse spinto il presidente sudcoreano, Moon Jae-in, a chiedere a quello americano un intervento pacificatore. Sempre secondo MoonOfAlabama, il tweet di Trump che intendeva revocare le sanzioni appena applicate era appunto il risultato di questi sforzi diplomatici. L’intervento di uomini vicini al presidente americano per cancellare lo stop alle nuove sanzioni potrebbe essere stato perciò un blitz diretto appositamente a ostacolare il processo diplomatico.

 

Provare a identificare i principali responsabili della linea dura statunitense non sembra essere ad ogni modo un’impresa proibitiva. Essi sono quasi certamente il segretario di Stato, Mike Pompeo, e il consigliere per la Sicurezza Nazionale, John Bolton. Entrambi sono infatti coinvolti con un ruolo distruttivo anche nel secondo episodio emerso nei giorni scorsi in merito ai negoziati sul nucleare nordcoreano.

 

In questo caso, la vicenda si riferisce al summit di fine febbraio a Hanoi, in Vietnam, tra il presidente Trump e il leader nordcoreano, Kim Jong-un. A distanza di svariati giorni dall’epilogo sostanzialmente fallimentare del faccia a faccia, un resoconto fatto dalla vice-ministra degli Esteri nordcoreana, Choe Son-hui, su quanto accaduto a Hanoi ha rivelato ancora una volta come le intenzioni di Trump si siano scontrate con quelle dei suoi più stretti collaboratori, col risultato di vedere svanire qualsiasi possibilità di progresso nelle trattative.

 

A differenza di quanto era stato sostenuto subito dopo il vertice anche dallo stesso presidente americano, i colloqui non si erano arenati sulla richiesta nordcoreana di ottenere una cancellazione di tutte le sanzioni che gravano sul paese asiatico, ma soltanto di una parte di esse, quelle cioè che incidono maggiormente sull’economia e sulle condizioni della popolazione. Di fronte a questa richiesta da parte di Kim, il presidente Trump aveva mostrato una certa disponibilità, a patto che un eventuale accordo prevedesse un meccanismo per ripristinare le sanzioni nel caso Pyongyang non avesse rispettato gli impegni presi o avesse riavviato le attività nucleari. Questo dispositivo diplomatico era d’altra parte in linea con le indiscrezioni che erano circolate alla vigilia del summit di Hanoi sulle posizioni americane.

 

Gettate in questo modo le basi per un’intesa, ha spiegato la vice-ministra nordcoreana Choe, la trattativa si è improvvisamente arenata a causa dell’intervento di Bolton e Pompeo, i quali “hanno creato ostacoli” che hanno impedito al vertice di produrre “risultati significativi”. In un ulteriore commento, la stessa diplomatica ha aggiunto che i due esponenti dell’amministrazione Trump avrebbero “espresso parole ineducate” e “contrarie alle intenzioni del presidente” americano.

 

Questa ricostruzione può in qualche modo risentire dei tentativi da parte della Corea del Nord di promuovere la versione, condivisa dal presidente americano, del presunto idillio esistente tra Trump e Kim, in modo da tenere in vita un negoziato a dir poco complesso. Essa risulta tuttavia in buona parte credibile, poiché è supportata dai numerosi esempi di segnali contrastanti e contraddittori sul processo diplomatico nordcoreano provenienti da Washington in questi mesi.

 

Alle frequenti aperture o rassicurazioni di Trump e di uomini a lui vicini si alternano spesso messaggi minacciosi o considerazioni pessimistiche sulle prospettive di pace. Ciò rivela come la fazione “neo-con” del governo americano continui a chiedere niente meno che la totale sottomissione del regime di Kim e la rinuncia preventiva al programma nucleare in cambio di una normalizzazione dei rapporti bilaterali o anche solo di una qualche modesta concessione.

 

Lo spirito della trattativa tra USA e Corea del Nord, quanto meno secondo l’interpretazione di Pyongyang, dovrebbe invece prevedere un allentamento progressivo delle tensioni e l’adozione di misure reciproche che favoriscano un clima di fiducia necessario alla stipula di un accordo definitivo. In questa direzione è sembrato e sembra talvolta muoversi ancora il presidente Trump, ma ambienti influenti nella sua stessa amministrazione continuano a ostacolare il negoziato, cercando di imporre una linea dura che rischia di far naufragare definitivamente i progressi registrati in quest’ultimo anno.

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